lunedì 30 novembre 2009

Vincere snobbato agli European Film Awards


Non c’è mai (vera) giustizia nel dorato ed effimero mondo dei premi cinematografici. Se così fosse, i bloggers non avrebbero di che lamentarsi e, di conseguenza, di che scrivere. Tra dieci giorni verranno assegnati gli European Film Awards, il più importante riconoscimento della cinematografia europea. Le candidature ai premi maggiori sono e Vincere è escluso da quelle per miglior film, miglior regia e migior attrice:

Miglior film:
Fish Tank di Andrea Arnold
Let the right one in di Tomas Alfredson
Un prophèt di Jacques Audiard
Il nastro bianco di Michael Haneke
The Reader di Stephen Daldry
Slumdog Millionaire di Danny Boyle

Miglior regia
Pedro Almodovar (Gli abbracci spezzati)
Andrea Arnold (Fish Tank)
Michael Haneke (Il nastro bianco)
Jacques Audiard (Un prophèt)
Danny Boyle (Slumdog Millionaire)
Lars Von Trier (Antichrist)

Miglior attore
Moritz Belibtreu (The complex)
Steve Evetz (Il mio amico Eric)
David Kross (The Reader)
Dev Patel (Slumdog Millionaire)
Tahar Rahim (Un prophet)
Filippo Timi (Vincere)

Migliore attrice
Penelope Cruz (Gli abbracci spezzati)
Charlotte Gainsbourg (Antichrist)
Katie Jarvis (Fish Tank)
Yolande Moreau (Séraphine)
Noomi Rapace (Uomini che odiano le donne)
Kate Winslet (The Reader)


Riempie di gioia la presenza, fra le altre candidature, di Gianni di Gregorio per la sceneggiatura di Pranzo di ferragosto e, ovviamente, di Filippo Timi per Vincere. Tuttavia il film di Bellocchio avrebbe meritato una considerazione maggiore, almeno per quanto riguarda la magistrale interpretazione di Giovanna Mezzogiorno, a mio avviso superiore a quella di Timi, e addirittura a quella della celebratissima Winslet (la Mezzogiorno è più in parte: Kate è strepitosa, ma lotta dall’inizio alla fine con un ruolo volutamente against the type, lontano anni luce dalla sua immagine filmica ed è estremamente difficile risultare convincenti al 100%).

Multi-stratificato, complesso e potente, l’ultimo lavoro di Bellocchio mescola melodramma, opera lirica e reportage storico con una libertà, un coraggio ed un’inventiva strabilianti. Nel raccontare la scandalosa passione tra il giovane Benito Mussolini e Ida Dalser, e la successiva reclusione in manicomio della donna rinnegata dal duce ed allontanata dal figlio legittimo, Bellocchio sposa interamente la prospettiva femminile e fa della Dalser un’eroina melodrammatica difficile da dimenticare.



Sempre intensa nei ruoli drammatici, la Mezzogiorno supera sé stessa regalando, nel complesso di una performance impeccabile, una scena in primissimo piano (l’interrogatorio in manicomio) in cui dimostra una padronanza espressiva ed una tenuta delle emozioni davvero straordinaria. Per quale motivo non sia stata candidata non è dato di saperlo. Non ho visto tutte le performance delle attrici candidate ma, fosse solo per questa scena (qualche critico ha addirittura azzardato, e non a caso, un riferimento al primo piano sul dolente volto della Falconetti ne La passione di Giovanna D’Arco di Dreyer), la Mezzogiorno avrebbe meritato non solo di essere nominata, ma di vincere a mani basse. Non ci resta che fare il tifo per Timi (anche se Steve Evets in Il mio amico Eric di Ken Loach è davvero strepitoso) e per Michael Haneke.

Tempting Rachel


The Lovely Bones di Peter Jackson e Agora di Alejandro Amenabar in uscita nei prossimi mesi per Rachel Weisz, Oscar come miglior attrice non protagonista nel 2005 per la bella interpretazione di Tessa in The Constant Gardener di Fernando Mereilles. Da allora solo l'interessante The Fountain e poche altre importanti partecipazioni. Il 2010 si preannuncia l'anno del ritorno e dell'attesa conferma.

You play fair with me...

... and I'll play fair with you.

"I just want to be part of your life. What am I supposed to do? You won't answer my calls. You changed your number. I'm not gonna be ignored, Dan."

Alex Forrest (Glenn Close) to Dan Gallagher (Michael Douglas) in Fatal Attraction di Adrian Lyne

domenica 29 novembre 2009

Two Lovers, noir delle emozioni


Presentato in concorso al Festival di Cannes nel 2008 ma distribuito in Europa ed in America solo la scorsa primavera, Two Lovers è uno dei film più belli ed intensi della scorsa stagione. Silenzioso ed intimista, il film di James Grey è un melodramma romantico di rara autenticità: l’emozione palpabile dalla prima all’ultima inquadratura si deve non solo alla straordinaria prova di tutti gli interpreti, cui è richiesto un approccio sottile e sfumato, tutto in sottrazione, ma soprattutto allo sguardo e allo stile di Grey che gira come se avesse tra le mani un film noir o un poliziesco. Il risultato è un insolito e sorprendente thriller dei sentimenti e delle emozioni: la storia di Leonard (Joaquin Phoenix), trentenne affetto da disturbi maniaco-depressivi, diviso fra l’amore per la dolce Sandra (Vinessa Shaw), la donna che i genitori hanno scelto per lui, e la passione per la bella e misteriosa vicina Michelle (Gwyneth Paltrow), è immersa in atmosfere cupe e desolanti che creano una sensazione sospesa in cui l’anima danneggiata di Leonard si muove come un fantasma.

Gli interni sono opprimenti o completamente vuoti (l’appartamento di Michelle); gli esterni notturni e densi di mistero (perfetta proiezione dell’intricato groviglio interiore del protagonista). Il lavoro sugli scenari e sulla fotografia è folgorante: la baia deserta di Brighton Beach, le strade notturne di New York, il piccolo, soffocante cortile interno del palazzo dalle cui finestre Leonard e Michelle comunicano e il tetto dove si incontrano, battuto da un vento gelido e sovrastato da un cielo plumbeo carico di pioggia: non c’è un elemento fuori posto in questa composizione grigia, triste e sognante. Tutto, anche la bellissima colonna sonora (mai invadente, perfettamente calibrata) contribuisce a creare un’atmosfera chiusa e dolorosa, un senso di irreversibilità del destino che non lascia scampo.


