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martedì 9 marzo 2010

Percy Jackson, (divertente) pasticcio trash-mitologico


New York, XXI secolo. Il cielo tempestoso che si addensa sull'Empire State Building annuncia lo scoppio di un'imminente guerra tra divinità (!). Il giovane Percy Jackson, un ragazzo apparentemente normale con qualche problema a scuola ed un temperamento ribelle, scopre di essere un semidio (!!) nato dall'unione di Poseidone, dio del mare (che non ha mai conosciuto), con una donna mortale (una spaesatissima Catherine Keener), e viene messo in salvo nel campo di addestramento per semidei diretto dal centauro Chirone (!!!). Accusato da Zeus di aver rubato la folgore divina ed inseguito da Ade, Percy intraprende un viaggio per liberare la madre dagli inferi e provare al cospetto di Zeus la sua innocenza.

Diverte Percy Jackson e gli dei dell'Olimpo - Il ladro di fulmini, primo capitolo della saga letteraria (alla Harry Potter) ideata da Rick Riordan (cinque volumi dal 2005 al 2009). Chissà se vedremo i capitoli successivi, dato che il film di Chris Columbus non sta andando benissimo al box office. In ogni caso, anche se la saga finisse qui, nessuno si strapperà i capelli. Perché Percy Jackson diverte col suo ritmo veloce che trascina subito nell'azione, con i suoi effetti speciali che non danno tregua e con una manciata di trovate divertenti che attualizzano la mitologia, ma: i dialoghi sono raccappriccianti, soprattutto quando il tono si fa serio, enfatico e pesante (e succede troppo spesso, si veda il prologo con Zeus e Poseidone o il penoso patetismo dello scambio finale tra Percy e suo padre), l'umorismo latita (quello brillante, intendo, perché l'umorismo greve e banale abbonda: una storia del genere richiedeva una gran dose di vera ironia per non cadere nel ridicolo!), la valenza metaforica del mito è (quasi sempre) vanificata da uno script superficiale che ignora cosa siano sottigliezza, sfumatura ed ambiguità, e Pierce Brosnan centuaro, metà uomo (capellone e barbuto) e metà cavallo ("con un gran culo" dice di sé senza modestia!) è a dir poco inguardabile (almeno quanto era inascoltabile in Mamma mia!).

Percy Jackson ricorre al mito come un bacino qualsiasi da cui attingere mostri e trucchi un tanto al chilo, senza nessuna voglia ed intenzione di tradurre in qualche modo il loro spessore simbolico. Ma perché dovremmo credere a delle divinità unidimensionali che dominano (ancora) la terra? La loro esistenza è data per scontata (!!!!) e il problema della fusione tra il piano realistico e quello fantasy-mitologico è malamente aggirato, con risultati involontariamente comici.


Sarà per questo che Percy diverte? Come ingenuo pasticcio trash? Probabilmente sì. Ma bisogna ammettere che in questo b-movie fracassone che banalizza il mito come peggio non potrebbe, alcune trovate funzionano: la sequenza al Lotus Casino di Las Vegas, in cui i protagonisti vengono drogati con i fiori di loto e, tra lusso, giochi, divertimenti e "Poker Face" di Lady GaGa nelle orecchie (!!!!!) smarriscono il loro obiettivo, è insinuante; i talari di Hermes sono trasformati in buffe converse alate; la copia del Partenone a Nashville è il nascondiglio dell'idra, terribile mostro dalle nove teste; l'Empire State Building diventa l'ascensore per il Monte Olimpo; Percy uccide Medusa guardando il suo riflesso sul retro traslucido di un cellulare e la porta degli inferi ("discarica di tutte le miserie umane") si trova - indovinate un po' - proprio sotto la scritta Hollywood sulle colline della Città degli Angeli. Non avevamo dubbi.

