domenica 28 febbraio 2010

The Lovely Susan


Mario Sesti la presenta ricordando la celebre descrizione che di lei fece qualche anno fa un giornalista americano: “gli occhi più penetranti e le battute più pungenti di Hollywood dai tempi di Bette Davis”. Lei si presenta sorridente e stupenda in un nero finto-casual (pantaloni, camicia elegante e stivali rigorosamente senza tacco), saluta il pubblico che nel frattempo si spertica per applaudire ed infonderle calore (quello che urla in maniera più forsennata e sconveniente sono ovviamente io) e si siede al centro delle tre poltrone allestite sul palco. Susan Sarandon è il primo ospite di Viaggio nel cinema americano, una serie di incontri all’Auditorium realizzati dalla Fondazione Cinema per Roma.

Per prima cosa Susan saluta la sua famiglia italiana presente in sala (le sue radici sono ragusane). Altro applauso scrosciante. Subito dopo inizia l’intervista e la Sarandon è meravigliosa in tutti i sensi: anti-diva per eccellenza, nessun vezzo da star, naturalissima, brillante, ironica, intelligente e bellissima, nei suoi incredibili, impossibili 63 anni. Risponde alle domande con lo stesso acume e la stessa leggerezza che le hanno permesso di attraversare 40 anni di cinema americano apparendo in una miriade di film e almeno in cinque cult-movie: The Rocky Horror Picture Show, Atlantic City, Bull Duhram, Thelma&Louise e Dead Man Walking.

C’è differenza rispetto all’approccio verso la recitazione tra cineasti americani ed europei?
No. L’unica differenza è che alcuni registi ti rivolgono la parola ed altri no, a prescindere dalla loro provenienza (risate del pubblico). Alcuni sono più interessati al personaggio, altri all’azione ed altri ancora non sono interessati a niente (risate). La vera differenza la fanno i produttori che investono i soldi. I cliché stabiliscono che i film americani abbiano grandi esplosioni e i film europei siano molto dialogati, pieni di nudo e lenti (risate). Ma ci sono anche tantissimi film lenti, con scene di nudo, che vengono realizzati in America e che non trovano una distribuzione. Molti film interessanti oggi vengono realizzati per la HBO o altri canali televisivi che non hanno il problema distributivo di dover raggiungere per forza un vasto pubblico, ma possono rivolgersi a determinate fette di pubblico.

Preferisce quando i registi le parlano molto o quando non le danno alcuna indicazione?
Ad essere onesta sono pochissimi i registi che ti parlano o che danno consigli sulla recitazione. Il 90% del loro lavoro consiste nel fare un buon casting e nel creare la giusta atmosfera che consenta ad un attore di sentirsi sicuro. Louis Malle praticamente non parlava con nessuno. Le cose variano da regista a regista: con Luis Mandoki, ad esempio, comunicavamo molto, con altri quasi per nulla… Io poi sono una a cui piace sentirsi dare dei consigli.


In Thelma & Louise come combaciava la prospettiva femminile della sceneggiatrice e delle protagoniste con quella maschile di Ridley Scott? C’erano delle differenze?
Ridley ha fatto qualcosa di estremamente brillante. Pur non dandoci alcun consiglio sulla recitazione ha girato il film in modo che il racconto acquistasse una valenza molto più grande, ampia ed eroica di quanto noi ci rendessimo conto. Quando mi propose il ruolo ero indecisa se accettare perché non volevo fare un revenge movie alla Charles Bronson. Abbiamo quindi cambiato molte cose della sceneggiatura nel corso delle riprese.

La scena dell’omicidio, ad esempio, era descritta come un’esecuzione, con Louise che si mette in posizione con l’intenzione di sparare, distanziando i piedi e tenendo la pistola con tutte e due le mani. Secondo me, anche in base alla battuta finale (“Watch your mouth, buddy!”), Louise vuole solo zittire Arlan, non si rende neanche conto di avere la pistola in mano. E dopo averlo ucciso si sente in colpa e avverte che dovrà pagare un prezzo per quello che ha fatto, un sentimento assente nei revenge movie.