Ma c’è un sollievo, c’è una speranza. Se ogni lotta per affermare il proprio sogno d’amore è inutile, se si finisce sempre con l’amare la persona sbagliata, se ad ogni passo si rischia di cadere nell’abisso e non rialzarsi mai più, da qualche parte, sotto i nostri occhi c’è sempre una risposta al dolore e la possibilità di tornare a vivere in qualche modo. Perché i sogni sono una cosa e la realtà un’altra. Il finale del film è di una tristezza devastante, ma è anche carico di un profondo calore, di un senso di intimità e conforto che solo il ritorno (a casa) e l’accettazione del destino possono dare. Con tutta l’amara consapevolezza che questo comporta.

Un film necessario, urgente e sincero. Joaquin Phoenix ha dichiarato che Two Lovers è il suo ultimo film: probabilmente è anche la sua interpretazione più bella e verrebbe da aggiungere che sono sempre i migliori che abbandonano il gioco (Heath Ledger). Qui è così in parte che non ci si può non innamorare di lui: sensibile, disarmante, disperato.

giovedì 26 novembre 2009

Aspettando Nine: clip ed indiscrezioni


The Weinstein Company sta lentamente svelando le carte in tavole per il lancio di Nine. Da qualche giorno è in rete il secondo trailer del film: dopo l'incredibile Fergie-Saraghina che canta la trascinante Be Italian, è la volta di Kate Hudson, nel ruolo della giornalista Stephanie Necrophorus, cui è affidata una delle due canzoni originali composte da Mauri Yeston appositamente per il film. Si tratta della ritmatissima (e molto moderna) Cinema Italiano, un up-tempo che ha già fatto storcere il naso ai cultori del musical.

L'altro brano originale, Take it all, è cantato da Marion Cotillard: un jazz retro molto Kander & Ebb, in cui il personaggio di Luisa, moglie del regista Guido Contini (Daniel Day-Lewis) passa dai toni sexy e morbidi delle prime strofe alla disperazione e alla rabbia dell'abbandono nel finale. Il brano sostituisce in scaletta Be on your own, melodrammatico exploit di Luisa, uno dei momenti più toccanti del musical originale on stage e chi conosce ed ama Nine non può non gridare al tradimento. Diamo a Rob Marshall il beneficio del dubbio ed aspettiamo con ansia di vedere in che modo Take it all è contestualizzato nello sviluppo narrativo e risolto scenicamente.


Tra le altre clip si possono ammirare i primi trenta secondi di Nicole Kidman che canta Unusual way: apprezzo molto la Kidman e Moulin Rouge è tra i miei film preferiti, ma come temevo la voce non ha minimamente lo spessore che occorrerebbe per intonare nemmeno un passaggio di questo pezzo meraviglioso.
I ventuno secondi della clip con Penelope Cruz in A call from the Vatican lasciano invece ben sperare: ovviamente la tonalità del brano è abbassata, ma Penelope sembra aver afferrato perfettamente la scintillante sensualità di Carla e dimostra anche una notevole padronanza vocale. Ancora nessuna clip per Folies Bergeres (Judi Dench), mentre da alcune indiscrezioni d'oltreoceano sembra che un'altra canzone sia stata inspiegabilmente sforbiciata: addirittura la title track Nine, brano in teoria affidato alla mamma di Contini (Sophia Loren). In che modo gli spettatori che non hanno visto il musical a teatro capiranno il significato del titolo resta, per adesso, un mistero.

Grandiosa epica gangster di Micheal Mann


Micheal Mann è un grande regista. Sa coniugare perfettamente sguardo personale e convenzioni hollywoodiane senza perdere di vista il senso del racconto e il cuore dei personaggi. E sa infondere ad ogni materiale narrativo e visivo una marcia adrenalinica e una carica emotiva mozzafiato. Nell'epopea di John Dillinger, rapinatore nell'America della depressione e nemico pubblico numero uno della Legge (non del popolo, per il quale era un eroe, ma dei rappresentanti della giustizia, colpevoli di ricorrere agli stessi sistemi, se non peggiori, dei criminali) Mann trova pane per i suoi denti e non si lascia sfuggire l'occasione per sfoderare il suo stile nervoso e potente dando vita ad un affresco di grande efficacia nella ricostruzione d'epoca, nelle dinamiche tra i caratteri e soprattutto nella risonanza epica del racconto. Il classico meccanismo narrativo di guardia e ladro si innesca sin dalle prime sequenze e si avvale delle facce scolpite nella pietra di Johnny Depp e Christian Bale: beffardo, romantico ed estroverso Depp, gelido, ossessivo ed introspettivo Bale.


La narrazione procede per macrosequenze narrative scandite da colpi in banca, fughe precipitose e combattimenti metropolitani come nella migliore tradizione del gangster movie. Sotto lo sguardo mobile ed irrequieto di Mann il film scorre e si srotola maestoso: la scena dell'assedio nel rifugio nella foresta è memorabile, così come tutto il finale nella sala cinematografica (magnifico). Ma i momenti di grande cinema non si contano: Mann punta sempre al massimo della tensione (visiva, narrativa, morale) in ogni istante. Il taglio è da western metropolitano, fortemente impressionistico, con un frequente uso della macchina a mano ed un montaggio frenetico, ricco di accelerazioni e ralenti, che danno un'inarrestabile sensazione di movimento e fluidità. Anche il lavoro sul sonoro è eccellente, con l'assordante rimbombo dei mitra squarciato da improvvisi e devastanti silenzi (come nella scena della fuga nella foresta) e la partitura magniloquente di Elliot Goldenthal, impreziosita dal jazz di The man I love ed altre perle dell'epoca, che sottolinea con grande pathos la tragicità del racconto.

Cinema vivido e muscolare, ma che non ha paura di grondare sentimentalismo: anzi l'anima di Nemico Pubblico è profondamente melodrammatica. Mann è sempre stato appassionato e fiammeggiante nel raccontare le storie d'amore e qui non si smentisce: la passione tra John e Billie costituisce uno snodo convenzionale nell'andamento del racconto, ma è anche il motivo più emozionante.


