
Regale. Magnetica. Potente. Mimetica. E straordinariamente bella. Una bellezza ed un volto unici, capaci di trasformarsi in base al ruolo ed una padronanza tecnica che sfiora la freddezza, tanto è perfetta. Questa è
Cate Blanchett. Basterebbero le interpretazioni di Bob Dylan in
Io non sono qui (2007) e di Katharine Hepburn in
The Aviator (2004) per dare la portata della grandezza di questa donna stupenda. Elettrizzante. E geniale. Ma queste due performance sono solo le punte dell'iceberg di una carriera strepitosa. Con il suo carisma Cate eleva qualsiasi film.
Charlotte Grey (2001),
Veronica Guerin (2003) e il western
The Missing (2003) poggiano unicamente sulla sua presenza. E nel fallimentare
The Shipping News (2001) è l'unica a vibrare veramente, tra Kevin Spacey, Julianne Moore e Judi Dench. Nel bel horror sudista
The Gift (2000) è convincente nel ruolo di una sensitiva coinvolta nelle indagini di un omicidio; in
Bandits (2001) rivela un talento smagliante per la commedia; in
Coffee & Cigarettes (2003), dà prova di straordinario mimetismo calandosi contemporaneamente nel ruolo di due cugine, Cate e Shelley; nell'interessante
Heaven (2002) irradia luce in ogni inquadratura. Indimenticabile Galadriel nella saga de
Il Signore degli Anelli (2001, 2002, 2003), è a partire dalla metà del decennio, dopo l'Oscar per il film di Scorsese, che Cate Blanchett si afferma definitivamente come nuova Meryl Streep. L'intensa prova in
Babel (2006), la dark lady con accento tedesco Lena Brandt (modellata su Marlene Dietrich) in
The Good German (
Intrigo a Berlino, 2006), dove Soderbergh la circonda di un'aura quasi divina, la concretissima, sensuale e disperata Sheba Hart in
Diario di uno scandalo (2006), professoressa invaghita di uno studente e presa nella rete dell'"amica" Judi Dench. Nel 2007 torna a vestire i panni della Regina Elisabetta I in
Elizabeth The Golden Age, ed è l'unico motivo di interesse di un film bolso ed imparruccato. In
Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (2008) sfoggia un divertente accento russo nel ruolo della spia Irina Spalko, ed è magica ne
Il curioso caso di Benjamin Button (2008). In attesa di Lady Marian.

Assieme alla Streep e alla Blanchett è l'attrice più nominata del decennio, e la più giovane ad aver raggiunto quota 6 candidature all'Oscar all'età di 34 anni.
Kate Winslet sullo schermo incarna il senso di libertà, uno spirito libero, ribelle ed anticonformista. Come attrice è una forza della natura ed infonde vita, onestà, sincerità e calore ad ogni ruolo. Le crediamo, sempre e comunque. Entriamo in empatia con i suoi personaggi, li sentiamo vicini. E dalla sala, palpitiamo con lei. Questo decennio ha visto la definitiva consacrazione del suo dono e della sua arte. Dalla giovane Iris Murdoch in
Iris (2001) alla giornalista Bitsey Bloom nel controverso
The life of David Gale (2003), dalla scandalosa Madeleine in
Quills (2000) alla Sylvia Davies, musa di James Barrie, in
Finding Neverland (2004), la Winslet si è concessa anche incursioni nella commedia con il divertente
L'amore non va in vacanza (2006) e soprattutto con il musical proletario di John Turturro
Romance & Cigarettes (2005), in cui è Tula, volgarissima e sexy prostituta impossibile da dimenticare. Col multistratificato, cerebrale ed incandescente ruolo di Clementine Kruczynski in
Eternal sunshine of the spotless mind (2004), manca l'Oscar per un soffio, ma entra nella storia e nelle liste delle migliori performance di tutti i tempi. In coppia con uno strepitoso Jim Carrey, Kate è talmente
dentro la parte che non ti accorgi nemmeno un istante che stia recitando. Cult movie. Dal 2004 in poi è tutta una corsa in discesa verso L'Oscar: in
Little Children (2006) è Sarah Pierce, un'insoddisfatta ed adultera casalinga dei sobborghi americani e la Winslet dà ancora una volta prova della sua eccellente capacità di immersione totale nel ruolo. Ma il 2008 è l'anno del trionfo, con due performance memorabili ed agli antipodi: April Wheeler in
Revolutionary Road, attrice mancata e moglie frustrata in veloce caduta libera negli abissi della follia (una discesa vertiginosa, che l'attrice indaga e registra con manicale perfezione e devastante partecipazione, riuscendo a rendere percettibili e concrete qualsiasi emozione, in una tavolozza infinita) e Hanna Schmidtz in
The Reader, ex ufficiale delle SS, freddo e vuoto corpo senza cuore, votato al lavoro e all'esecuzione degli ordini. Tanto appassionata ed accalorata in
Revolutionary Road, quanto ottusa e glaciale in
The Reader. L'Oscar vale per entrambi i film.