Altri cambiamenti furono inseriti nella scena in cui facciamo saltare il camion. Secondo la sceneggiatura avremmo dovuto danzare intorno al camion dopo l’esplosione, ma io ritenevo che Louise non fosse vendicativa: lei cerca soltanto di capire perché gli uomini si comportano in un determinato modo o parlano in una certa maniera. Per questo motivo abbiamo aggiunto alcune battute (ad esempio quando chiedono al camionista se ha un sorella) che sono atipiche in un revenge movie con protagonisti maschili.
Anche il finale fu modificato. Lo girammo proprio al termine delle riprese. Il sole stava tramontando e non c’era stato praticamente tempo per parlarne. Nella sceneggiatura non era previsto il bacio, ma io ho afferrato Geena Davis e l’ho baciata. Il bacio a quel punto funzionava, mi sembrava giusto. Era l’ultimo giorno di riprese e non potevano più toglierlo (risate).

Cosa succede quando rivedi i tuoi film dopo tanto tempo?
In realtà non li guardo nemmeno la prima volta (risate). La cosa strana è che quando ti capita di vederli ti rendi conto che sono state tagliate tante scene e modificate così tante cose che nella visione sei distratto dal ricordo di ciò che hai effettivamente girato. Per questo cerco di trarre soddisfazione dalla recitazione nel momento in cui sono sul set e non mi preoccupo del risultato finale. E’ questo il motivo per cui il teatro fa molta più paura ma dà molta più soddisfazione, perché tu sei direttamente responsabile di quello che il pubblico vede in quel momento.



The Rocky Horror Picure Show la ha dato una popolarità enorme. Le capita ancora di essere fermata da persone che la riconoscono per quel film?
Il Rocky Horror in realtà era rimasto per due anni senza distribuzione: alla Fox proprio non sapevano cosa farsene, in che modo distribuirlo e a quale pubblico mostrarlo. Il budget era stato così basso che non valeva la pena di investire in una vera distribuzione. Solo ad un certo punto decisero di proiettarlo nei campus, nei cinema gay e nei circuiti d’essay, e divenne un film di culto.
Parte della mia fan mail è nata proprio col Rocky Horror: molte persone mi hanno raccontato di essere rimaste colpite e toccate da questo film. In fondo il messaggio è “Don’t dream it, be it” (Non sognatelo, siatelo), un invito a seguire i propri sogni, chiunque tu sia ed ovunque ti trovi. E Thelma & Louise invita invece a muoversi, ad andare via, a non adagiarsi. Da una parte la necessità di essere, di trasformare il sogno in realtà, e dall’altra un invito all’azione. E’ interessante notare come i messaggi di questi due film possano essere visti in connessione: riguardano persone che si trovano dall’altra parte e ruotano entrambi intorno alla scoperta di sé.

Ci sono dei ruoli che avrebbe voluto interpretare?
Ci sono moltissimi bravi attori a cui non vengono offerti buoni ruoli. Quando hai l’opportunità di recitare in un bel ruolo ed il film funziona, te ne viene offerto subito un altro ed in questo modo continui a lavorare. Ci sono molti ruoli che ho fatto che avrebbero potuto essere interpretati in maniera diversa ma ugualmente bene da altre attrici. Credo che a tutte piacerebbe interpretare qualsiasi ruolo che oggi viene offerto a Meryl Streep. E’ difficile trovare del buon materiale su cui lavorare o addirittura avere l’opportunità di farlo. Una strada alternativa è quella di cercare del materiale da sviluppare in prima persona per potersi ricavare un buon ruolo, come ho fatto per Dead Man Walking.
Ci sono anche molti ruoli maschili interessanti… Non voglio dire che mi piacerebbe interpretare Lawrence D’Arabia o Gandhi, non voglio fare l’uomo (risate). Ma generalmente nel film l’uomo fa tutto e la donna riesce soltanto a dire: “Ma è fantastico!” (risate). Se leggiamo i giornali ci sono tante storie interessanti da narrare e i protagonisti non sono necessariamente sempre e soltanto uomini bianchi eterosessuali. E’ necessario trovare autori che sappiano raccontare storie e registi che abbiano delle idee in proposito. Ron Shelton era al suo primo film con Bull Duhram ma la sceneggiatura che aveva scritto era ottima e lui era molto preparato. Queste cose purtroppo non capitano spesso.