Confesso, però, di essere andato a vedere questo film solo per un motivo: vedere Uma Thurman nel ruolo della Gorgone Medusa, con il groviglio di serpenti al posto dei capelli e lo sguardo feroce capace di mutare in pietra chiunque lo incroci. Le basta apparire per trasportare il film in un'altra dimensione, ad un altro livello. Mediocre Chris Columbus: come si può sfruttare così poco (e così male) un mito come quello della Gorgone che ci parla del potere dello sguardo, dell'orrore raggelante della realtà e della necessità di guardarla attraverso il suo riflesso su uno specchio, uno scudo, uno schermo? Un'occasione sprecata.

Voto: 5

lunedì 21 dicembre 2009

I miei Oscar: 1994




Annata seminale il 1994. Due film si divisero in assoluto i favori del pubblico e della critica: l’instant classic Forrest Gump di Robert Zemeckis e la rivelazione destrutturalista Pulp Fiction di Quentin Tarantino. Ovviamente agli Oscar trionfò il classico, ma apparve subito evidente l’importanza seminale del film di Tarantino, che avrebbe influenzato di lì a poco le modalità narrative e la rappresentazione della violenza in tutto il cinema contemporaneo. Non rivedo entrambi i film da troppi anni, ma all’epoca preferii l’epopea gumpiana. Credo che a sorprendermi adesso potrebbe essere solo la follia tarantiniana.
Lacrime a fiumi ancor più che nel 1994 mi ha provocato di recente Il re leone, uno dei più complessi, drammatici ed adulti cartoon che la Disney abbia mai realizzato, mentre non perde un briciolo della sua perfida ironia anche dopo ripetute visioni la commedia Quattro matrimoni e un funerale di Mike Newell. Ancora sul versante commedia, la sorpresa dell’anno fu certamente il delirio en travesti Priscilla La Regina del deserto di Stephen Elliott, ormai un cult movie nei circuiti gay, mentre il bellissimo Ed Wood, omaggio di Tim Burton al peggiore regista della storia del cinema fotografato in un raffinato bianco e nero, confermò il sublime talento del suo autore. Natural Born Killers di Oliver Stone, sovraeccitato, sovraccarico e controverso racconto della fuga attraverso l’America di due giovani amanti criminali, ebbe modo di dividere la critica ma il film maledetto della stagione fu Intervista col vampiro di Neil Jordan, imperfetto e vibrante viaggio nel mondo delle tenebre in bilico tra grottesco, horror e melo’, e interpretato da un cast all star (Cruise, Pitt, Banderas). Molti fuori parte, ma tutti maledettamente affascinanti.


Jessica Lange, dodici anni dopo la vittoria come non protagonista per Tootsie, vinse finalmente come miglior attrice per Blue Sky, un film irrisolto il cui unico motivo di interesse è la performance della diva: nel ruolo della sensuale Carly, instabile e fragile moglie dell’ufficiale Hank Marshall (Tommy Lee-Jones) in piena guerra fredda, la Lange torna in zona Frances (nevrosi e scene madri a raffica, ma gestite con grande carisma) e gioca al meglio tutte le sue carte. Winona Ryder, adorabile Jo March in Piccole Donne di Gillian Armstrong, fu candidata non tanto per l’effettivo valore della performance, quanto perché l’anno precedente non aveva vinto per L’età dell’innocenza. La stessa cosa si può dire, con i dovuti distinguo, per Susan Sarandon, alla quarta nomination per Il Cliente. Il 1994 fu un grande anno per la Sarandon: il film tratto dal bestseller di John Grisham fu un successo al box office e l’attrice era eccezionale nei panni dell’avvocatessa Reggie Love, matura, sexy, avventurosa ed ironica come solo la Sarandon sa essere. Ancora una volta un discreto film di genere sollevato dalla qualità dell’interprete. L’attrice era sugli schermi anche nel dramma Safe Passage e in Piccole Donne: tra le cinque candidate, senza dubbio la migliore. Gli altri due nomi in lizza erano la sempre brava Miranda Richardson per Tom e Viv e Jodie Foster, ragazza selvaggia nel discreto Nell.