Il decennio è stato anche segnato da una miriade di corpi e volti degni di altre magnifiche ossessioni. Dal 2000 al 2009 abbiamo visto:
- la sorprendente ascesa artistica di Penelope Cruz, magica in Volver (2006) ed esplosiva in Vicky Christina Barcelona (2008) e di Amy Adams capace di passare con massima disinvoltura da Enchanted (2007) a Il dubbio (2008);
- la conferma del talento di Helen Mirren in The Queen (2006) e The Last Station (2009) e di Judi Dench in Iris (2001), Lady Henderson presenta (2005) e Diario di uno scandalo (2006);
- la bravura quieta e trattenuta di Laura Linney in You can count on me (2000) e The Savages (2007);
- l'apparizione fulminante di Scarlett Johansson, magmatica in Lost in translation (2003) e ferale in Match Point (2005) e The Black Dahlia (2006);
- la maturità raggiunta dall'ex bambina prodigio Kirsten Dunst ne Il giardino delle vergini suicide (2000) e Marie Antoinette (2006);
- la verve inesauribile di Julia Roberts, travolgente in Erin brockovich (2000) e splendida anche quando spegne il suo sorriso in Closer (2004);
- la verità dolente che Marisa Tomei trasmette in The Wrestler (2008) e In the Bedroom (2001);
- il successo dell'altra australiana di Hollywood, Naomi Watts, impressionante in Mullholand drive (2001), e perfetta in The Ring (2002), 21 Grammi (2003) e King Kong (2005);
- l'ironia adorabile (anche se adesso dimenticata da tutti) di Renee Zellweger, che ha dominato i primi anni del decennio con la sua Bridget Jones (2001 e 2004) e con Chicago (2002);
- il fascino intramontabile di Michelle Pfeiffer, diabolica in White Oleander (2002) e ritornata a splendere in Hairspray, Stardust (2007) e Cheri (2009);
- il mistero di attrici intense e devastanti come Samantha Morton e Tilda Swinton, capaci di far vibrare un ruolo anche in poche linee di dialogo.
Ogni lista è personale e potrei aver dimenticato qualche nome importante. Non me ne vogliate. Vero è che ho lasciato per ultima la performance del decennio. Dal 2002 in poi, con le sole eccezioni de I figli degli uomini (2006) e Savage Grace (2007), Julianne Moore ha sprecato il suo talento siderale in tanti film inutili (per usare un eufemismo) o si è concessa soltanto piccole apparizioni (Io non sono qui, 2007; The private lives of Pippa Lee, 2009). Una di queste, il bel ritratto di Charley, la "fradicia" (nel senso di ubriaca) amica di vecchia data di George-Colin Firth in A single man, potrebbe questo febbraio portarle la quinta candidatura all'Oscar.

Quanto lontano sembra però quel 2002 in cui nel giro di pochi mesi uscirono
The Hours e
Lontano dal paradiso: la sua Laura Brown nel film di Daldry è quanto di più triste e disperato si possa immaginare, un ritratto tutto giocato sul non detto e sui mezzi toni, sugli sguardi e su una recitazione finissima di rara efficacia. Quando nella scena in bagno John C. Reilly la invita ad andare a letto e lei risponde senza lasciar trasparire dalla voce alcuna emozione o turbamento (ma in realtà sta piangendo), sono arte e genio assoluti quelli che vediamo scorrere davanti anoi.
Ma è la sublime performance di Cathy Withaker in Lontano dal paradiso il vero capolavoro, l'interpretazione della sua carriera e del decennio. Stile e contenuto toccano qui vette altissime, perché il film, un postmoderno, nostalgico ed ispiratissimo omaggio ai melodrammi sirkiani degli anni '50 usa il corpo ed il volto della Moore come una funzione di uno spazio cinematografico connotato ed immediatamente riconoscibile. Ecco allora che la Moore incarna la perfetta casalinga anni '50 e non solo modella il proprio look su attrici dell'epoca come Jane Wyman e Doris Day, ma anche lo stile recitativo. A questo livello (memoria cinefila, recupero dei modelli classici) si aggiunge quello narrativo, che fa di Cathy Withaker un'eroina melodrammatica, inconsapevole femminista ante-litteram, destinata a scontrarsi con le convenzioni sociali e a restare indietro rispetto ad un mondo (maschile) che comunque riesce ad andare avanti. Ed infine c'è la fiamma dell'attrice, che infonde al ruolo una delicatezza, un'umanità ed un'intensità che non ha eguali. A mano a mano che il mondo crolla intorno a lei, il suo sorriso di porcellana si muta in una maschera di infinita tristezza. Sublime tristezza. Bellissima tristezza. Ecco perché amo Julianne Moore.