Johnny Depp infonde nel ruolo uno charme divino (anzi, sovrannaturale) e una disperata consapevolezza del destino, mentre Marion Cotillard è inquadrata, illuminata, adorata dalla cinepresa come il diamante più prezioso in questo valzer criminale di morte e violenza. Per quanto prevedibile e sterotipato sia il ruolo dell'interesse amoroso, la dolcezza, la fragilità e la vulnerabilità che la Cotillard proietta con ogni sguardo funzionano alla grande ed uno dei momenti più terribili e toccanti è quello del violento interrogatorio cui viene sottoposta (ma anche Bale è immenso in questa scena).

Un grandissimo film. Depp meriterebbe una candidatura agli Oscar, ma non l'avrà: è talmente perfetto che sembra non fare nessuno sforzo, anche se riesce a sfumare il ruolo con tocchi da maestro. Difficile dimenticare anche Marion Cotillard, ma tutte le previsioni puntano su Nine.

Voto 8+

mercoledì 25 novembre 2009

I miei Oscar: 1991

Film dell'anno Il Silenzio degli Innocenti di Jonathan Demme


2° posto Thelma & Louise di Ridley Scott


Il mio viscerale e sconsiderato amore per il cinema e per le attrici affonda definitivamente le sue radici nel 1991. In un solo anno Thelma & Louise e Clarice Starling de Il silenzio degli innocenti ridefiniscono il concetto di eroismo declinando al femminile il road movie e il thriller metafisico, percorrendo le strade d'America alla ricerca di un riscatto impossibile o guardando l'abisso del male dritto negli occhi. L'impatto che questi due film hanno avuto con gli anni sul mio immaginario e sulla costruzione della mia identità giovanile è enorme. Jodie Foster e Susan Sarandon entrano nei miei sogni di fuga e ribellione, rivincita sul passato e necessaria lotta contro i propri demoni. E soprattutto danno anima e corpo a due ruoli memorabili: da una parte la disperata ironia e la forza di Louise Sawyer in quel viaggio senza speranza sulla mitica thunderbird verde, dall'altra lo sguardo impavido e tremante di Clarice di fronte al male assoluto. Entrambe potenti ed impressionanti.


L'Oscar andò a Jodie Foster, nonostante lo avesse vinto appena due anni prima per Sotto accusa, probabilmente perché l'Academy non volle dividere Susan Sarandon e Geena Davis, bravissima nel ruolo della svagata, immatura ed adorabile Thelma. Ma entrambe le interpretazioni della Foster e della Sarandon sono incommensurabili: nessuna scena madre, nessuna concessione al facile effetto, sfumature sotterranee a profusione e grinta da vendere in ogni scena, carisma e introspezione siderali. Corpi veri e sanguinanti sulla superficie dello schermo. Avrei assegnato l'Oscar ad entrambe (senza nulla togliere alla formidabile Geena Davis capace di rendere alla perfezione l'evoluzione del personaggio, ma il ruolo è meno stratificato, e di conseguenza meno deflagrante nell'impatto generale). Susan Sarandon proveniva dalle magnifiche prove di Bull Durham e White Palace (Calda Emozione), per le quali non aveva ricevuto importanti riconoscimenti (solo le candidature ai Golden Globes): con Thelma & Louise, strappa finalmente la sua seconda nomination agli Oscar (la prima risale al 1981 per Atlantic City), diventa star di assoluta grandezza a 45 anni suonati e l'attrice drammatica più quotata d'inizio decennio.


Le altre attrici candidate erano Laura Dern per Rosa Scompiglio e i suoi amanti e Bette Midler per la commedia musicale For the Boys. Ignorate l'iper-glamour Annette Bening di Bugsy, la Kathy Bates post-Misery di Pomodori verdi fritti, la strepitosa Anjelica Huston de La famiglia Addams e soprattutto l'altro grande star-turn dell'anno, la splendida Michelle Pfeiffer di Frankie & Johnny-Paura d'amare (per un'analisi della performance della Pfeiffer nel film di Marshall vedi post precedente).

Fra le attrici non protagoniste Mercedes Ruehl per La leggenda del Re Pescatore trionfò su Diane Ladd (Rosa Scompiglio), Kate Nelligan (Il principe delle maree), Jessica Tandy (Pomodori verdi fritti) e sulla giovanissima e sconvolgente Juliette Lewis di Cape Fear, il thriller ad altissimo voltaggio di Martin Scorsese. La scena della seduzione tra lei e Max Cady (Robert de Niro) nel teatro della scuola è un trionfo di perversione assolutamente paralizzante. La Lewis meritava la statuetta.

I candidati come miglior attore erano Warren Beatty (Bugsy), Nick Nolte (Il principe delle maree), Robin Williams (La leggenda del Re Pescatore), Robert de Niro (Cape Fear) e sir Anthony Hopkins (Il silenzio degli innocenti). Forse solo De Niro avrebbe potuto insidiare la vittoria di Hopkins: ma la geniale, epocale ed ontologica interpretazione di Hannibal Lecter non poteva avere rivali. Raramente gli Oscar centrano in pieno il migliore dell'anno. In questo caso, forse, del decennio.


Il trionfo del film di Demme fu superiore ad ogni aspettativa, non solo in termini di incassi, ma anche di riconoscimento da parte dell'Academy. Per la prima volta un thriller vinceva i cinque Oscar maggiori: film, regia, sceneggiatura ed interpreti principali. E non stiamo parlando di un thriller qualsiasi, ma di un'opera controversa, coraggiosa, lucida e devastante, lontana anni luce dalla classiche pellicole da Oscar. Un film alternativo e maledetto, sporco e crudele, sceneggiato alla perfezione e diretto con mano ispiratissima da un Jonathan Demme capace di creare incubi veri con una forza espressiva straordinaria. Bugsy, JFK e Il principe delle maree al confronto sembrano film per neonati. Thelma & Louise di Ridley Scott avrebbe invece meritato maggiore considerazione, a parte l'Oscar per la sceneggiatura originale e le candidature per regista e le due eccezionali attrici.


Harvey Keitel avrebbe infatti dovuto vincere fra i non protagonisti proprio per il film di Scott, invece era candidato per Bugsy insieme a Ben Kingsley (Bugsy), Tommy Lee Jones (JFK), Micheal Lerner (Barton Fink) e Jack Palance, cui andò l'Oscar per Scappo dalla città.

