domenica 4 ottobre 2009

Safe, la devastante angoscia del non essere

In una domenica pomeriggio solitaria e leggermente deprimente un vago eppur persistente senso di inadeguatezza mi ha spinto a rivedere Safe. La visione del film ha ovviamente contribuito ad aggravare il senso di inquietudine tanto che adesso mi sembra di soffrire di asma e di disturbi psico-fisici.


E’ davvero uno strano animale questo film di Todd Haynes del 1995. Horror ambientale, thriller psicologico, riflessione sulle paure più profonde della società contemporanea, Safe è un animale dalle mille facce quanti sono i suoi livelli di lettura, che sfugge ad ogni definizione di genere ed ha acquistato con gli anni lo status di oggetto di culto. Per i ritmi lenti e ipnotici della messinscena, lo spessore metaforico dell’apologo e, non ultima, la devastante interpretazione di Julianne Moore nel ruolo che ha definitivamente rivelato il suo talento, dopo Short Cuts - America oggi di Robert Altman e Vanya sulla 42esima strada di Louis Malle.
Carol White è una annoiata e benestante casalinga della San Fernando Valley che ad un certo punto della sua vita normalissima diventa allergica a tutto quello che la circonda ed inizia a sviluppare problemi respiratori, asma, emorragie al naso e crisi di rigetto a contatto con gas tossici, spray, profumi e altre sostanze chimiche di varia natura. Haynes inquadra in campi totali la sua figura minuscola e spaurita all’interno di ambienti asettici, pulitissimi, impersonali che fanno risaltare ancor di più la sua desolazione e il suo senso di estraneità al mondo che la circonda e infine al suo corpo stesso. Ma l’improvvisa allergia di Carol all’inquinamento ambientale è in realtà metafora di un malessere più profondo ed “invisibile” (sull’invisibilità e la non-percezione del male si sviluppa un altro livello di lettura, la malattia come metafora dell’aids). Quello che Carol si trova a sentire sulla propria pelle è, infatti, il vuoto del non-essere (e già nel cognome della protagonista, White, bianco, è inscritta questa chiave di lettura) . La malattia è causata solo apparentemente da fattori esterni, ambientali, ma in definitiva è interna, insita nel corpo e risiede nell’angoscia della non-identità: Carol non si vuole bene, non si conosce, non sente sé stessa, pertanto non può sentire gli altri e non riesce a vivere.


La regia gioca sui toni dello spaesamento e del distanziamento emotivo, in contrasto con la performance estremamente naturalistica di Julianne Moore che, qui, riesce in un miracolo: rendere concreta e presente una figura che non è presente nemmeno a sé stessa, esprimendone con assoluta aderenza il vuoto interiore, il senso di mancanza, di non appartenenza. Tutte cose impervie se non impossibili da esprimere in maniera efficace senza essere patetici o monocordi, ma Julianne Moore (che tornerà sui sentieri del non-essere in The Hours con esiti altrettanto trionfali) nell’afferrare magicamente l’indefinitezza del personaggio tocca vertici metafisici quasi trascendentali. Si guardi ad esempio la scena in cui, distesa a letto, Carol non ricorda più il suo nome né dove si trovi, o il finale quando, isolatasi nell’igloo di porcellana all’interno della comunità di recupero, si guarda allo specchio e finalmente decide di parlare a sé stessa e di dirsi, anche se a fatica “I love you… I really love you”. L’attrice è “fisicamente presente” pur nel momento in cui sta dando corpo a una non-identità. Mistero dell’arte della recitazione colta nell’attimo del suo “farsi” e del suo “accadere” e genio istintivo e “interno” della Moore, lontana anni luce da metodi approcci sovrastrutture di qualsiasi genere o epoca.

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