Riguardo alla recente evoluzione del 3D e degli effetti speciali, cosa significa per un attore recitare spesso di fronte al blue screen?
A volte un blue screen è più facile dell’attore con cui stai recitando (risate). Oggi le tecnologie dell’home video permettono di vedere a casa film in ottima qualità, sul televisore o sul pc. Se si spendono 15 dollari per andare al cinema deve essere per qualche cosa che non può essere visto se non sul grande schermo. Ne deve valere la pena. Quindi prevedo in futuro sempre più 3D e film come Avatar. Ma ci sono anche piccoli film incentrati sui personaggi che non trovano distribuzione perché in America la stragrande maggioranza delle sale è di proprietà delle grosse major e gli esercenti indipendenti sono oramai scomparsi. Per questo motivo i festival sono sempre più importanti: danno visibilità ai piccoli film che in questo modo possono ottenere l’attenzione necessaria e trovare qualcuno che li distribuisca.
Penso poi che un conto sia vedere un film al cinema e un conto sia vederlo sul piccolo schermo. E’ un peccato che venga a mancare l’esperienza collettiva della visione sul grande schermo, l’idea di un gruppo di persone che fa un’esperienza a luci spente nello stesso posto.



Come si prepara per affrontare un personaggio? C’è un film o un personaggio al quale è legata particolarmente?
E’ una domanda stile La scelta di Sophie questa (risate)! Ho trovato interessanti tutti i personaggi che ho fatto anche perché mi permettevano di esprimere sentimenti diversi dai miei. La cosa bella dell’essere attore è potersi calare nei panni di persone diverse da te. Hai la possibilità di vivere e fare cose che non avresti mai sognato di fare e, dovendoti avvicinare al personaggio, sviluppi un grande senso di compassione e comprensione per gli altri.
Il segreto sta nell’abbandonarsi e nell’arrendersi, nell’essere rilassati. In alcuni casi puoi fare riferimento a molti elementi specifici nel costruire un personaggio, soprattutto quando interpreti una persona realmente esistita, anche se in questo caso hai anche una maggiore responsabilità. Altre volte devi ricorrere alla tua immaginazione.
Mi imbarazza dirlo ma non ho mai studiato recitazione, ho imparato lavorando sul campo, ma la linea di fondo è cedere ed arrendersi al personaggio. Poi devi anche concentrarti sul servizio che come attore devi rendere al film nel suo insieme: l’attore è uno strumento e come tale deve essere funzionale. Non c’è una cosa giusta o sbagliata da fare, bisogna solo chiedersi se una determinata cosa funziona o meno in rapporto al quadro generale del film.

Quale è stato il segreto per diventare Susan Sarandon?
Sono qua perché sono falliti tutti i piani che avevo fatto (risate e applausi). Ai miei figli dico spesso che il loro compito è quello di sbagliare. Soprattutto adesso, visto il mondo in cui viviamo, la cosa migliore che si possa fare è adattarsi, essere flessibili e restare svegli. Soltanto facendo degli errori si può imparare e capire.


Le piacerebbe tornare ad interpretare un musical?
E’ strano che io abbia dovuto cantare in così tanti film, dal momento che canto così male (risate)! Anche in Dead Man Walking mi è toccato cantare! E’ la cosa che mi piace meno in assoluto, proprio perché non mi sento affatto preparata. La ragione per cui feci il Rocky Horror aveva a che fare col mio ego, era per dimostrare che anch’io ero in grado di cantare almeno un po’. Pensavo che se qualcuno mentre giravamo mi avesse dato della droga o qualunque cosa per vincere la mia fobia di cantare, cosa che non è avvenuta, avrei potuto farcela (risate)!

Nella sua galleria di personaggi, ce n’è qualcuno dal quale è stato difficile staccarsi alla fine delle riprese?
Quando varchi la soglia di casa ed hai dei figli non c’è più spazio per il personaggio. Ma devo dire che Sister Helen è forse quello che più di ogni altro mi ha esaurita e prosciugata. In genere, però, sono i ruoli per i quali credi di non aver fatto un buon lavoro che continuano a perseguitarti, come dei brutti sogni. E’ difficile uscire da un personaggio quando non sei soddisfatta e pensi che avresti potuto fare di meglio.

Cosa ci dobbiamo aspettare dal futuro del cinema, sempre più film come Avatar?
La cosa importante è che ci siano belle storie da raccontare e persone in grado di farlo al meglio. Non vorrei che si producessero solo film che sfruttino e ripetano il successo di altri film per fare soldi, come funziona l’industria oggi. In fondo dipende da come voi deciderete di spendere i vostri soldi. Dovete chiedere ed osare.


Amen. L’intervista è finita, Susan si concede all’abbraccio della folla, firma autografi e stringe la mano al sottoscritto. Una mano ora benedetta da quella che considero da vent’anni una delle mie attrici preferite in assoluto. Ed una delle più grandi della storia del cinema. Lasciate ad ognuno le divinità che si merita. Io ho scelto le mie.

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