Tutto sommato, un'annata straordinaria. Cosa ne pensate?

The Lovely Bones poster


Escono tutti sotto Natale i grandi film americani destinati a concorrere per gli Oscar. Assieme a Nine, Invictus di Clint Eastwood e Avatar di James Cameron, The Lovely Bones di Peter Jackson è l'altro attesissimo blockbuster d'autore di questa stagione. Tratto dal romanzo di Alice Sebold e girato a fine 2007, il film era già pronto per essere distribuito la scorsa primavera ma l'uscita è stata rimandata per puntare direttamente agli Oscar. Protagonista Saoirse Ronan nel ruolo di Susie Salmon, una ragazzina brutalmente assassinata che osserva dal cielo il dolore della sua famiglia all'affannata ricerca del colpevole, il film si presenta come un rischioso mix di vari generi: il dramma, il mistery, il thriller, l'horror e il fantasy. Nelle mani di Peter Jackson questo materiale dovrebbe funzionare ma molti cultori del romanzo temono che la profondità psicologica e la complessità delle implicazioni metafisiche risultino mortificate sullo schermo da una rappresentazione soffocata dagli effetti speciali.


Il film esce l'11 dicembre negli States e il 29 gennaio in Italia. Stanley Tucci nel ruolo del pedofilo assassino e Susan Sarandon in quello della nonna alcolizzata sembrano i nomi più probabili per una candidatura all'Oscar. Se il film convincerà la critica americana, anche la Ronan potrebbe avere qualche chance come attrice protagonista (tutto dipende da come verrà accolta la prova di Marion Cotillard in Nine e quella di Maggie Gyllenhaal in Crazy Heart, in costante ascesa nelle previsioni). Per il momento accontentiamoci del (bellissimo) poster del film.

martedì 24 novembre 2009

500 giorni di "sole"


Arriva dal Sundance una commedia romantica fresca e brillante, girata con gusto e sensibilità, e dallo spirito cinefilo tutto europeo. Tom è un aspirante architetto e lavora ideando messaggi per i biglietti d’auguri. Crede nell’amore assoluto e si convince di trovare l’anima gemella in Sole, una ragazza indipendente che non vuole impegnarsi. Nonostante le divergenze, Sole sembra essere davvero la donna della sua vita.

Divertente e a tratti amaro resoconto di un fallimento d’amore, il film parte come una commedia del genere lui incontra lei e sovverte il modello ancorando il punto di vista, in genere femminile nella commedia romantica, al personaggio maschile. Definita tale prospettiva, il racconto segue una narrazione non lineare, con continui andirivieni introdotti da parentesi grafiche che ne indicano la collocazione nell’arco dei 500 giorni del titolo. Attraverso questi salti temporali Tom ripercorre la storia d’amore alla ricerca ossessiva dei segnali che avrebbero dovuto presagirne il finale, in un suggestivo ed ininterrotto monologo interiore.

In 500 Giorni Insieme si respira aria di cinema europeo e di Nouvelle Vague non solo per l’abbigliamento alla francese dei protagonisti e per lo spirito poetico ed elegiaco, ma anche per la freschezza delle invenzioni visive e la libertà con cui mescola diverse tecniche e registri cinematografici, dal narratore extradiegetico al b/n delle interviste, dai filmati amatoriali allo split-screen, fino al videoclip e al musical (strepitosa la sequenza sulle note di “You make my dreams”).

Il regista Marc Webb è sempre ad un passo dall’eccedere e rischia il gratuito sfoggio di tecnica. Tuttavia, insieme alla musica, imprescindibile sottofondo dello stream of consciousness di Tom, sono proprio i riferimenti al cinema a creare il mondo soggettivo del protagonista e la sua identità. Ed è questa l’idea più originale del film: le canzoni, i film, i libri e la cultura “alimentano la grande bugia” sull’amore ma è (anche) attraverso di essi che definiamo la nostra identità.


Non tutto funziona: un paio di formidabili battute alla Woody Allen non bastano a sollevare il tono da sit-com di alcuni momenti. Data la prospettiva maschile del racconto, il personaggio femminile resta un enigma al quale né il protagonista né gli spettatori hanno accesso, ma la pur bellissima Zooey Deschanel è troppo casual e svagata per essere completamente a suo agio nell’incarnare una fantasia. Sensibile e naturale, invece, il giovane Joseph Gordon-Levitt, sulla cui autenticità il film poggia dall’inizio alla fine.

Nulla per cui gridare al capolavoro (come è stato fatto in America), ma il film è indubbiamente piacevole, a tratti sorprendente ed inaspettatamente profondo. Assolutamente fuorviante il titolo italiano: i due giovani amanti non stanno affatto insieme per 500 giorni. Il titolo originale fa riferimento in modo ironico e geniale al nome della protagonista ed indica il tempo che Tom impiega per guarire dall’amore e voltare finalmente pagina. E, guardando il film, non sono affatto 500 giorni di sole. Molto probabile una candidatura agli Oscar per la migliore sceneggiatura originale.

Voto: 7

A Single Man poster!



A Single Man di Tom Ford, l'altro gioiello dei fratelli Weinstein in odore di candidatura all'Oscar per Colin Firth e Julianne Moore, esce negli States in distribuzione limitata l'11 dicembre. Due finora i poster resi noti: in entrambi i casi, nonostante Colin Firth sia indubbiamente l'unico vero (grandissimo) protagonista i Weinstein puntano per il lancio anche sull'altro "nome" in cartellone che possa attirare il pubblico, facendo apparire la Moore come una coprotagonista quando in realtà il suo ruolo è chiaramente di supporto. Strategie di mercato. Dispiace però che in entrambi i poster non emerga affatto (volutamente?) il fattore gay. Il film sembra così una commedia romantica anni '70, invece è un autentico gay-melodramma: il volto dolente di Colin Firth avrebbe fatto da solo la sua figura. Dopotutto il titolo è A Single Man. Ma il film è così insolito, sincero ed appassionato che si può anche sorvolare sulle scelte distributive dei Weinstein e sperare solo che abbia il successo che merita.

Nine Poster!



