domenica 11 ottobre 2009

La doppia ora


Il motivo ultimo per cui nella corsa italiana ai premi oscar per il miglior film straniero Baaria di Giuseppe Tornatore sia stato preferito al geniale Vincere! di Marco Bellocchio o a La doppia ora, sorprendente esordio di Giuseppe Capotondi, è presto detto: i soldi. Baaria è costato uno sproposito e, sostenuto da una macchina distributiva e mediatica fortissima, deve assolutamente avere un ritorno in termini non solo economici ma anche di riconoscimento artistico. E magari ci riuscirà anche (e, almeno per spirito patriottico, glielo auguriamo). Non voglio dire che Baaria sia un brutto film: piuttosto è un animale mastodontico, (solo) a tratti poetico ed ispirato, ma schiacciato dal suo stesso peso e dalle sue intenzioni autoriali. Nulla a che vedere con la compattezza e la forza dell’ultimo lavoro di Bellocchio o l’irruenza e la precisione narrativa de La doppia ora.

Nel panorama produttivo italiano il film di Capotondi è sicuramente una “bestia” rara: si è parlato di film di genere, ma in realtà di generi il film ne shakera tre o quattro, thriller, horror psicologico, noir e film d’autore, scivolando dall’uno all’altro con grande sapienza e, pur con una trama fittissima di colpi di scena, senza mai barare con lo spettatore. E’ infatti la sceneggiatura uno dei punto di forza del film, modellata secondo la struttura classica della divisione in tre atti (con due grandi snodi drammatici che muovono l’azione in modo inatteso), ma in realtà costruita su un “doppio” binario non solo narrativo, ma anche stilistico e profondamente teorico.
Nel primo atto, ci vengono presentati i due protagonisti: Sonia (Ksenia Rappaport) viene da Lubiana e lavora come cameriera in un hotel; Guido (Filippo Timi) fa il guardiano in una villa e frequenta assiduamente gli speed-date organizzati da una matrona torinese (affascinante incrocio tra una maitresse e la guida di un girone infernale). Le loro rispettive solitudini si incontrano e si riconoscono proprio in uno di questi appuntamenti. Iniziano a frequentarsi e ad innamorarsi, fino a quando durante una passeggiata nel parco della villa, Guido e Sonia vengono assaliti da una banda di rapinatori e Guido resta tragicamente ucciso. E’ il primo turning point/snodo drammatico della sceneggiatura e segna l’inizio della seconda parte del film, quella cinematograficamente più interessante e teorica. Sonia si trova ad elaborare il lutto della perdita di Guido e, mentre a poco a poco vengono rivelate alcune informazioni sul suo oscuro passato, la sua mente inizia a vacillare, a vedere e sentire strane presenze partorite dalla sua inquietudine e (probabilmente) dal senso di colpa. Assieme al personaggio femminile gli spettatori vengono catapultati in un vero e proprio thriller-horror psicologico con tutti i luoghi topici del genere: scena nella vasca da bagno (bellissima citazione da Le verità nascoste di Robert Zemeckis), la scena in cui la protagonista rimane da sola al buio nel suo appartamento, quella agghiacciante del sequestro nel bosco e via discorrendo. Capotondi e i suoi sceneggiatori non si lasciano mancare nulla e ripercorrono tutte le situazioni classiche. La tensione è costruita in modo magistrale in un crescendo narrativo di grandissima efficacia fino al momento in cui il secondo turning point mescola nuovamente le carte e capovolge completamente la situazione. Si può citare a questo punto addirittura La donna che visse due volte di Hitchcock. Per una volta, il colpo di scena non è affatto gratuito e il disvelamento del livello onirico (il binario doppio della narrazione) non solo è condotto in modo assolutamente originale ma ha una forte valenza teorica. Il blocco narrativo centrale è, non a caso, il più spettacolare in termini puramente cinematografici, quasi a suggerire la valenza onirica dell’esperienza cinematografica, e ad esprimere l’equivalenza cinema = sogno. Da questo punto in poi tutti i nodi vengono al pettine: il disvelamento progressivo della realtà avviene in un diminuendo della tensione (bellissimo il climax in “sottotono” nel parcheggio dell’aereoporto) in perfetta sintonia psicologica con la rassegnazione e la sconfitta interiore del personaggio di Sonia che non riesce a dare una svolta alla propria vita ed accetta il suo destino di donna “perduta”.

La regia di Capotondi, stretta sui volti dei personaggi, è sicura e vibrante, abile non solo nel gestire gli shift della sceneggiatura in modo spettacolare, ma anche capace di dare al suo materiale narrativo un’anima noir e un’atmosfera da film d’autore insolita nel cinema di genere. Filippo Timi ammorbidisce efficacemente il suo sguardo fisso e sinistro con un velo di disarmante dolcezza. Ma è Ksenia Rappaport a “tenere” il film dall’inizio alla fine, in uno star turn di grande magnetismo e sensibilità. Nel tracciare il ritratto di questa donna difficile e misteriosa che non riesce a venire a patti con i fantasmi del passato e soprattutto non sa cogliere l’occasione d’amore che le si presenta, la Rappaport è così fisica e intensa da rendere credibile ogni spostamento narrativo e da farci sentire sulla pelle tutta l’angoscia, la debolezza e l’inquietudine del personaggio.

Voto: 8

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