Una cinquina piuttosto debole che avrebbe potuto facilmente essere composta da altri nomi, tutti ugualmente meritevoli. Meryl Streep cercava di uscire dall’impasse dei primi anni ’90 e si dimostrò potente e credibile nell’action thriller Il fiume della paura. Sia la deliziosa Andie McDowell di Quattro matrimoni e un funerale che la strepitosa Jamie Lee Curtis di True Lies dovettero accontentarsi solo di una nomination ai Golden Globes. Andò peggio a Juliette Lewis, completamente ignorata per la feroce performance in Natural Born Killers e a Kate Winslet, al debutto in Creature del cielo di Peter Jackson e già bravissima. Sigourney Weaver fu impressionante nel dramma La morte e la fanciulla di Roman Polanski (interpretato a teatro da Glenn Close) ma l’ attrice che nel 1994 avrebbe dovuto vincere l’Oscar era Jennifer Jason Leigh, straordinaria sia in Mrs Parker e il circolo vizioso di Alan Rudolph che nella commedia capriana dei Coen Mr Hula Hoop.


Tra le attrici non protagoniste stupisce l’assenza nella cinquina di Kirsten Dunst, diabolica ed insaziabile bambina vampiro nel film di Neil Jordan, e di Robin Wright Penn per il bel ruolo di Jenny, il grande amore di Forrest Gump. E furono snobbate anche Sally Field (Forrest Gump) e la già citata Susan Sarandon, molto intensa in Piccole Donne. Le cinque candidate furono Dianne Wiest (la vincitrice), esilarante come capricciosa diva in declino (ispirata alla Gloria Swanson di Viale del tramonto) e la perfetta svampita pupa del boss Jennifer Tilly, entrambe interpreti di Pallottole su Broadway di Woody Allen; Rosemary Harris per Tom e Viv; Helen Mirren alla sua prima nomination per La pazzia di Re Giorgio e Uma Thurman, esplosiva Mia Wallace in Pulp Fiction. Ancora una volta l’Academy confermava la propria miopia non riconoscendo il valore iconico di una performance in cui carisma dell’attore, fisicità del personaggio e visione del regista si fondono perfettamente in un mix esaltante.


Tra gli uomini Tom Hanks trionfò per il secondo anno consecutivo come miglior attore per Forrest Gump. Gli altri candidati erano il redivivo e travolgente John Travolta, memorabile Vincent Vega in Pulp Fiction, Paul Newman in La vita a modo mio di Robert Benton, Nigel Hawthorne per La pazzia di Re Giorgio e Morgan Freeman, interprete di una delle sorprese dell’anno, Le ali della libertà, dramma carcerario tratto da Stephen King e diretto da Frank Darabont. Per lo stesso film il coprotagonista Tim Robbins (perfetto come moderno Jimmy Stewart anche in Mr Hula Hoop) non venne degnato di alcun riconoscimento (come era avvenuto nel 1992, quando fu snobbato sia per I protagonisti che per Bob Roberts), ma l’Academy ignorò anche Ralph Fiennes (Quiz Show), Woody Harrelson (Natural Born Killers) e Johnny Depp (Ed Wood). Per non parlare di Terence Stamp, divino in Priscilla, Jim Carrey in The Mask, ruolo della consacrazione dopo l’exploit di Ace Ventura e Hugh Grant, di colpo star con Quattro matrimoni e un funerale. A chi avrei dato l’Oscar? John Travolta. Per quel twist con Uma.


Per quanto riguarda i non protagonisti tutti lamentano il fatto che la performance di John Turturro in Quiz Show non abbia ricevuto alcuna candidatura. Quanto ai nominati, notevolissimi erano Samuel L. Jackson (Pulp Fiction), Chazz Palminteri (Pallottole su Broadway), Gary Sinise (Forrest Gump) e Paul Scofield (Quiz Show). L’Oscar andò a Martin Landau, stupefacente incarnazione di Bela Lugosi in Ed Wood.