Eccoli finalmente i primi tre poster dell'attesissimo Nine di Rob Marshall in uscita in America il 18 dicembre (da noi dovrebbe arrivare il 22 gennaio). Per quanto poco pubblicizzata nei mesi precedenti rispetto a Penelope Cruz, Marion Cotillard e Nicole Kidman, Kate Hudson compare in tutti e tre con lo stesso spazio, mentre sono completamente assenti Sophia Loren e Judi Dench. La Weinstein Company ha sicuramente pianificato un enorme lancio promozionale, quindi aspettiamoci altri poster in arrivo.

lunedì 23 novembre 2009

L'amore non finisce...


...soltanto perché non ci vediamo.


La gente continua ad amare Dio, no?
Per tutta la vita, senza vederlo mai"
"Non è l'amore che voglio io"
"Forse non ne esiste nessun altro"

Sarah Miles (Julianne Moore) e Maurice Bendrix (Ralph Fiennes)
in Fine di una storia di Neil Jordan

La sofferenza auto-inflitta di Erika


Il doloroso e necessario viaggio alla scoperta delle radici del male condotto da Micheal Haneke ne Il nastro bianco mi ha spinto a rivedere La pianista, assieme a Funny Games sicuramente il suo film più celebre (non ho ancora visto Cachet, faccio pubblica ammenda). All'origine di questo riaccostarmi al film c'era probabilmente una inconscia volontà sadomasochistica, anche perché ricordavo benissimo quanto la prima visione fosse stata tutt'altro che una passeggiata in termini di coinvolgimento e sofferenza.

Haneke è un autore rigoroso e coerente, sceglie una strada e la porta fino in fondo senza nessuna concessione e nessun cedimento. Nulla lo scalfisce e sa bene come affondare la lama. Anche a costo di risultare programmatico nella sua sgradevolezza. Alla luce de Il nastro bianco, La pianista è ancora più scarno, essenziale, gelido e devastante. Lunghissime sequenze, primi piani estenuanti, un montaggio ridotto all'osso, una storia (terribile) che si dipana lentamente e banalmente attraverso piccoli gesti e fatti quotidiani ripresi senza stacchi, tra sguardi silenziosi e pause interminabili in cui sembra non avvenire nulla ma nelle quali c'è già tutto il senso del dramma. Perché La pianista è soprattutto la tragedia muta di una donna che non sa amare e che si è costruita una modalità di rapportarsi all'altro basata sulla negazione del sentimento e del sesso, sul potere, sulla sopraffazione, sulla violenza auto-inflitta, sul distanziamento del rapporto sadomasochisto (si veda la lettera con le richieste e le istruzioni che Erika scrive al giovane Walter pretendendo che lui la legga ad alta voce).

Ciò che disturba ne La pianista è la sensazione di assoluta normalità ed estremo realismo con cui la storia e la vita di Erika si sviluppano sullo schermo, come se il film fosse un documentario. Senza morbosità e sospendendo qualsiasi giudizio morale, la macchina da presa segue questa donna nel suo peregrinare ostinato e premeditato tra sexy shop, dark rooms e parcheggi, resta incollata sul suo volto impenetrabile per interi minuti o semplicemente osserva le azioni mostruose che commette e verso le quali dimostra di non avere alcun ripensamento, alcun senso di colpa. Una normalità della perversione in cui Erika stessa è immersa fino ad esserne compenetrata: la violenza (fisica e psicologica) che fa prima di tutto a sé stessa e poi agli altri si esprime in atteggiamenti ed azioni che per lei, in qualche modo, da qualche parte nella sua mente, sono diventati normali. Un modo di vivere metodico, cadenzato, strutturato e completamente diviso che per Erika è assolutamente normale, proprio perché quotidiano (l'ingombrante rapporto con la madre meriterebbe una trattazione a parte: ma anche qui Haneke intende soltanto suggerire cosa possa esserci dietro il comportamente di Erika piuttosto che spiegarlo chiaramente. Tutto questo è assolutamente destabilizzante).



L'incontro col giovane allievo spezza questo equilibrio e rompe questa insana normalità: Walter chiede di essere ascoltato imponendo ad Erika di confrontarsi con un'altra persona, di uscire da sé stessa. Erika non ne è assolutamente in grado, proprio perché chiusa in un universo auto-sufficiente in cui nega a sé stessa ogni possibilità di amore: "Io non ho sentimenti Walter, mettitelo bene in testa, ed anche se ne ho per un giorno non prevarranno mai sulla mia intelligenza". Il giovane si esprime attraverso un linguaggio d'amore che Erika non può comprendere, semplicemente perché non lo conosce. Quando lui legge la lettera ed Erika estrae ad uno ad uno, con lentezza quasi sacrale, gli strumenti con cui vorrebbe essere legata e torturata, Walter comprende l'inferno nel quale vive la donna, ma piuttosto che allontanarsi diventa sprezzante e beffardo, decidendo di stare al gioco proprio nel momento in cui realizza il suo disgusto e il suo totale rifiuto. Come a voler riaffermare una superiorità, una mascolinità che l'atteggiamento fino ad allora autoritario di Erika aveva scalfito o in qualche modo messo in dubbio.

La sopraffazione si realizza quindi in modalità che Erika aveva immaginato diverse. "Dovresti sapere quello che si può fare ad un uomo e quello che non si può fare" le dice Walter. L'umiliazione che Erika gli ha inflitto è troppo grande da tollerare: a questo punto la crudeltà del giovane si rivela addirittura superiore a quella di Erika, proprio perché direttamente rivolta contro di lei, verso l'esterno quindi, mentre quella di Erika è chiaramente direzionata contro sé stessa. Quando Erika si trova a sentire sulla propria pelle l'insanabile scollamento tra la fantasia (la richiesta dettagliata nella lettera di essere oggetto di violenza) e la realtà, quell'equilibrio non può più ricomporsi. Rifiutata, ignorata, abusata, Erika non è più solo vittima di sé stessa. Adesso può finalmente compiersi il gesto estremo di auto-flagellazione.

Il primo piano finale sul suo volto è agghiacciante: Isabelle Huppert attraversa il film con una forza ed una presenza micidiali perseguendo l'ostinazione al male di Erika con monumentale fermezza, e riuscendo a far trasparire tutta la miseria umana dietro una maschera di gelido, spietato controllo. Ma quella smorfia di muto dolore sul suo volto fisso mentre affonda il coltello nella spalla sinistra, appena sopra al cuore, è uno di quei momenti che ti si attaccano addosso e non si dimenticano più.

giovedì 19 novembre 2009

I have a dream





Tra meno di un mese, il prossimo 15 dicembre, saranno annunciate le candidature ai Golden Globes, seguite il 17 dicembre dalle nominations per gli Screen Actors Guild Awards. Le cerimonie di premiazione avverranno rispettivamente il 17 e il 23 gennaio 2010, pochi giorni prima delle candidature agli Academy Awards previste per il 2 febbraio. La febbre sale. Sarebbe meraviglioso vedere concorrere agli Oscar le mie quattro attrici preferite in assoluto. Manca solo Glenn Close e la cinquina sarebbe completa. Per Meryl Streep non c'è pericolo, la candidatura è assicurata, mentre più incerta (ma non del tutto sfavorevole) è la situazione di Julianne Moore (A Single Man) e Susan Sarandon (The Lovely Bones): dovranno vedersela con la spietata concorrenza delle attrici di Nine (Cruz e Dench), Up in The Air (Kendrick e Farmiga) e Precious (Mo'nique). Nine potrebbe travolgere come un uragano, ma in base alle preview solo Penelope Cruz ha scatenato isterici entusiasmi e sembrerebbe avere chance effettive (Judi Dench è leggermente meno quotata, mentre Marion Cotillard sarà probabilmente candidata come lead). Quanto al film di Jason Reitman, difficile che Anna Kendrick e Vera Farmiga siano candidate entrambe: questo lascerebbe spazio alla Sarandon, ma nessuno ha ancora visto The Lovely Bones (esce l'11 dicembre) e il film potrebbe non essere all'altezza delle aspettative.
Quanto a Cheri, sono forse l'unica persona sulla faccia della terra a cui il film di Frears è piaciuto molto, e ritengo che Michelle Pfeiffer meriterebbe il riconoscimento di una candidatura: se è fuori dai Golden Globes nella categoria best comedy actress per l'oscar non c'è speranza. Mi accontenterò di consumare il dvd ammirando e studiando le sublimi pose da diva, lo sguardo languido e perdutamente innamorato e quello sconvolgente e crudele primo piano finale, sperando che non passino altri cinque anni prima che la Pfeiffer torni di nuovo al cinema in un ruolo da protagonista all'altezza del suo incomparabile talento.

Valentino verso l'Oscar


Un'autentica sorpresa questo documentario di Matt Tyrnauer sugli ultimi anni della carriera del nostro grande stilista Valentino Garavani, dalla collezione di Parigi del 2005 alla sfilata retrospettiva a Roma nel 2007 in occasione dei festeggiamenti per i 45 anni di carriera. Presentato a Venezia e a Toronto nel 2008, esce adesso in Italia preceduto dalla scia dello strepitoso successo che sta avendo negli States dove si parla già di una probabile (e meritatissima) candidatura agli Oscar come miglior documentario dell'anno. Peccato che sia distribuito soltanto in una decina di sale su tutto il territorio nazionale: Medusa avrebbe potuto rischiare di più anche perché il film è davvero divertente e commovente, quasi un miracolo di equilibrio tra documentario, inchiesta (sulle motivazioni del clamoroso ritiro dalle scene) e rievocazione nostalgica di una carriera e di un'epoca irripetibili. Valentino è sempre stato un'icona del gusto e dello stile, ma non è mai riuscito a scrollarsi di dosso quella maschera glaciale di artista raffinato dieci spanne sopra il resto del mondo. Il film di Tyrnauer conferma questa immagine, ma al ritratto che ti aspetteresti aggiunge anche una profonda umanità ed un'ironia sublime. Tra pubblico e privato, materiale d'epoca ed eccezionali dietro le quinte montati con magistrale sapienza ed accompagnati dalle musiche di Nino Rota, un viaggio piacevolissimo che è anche il canto del cigno di un mondo, quello dell'alta moda sartoriale, destinato a scomparire. Andate a vederlo, non ve ne pentirete.
La mia recensione di Valentino - The Last Emperor è da oggi online su Loudvision.
http://www.loudvision.it/cinema-film-valentino-l-ultimo-imperatore--856.html

voto: 8

domenica 15 novembre 2009

Gli Abbracci Spezzati e la magia di Pedro


In barba ai critici snob che hanno accusato Pedro Almodovar non solo di arida autoreferenzialità, ma addirittura di aver smarrito il magico equilibrio tra tragedia e commedia raggiunto in Tutto su mia madre. Si è parlato di involuzione, di battuta d'arresto, vuoto d'ispirazione e quant'altro, anche se le stesse perplessità, magari in maniera meno veemente, erano emerse all'indomani dell'uscita de La Mala Educacion. Non dimentichiamo che il film del 2004 seguiva Parla con lei, autentico capolavoro di compattezza narrativa e magia dell'affabulazione, così come oggi Gli Abbracci Spezzati segue il meraviglioso Volver: come se un autore dovesse sempre e per forza di cose superare sé stesso ogni volta.

Gli Abbracci Spezzati non è certamente un capolavoro, ma nelle sue imperfezioni, nei suoi labirintici livelli narrativi, nei suoi continui rimandi alla storia del cinema, nella sua commistione spudorata di noir, melo' e commedia, c'è più passione, intelligenza e furore che nella maggior parte dei film attualmente in circolazione. Almodovar torna a parlare di cinema nel cinema attraverso la figura del regista-sceneggiatore Mateo Blanco/Harry Caine divenuto cieco in seguito ad un drammatico incidente. Al piano narrativo del presente si sovrappone il racconto in flashback della gestazione del film Ragazze e valigie e del drammatico triangolo noir tra Mateo, Magdalena (l'attrice del film) ed Hernesto Martel (suo marito e produttore).

Come autentico atto d'amore per il cinema non solo del passato (innumerevoli le citazioni) ma anche come meccanismo attraverso cui raccontare storie, proiettare e rivivere sogni, Gli Abbracci Spezzati è tanti film messi insieme, tutti bellissimi. Tuttavia, come già accaduto in precedenza, quando Almodovar si affida esplicitamente al cinema per giustificare o dare una forma all'universo che mette in scena, rischia sempre di essere troppo personale, senza filtri, e si aggroviglia un po' su sé stesso. Ma è soltanto eccesso di passione e generosità. Anche se la stratificazione dei piani (passato, presente e finzione cinematografica) non ha lo stesso effetto vertiginoso e complesso de La Mala Educacion ed alcune soluzioni narrative possono apparire ingenue, la potenza e la fluidità del racconto sono straordinarie come sempre. E quando nella seconda parte il melo' si tinge di abissale disperazione e il calore dell'amore (per il cinema e per la vita) invade lo schermo, il film termina lasciando nello spettatore il desiderio che quella magia possa durare ancora. In eterno. Ci sarebbe materiale narrativo per continuare a creare sogni per almeno altre due ore, ed Almodovar questo lo sa benissimo: ma "anche alla cieca i film bisogna finirli". Un genio.


Penelope Cruz attraversa il film come un misterioso corpo liquido che si plasma in base alle necessità. Figlia addolorata, moglie adultera, attrice ambiziosa, donna fatale, amante appassionata: tante sono le identità e le forme cui presta il suo bellissimo volto a seconda degli spostamenti narrativi e stilistici orchestrati da Almodovar. La frammentarietà della caratterizzazione è voluta: Magdalena è fatta di pasta di cinema e l'approccio del regista e dell'attrice è giustamente iconico e divistico. Dopotutto Magdalena occupa il piano narrativo del racconto (il passato) e della finzione (il film nel film). Il piano temporale presente è dominato da Blanca Portillo, cui Almodovar affida il ruolo ben più complesso di Judith, l'amica ed ex-amante di Mateo. Piena di rimorsi e sensi di colpa, Judith è la grande figura melodrammatica del film. Attraverso di lei Almodovar sviluppa il tema del sentimento negato, trattenuto ed inespresso e la Portillo lo incarna con straordinaria intensità emotiva.
Voto: 8

Il cuore di Jeff Bridges


La corsa all' Oscar nella categoria migliore attore si è arricchita di un altro concorrente e probabile vincitore. Finora solo George Clooney e Colin Firth sembrano nominations sicure: Invictus con Morgan Freeman e Nine con Daniel Day-Lewis non li ha visti ancora nessuno (a parte qualche fortunato alle preview) e data l'attesa montata alle stelle, potrebbero in qualche modo deludere. Viggo Mortensen (The Road), Jeremy Renner (The Hurt Locker)e James McAvoy (The Last Station) potrebbero essere altri candidati: l'uscita questa settimana di The Road dovrebbe perlomeno risolvere i dubbi su Mortensen.

In una situazione così incerta, la Fox Searchlight ha giustamente deciso di giocare l'asso nella manica mettendo in campo un autentico cavallo di razza, Jeff Bridges. L'uscita di Crazy Heart è stata fissata per il 16 dicembre dopo che i giornalisti alle preview hanno commentato in modo entusiastico il lavoro di Bridges. Sulla scena da quarant'anni, Bridges è uno degli attori più sottovalutati del cinema americano: ha già ricevuto quattro nominations agli Oscar (come non protagonista per L'ultimo spettacolo nel 1971, Una calibro 20 per lo specialista nel 1974 e The Contender nel 2000; come protagonista per Starman nel 1984) e non ha mai vinto. Un posto sicuro nella storia del cinema l'ha già guadagnato con film come Doppio taglio, La leggenda del re pescatore, I Favolosi Baker e soprattutto con il cult Il grande Lebowski. Ora occorre il riconoscimento ufficiale. In Crazy Heart interpreta un cantante country fallito ed alcolizzato e con ogni probabilità ci spezzerà il cuore con la passione, la densità e l'incredibile carisma che lo contraddistingue da sempre. La gara per il migliore attore del 2009 inizia a farsi interessante.

My only happiness is when I sleep...

... when I wake the nightmare begins"


"Io mi diedi spontaneamente a quell'uomo. Lo feci così non sarei stata più la stessa ed avrei potuto essere considerata la svergognata che sono. Il destino non mi avrebbe mai fatto sposare un uomo come lui e così... e così sposai la vergogna. E' la vergogna che mi ha tenuto in vita e la consapevolezza che veramente non sono come le altre donne. Io... io non avrò mai come loro dei figli, un marito, il piacere di una casa. A volte ho pietà delle altre donne. Io ho una libertà che esse non sanno neanche cos'è. Nessun insulto, nessuna accusa ora può toccarmi. Sono io che ho fatto volontariamente quel passo. Io... non sono nulla. Non sono... non sono più quasi umana. Io sono... la puttana del tenente francese".

Sarah (Meryl Streep) a Charles (Jeremy Irons)
ne La donna del tenente francese (1981) di Karel Reiz

mercoledì 11 novembre 2009

I miei Oscar: 1990



Film dell'anno: Rischiose Abitudini (The Grifters) di Stephen Frears,
starring Anjelica Huston, John Cusack e Annette Bening

L'inizio degli anni '90 rappresentò per gli Oscar un felicissimo momento di apertura verso pellicole non convenzionali e tematiche quantomeno controverse: basti pensare alle pluricandidature assegnate a film come Il Silenzio degli Innocenti nel 1991, Philadelphia nel 1993 e Pulp Fiction nel 1994. Il western tornò prepotentemente di moda con Balla coi lupi, tendenza confermata due anni dopo con Gli Spietati di Clint Eastwood. Regista ed interprete dell'epopea filo-indiana che commosse le platee di mezzo mondo, il bel Kevin Costner era già famoso per Gli Intoccabili e Bull Durham, ma con Balla coi lupi divenne una star assoluta e avrebbe dominato tabloid e box office per circa un lustro. Se gli attori del decennio furono probabilmente Tom Hanks e Tom Cruise, sul versante femminile le dive degli anni '80 iniziarono ad accusare segni di appannamento, lasciando il posto a nuovi ingressi: Julia Roberts nella commedia romantica, Susan Sarandon nel dramma, Michelle Pfeiffer in tutti i generi possibili ed immaginabili, Meg Ryan, Jodie Foster, in misura minore Winona Ryder, infine Sharon Stone e Demi Moore come star da copertina. La ventata di rinnovamento investiva anche i ruoli assegnati alle donne: ruoli finalmente forti, a tutto tondo, senza sconti per nessuno.

Il 1990 dava già un'idea di questa tendenza, che sarebbe esplosa con impeto deflagrante l'anno successivo in film come Thelma & Louise e Il Silenzio degli Innocenti. Le candidature furono:

Best Actress
Kathy Bates: Misery
Anjelica Huston: Rischiose Abitudini
Meryl Streep: Cartoline dall'inferno
Julia Roberts: Pretty Woman
Joanne Woodward: Mr e Mrs Bridge

Meryl Streep era già alla sua nona candidatura, ma il momento d'oro sembrava volgere al termine: il tiepido successo della dark comedy She-Devil (irresistibile a mio avviso) fu letto come un segnale di affaticamento e un tentativo di ricerca di nuove strade. In Cartoline dall'inferno, agrodolce commedia di Mike Nichols, la Streep è notevole come sempre, soprattutto negli scontri con Shirley Maclaine e ci regala le prime esibizioni canore della sua carriera, ma rispetto ai precedenti ruoli drammatici si avverte il rischio della maniera e del mestiere.

Il grande quanto inaspettato successo dell'anno fu Pretty Woman: il film di Marshall catapultò la Roberts appena ventiduenne nell'olimpo delle star, ma questa ragazzona di Atlanta aveva già dimostrato di avere classe e talento l'anno precedente con Fiori d'acciaio.

L'Oscar andò a sorpresa a Kathy Bates, all'epoca poco conosciuta al grande pubblico, ma attiva in teatro da molti anni: la sua performance nel thriller di Rob Reiner è semplicemente straordinaria, agghiacciante per come alterna devozione, calcolo e follia.


Una serie di performance eccellenti non entrarono nella rosa dei candidati: Andie mcDowell, dopo Sesso bugie e videotape si riconfermava sofisticata interprete di commedie in Green Card, ma evidentemente le fu preferita Julia Roberts; Demi Moore ebbe una nominations ai Golden Globe trainata dall'enorme successo del suo film, Ghost; seguendo le orme di Meryl Streep, Michelle Pfeiffer dimostrava di saperci fare (anche) con gli accenti stranieri interpretando il ruolo della bella Katja nella spy story La casa Russia; Glenn Close riempiva di dolore ed umanità il ruolo antipatico della matrona Sunny Von Bulow nel dramma Il Mistero Von Bulow.



Per la seconda volta in tre anni veniva inspiegabilmente snobbata Susan Sarandon: dopo la strepitosa Anne Savoy in Bull Durham, l'attrice disegna con Nora Baker in Calda Emozione (White Palace) un altro bellissimo ritratto, una donna di bassa estrazione sociale che lavora come cassiera in un fast food a Sant Louis: fondamentalmente incolta ma di grande intelligenza, Nora è una donna ironica, affascinante, spiritosa e straordinariamente sexy, ma nasconde dentro di sé il dolore insanabile della perdita del figlio. La scena in cui abborda il giovane Max (James Spader) nel night di periferia è da antologia per come riesce a passare con assoluta verità attraverso molteplici stati d'animo. E' uno di quei casi in cui attrice e ruolo sembrano combaciare perfettamente. A 44 anni la Sarandon stava per diventare una star e si prenotava per futuri successi. Non solo attrice di razza ma anche sex symbol, caso più unico che raro in una Hollywood maschilista che sembra non avere ruoli per le attrici sopra i quaranta.

Tuttavia l'Oscar alla migliore attrice lo avrei assegnato ad Anjelica Huston per Rischiose Abitudini, il tragico e asciutto noir di Stephen Frears: nel ruolo di Lilly la Huston è devastante, minacciosa, affannata, disperata. Non ci sono aggettivi.


Lilly non si ferma di fronte a nulla e la Huston non ha paura di apparire mostruosa anche perché infonde il carattere di un'umanità dolente che progressivamente ed inesorabilmente si prosciuga lasciando il posto ad un automa privo di ogni sentimento. L'azzeramento dell'umanità è elettrizzante e nel finale ghiaccia il sangue nelle vene: per fuggire col denaro, Lilly gioca al figlio un brutto tiro ed inscena l'ultimo inganno possibile. Ma gli dei non stanno a guardare. Roy muore in quello che è forse uno dei finali più paralizzanti degli ultimi trenta anni. Impressionante l'urlo muto di Lilly: accovacciata sul corpo del figlio, raccoglie tra i singhiozzi i soldi sporchi di sangue e fugge via "con la maschera deformata e rabbiosa di chi sta andando all'inferno". Una delle performance più grandi della storia del cinema.

Le candidate come best supporting actress furono:
Whoopi Goldberg: Ghost
Annette Bening: Rischiose Abitudini
Lorraine Bracco: Quei Bravi Ragazzi
Diane Ladd: Cuore selvaggio
Mary Mcdonnell: Balla coi lupi

Ancora non mi capacito del fatto che Shirley Maclaine non fu candidata per Cartoline dall'inferno. La Goldberg passò alla storia come la prima attrice afroamericana a ricevere l'Oscar, ma è difficile dimenticare sia la performance di Mary Mcdonnell, sia quella di Annette Bening nel suo primo ruolo importante: la sexy-gattina Myra con il cuore di ghiaccio, l'altra punta del perverso triangolo messo in scena da Frears in Rischiose Abitudini. Glamorous, sofisticata e sottilmente insinuante la Bening sfodera artigli da primadonna e avrebbe meritato di vincere.

Per gli uomini non c'era storia: Jeremy Irons vinse per Il Mistero Von Bulow, performance eccellente, ma nulla a che vedere col tour de force fornito l'anno precedente nell'incredibile Inseparabili di David Cronenberg, film per il quale non era nemmeno stato candidato. Nel ruolo dei due gemelli ginecologi Irons fu memorabile e l'Academy non poteva non sentirsi in colpa.



Gli altri candidati erano Kevin Costner, Robert de Niro (Risvegli), Gerard Depardieu (Cyrano) e Richard Harris (The Field). Personalmente avrei inserito fra i candidati anche Johnny Depp (Edward mani di forbice).
Quanto ai non protagonisti, onore a Joe Pesci per Quei Bravi Ragazzi. Il capolavoro di Martin Scorsese avrebbe meritato maggiori riconoscimenti ma il regista italoamericano avrebbe dovuto aspettare altri sedici anni per vincere. Altri candidati furono Al Pacino per Dick Tracy e Andy Garcia per Il Padrino Parte III.