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sabato 31 luglio 2010

Il lato nero dell'America: "The Blind Side" e "Precious"


Per una volta onore alla distribuzione italiana che si è ben guardata dal fare uscire in sala due patacche clamorose come The Blind Side (edito da poco direttamente in dvd) e Precious. Un’esclamazione chiaramente provocatoria, dovuta all’enorme, spropositata considerazione riservata in America a queste due pellicole sia dal pubblico (The Blind Side ha incassato più di 250 milioni di dollari!) che dalla critica (Precious figura in quasi tutte le liste dei migliori film dell’anno). Non si tratta di opere pessime (anche se Precious, sotto alcuni aspetti, lo è), soltanto ampiamente sopravvalutate. Oltre che speculari e solo all’apparenza contrapposte.


The Blind Side (tratto da una storia vera) è convenzionale, un classico dramma a sfondo sociale in puro Hollywood style con i soliti ingredienti messi in fila uno dietro l’altro (la giusta dose di ironia, attento bilancio tra patetismo ed asciuttezza, alternanza di dramma e commedia e l’ennesima celebrazione della perfetta famiglia americana e dell'importanza dell’istruzione per conseguire il successo) ma perlomeno non è pretenzioso. Sandra Bullock, con la sua innegabile simpatia e il suo charme quotidiano, funziona ed è l’unica ragione per seguire il film fino in fondo. Nel ruolo della generosa Leigh Anne Tuhoy, madre e moglie perfetta incline per natura ad aiutare il prossimo (accoglie in casa il giovane senzatetto afro-americano Michael Oher destinato a diventare un campione di football) la Bullock ha il piglio giusto, quel mix di ironia, grinta e trattenuta compassione che fa centro. L’Oscar come miglior attrice, però, è francamente troppo.


Discorso diverso merita Precious, Based on the Novel Push by Sapphire. L’incredibile calvario della sedicenne afro-americana Precious (Gabourey Sidibe) in quel di Harlem nel 1987 è raccontato con un gusto per gli aspetti più miserabili a dir poco discutibile e morboso, ed è rappresentato con uno stile così ricco e sovraccarico di effetti (flou, ralenti, fotografia patinata, camera a mano che vorrebbe scimmiottare il cinema verità, montaggio da videoclip) che contrasta in modo fastidioso e stridente con la materia trattata.
Tutto comincia quando Precious, obesa, analfabeta e vittima di abusi domestici (il padre la violenta; la madre, alcolizzata e disoccupata, la picchia e la tortura psicologicamente) scopre di essere per la seconda volta incinta del padre (il primo figlio, soprannominato “Mongo”, è affetto da sindrome di Down). Viene così sospesa da scuola ed inserita in un programma di recupero per ragazze disadattate nella speranza che, attraverso un’istruzione, possa finalmente dare una svolta alla sua vita. Difficile se il padre che ti ha stuprata e messo incinta due volte è malato di aids e ti ha passato il virus dell’hiv. E se hai una madre mostruosa che ti maltratta oltre ogni possibile immaginazione. L’unica via d’uscita per la povera Precious è la fantasia ed alcuni dei momenti più interessanti del film sono proprio quelli in cui entriamo nella sua immaginazione; e cosa può sognare una ragazzina sfortunata, derisa e vilipesa, se non la ricchezza, il successo, i riflettori del mondo dello spettacolo?


Con un tema del genere ci voleva un rigore ed una sensibilità che Lee Daniels non ha (ed è stato candidato all’Oscar...). Il regista invece sguazza pesantemente al fondo della miseria, calcando la mano il più possibile laddove il senso comune chiederebbe di alleggerire e cercando di strappare verità dalle sue attrici attraverso insistiti primi piani che hanno un che di pornografico. E a salvare la baracca ci provano (e ci riescono) proprio le attrici: Gabourey Sidibe, perfetta nell’esprimere l’opacità coriacea e l'immensa sofferenza di Precious e soprattutto Mo’nique, in una performance sensazionale che le è valsa tutti i premi del mondo. Quando è in scena lei non puoi guardare da nessun altra parte, tanto è impressionante e spaventosa.

The Blind Side: 6
Precious: 5/6

venerdì 30 luglio 2010

Lezioni di poesia con Jane Campion


"Una cosa bella è una gioia per sempre. Cresce di grazia, mai passerà nel nulla" (Keats, Endimione)

Come Bright Star abbia potuto mancare tutte le nomination principali all'ultima edizione degli Oscar (a parte quella, meritatissima, per i costumi di Janet Patterson) resta una mistero. E come l'Academy abbia potuto preferire all'ultimo lavoro di Jane Campion il più convenzionale An Education (per citare il titolo più vicino per gusto e sensibilità) insieme ad un paio di altri film decisamente meno degni (leggi The Blind Side e Precious, di cui parlerò a breve) è una vergogna. Qualcuno dica a Jane Campion che Bright Star non avrà avuto fortuna agli Oscar ma è stato immediatamente inserito nelle canditature ai Best Confidential Awards 2009-2010 come miglior film, miglior regia, miglior attrice e miglior attore. Oltre a figurare nella cinquina Best My Heart Confidential che annovera i miei titoli preferiti della stagione appena conclusa: Coraline, Chéri, A Single Man e Amabili Resti.

"Una poesia deve essere compresa attraverso i sensi", "lenisce l'animo e lo incita ad accettare il mistero", dice il giovane poeta Keats alla neo allieva Fanny nel corso della loro prima lezione di poesia. Ed è attraverso i sensi che va esperito e compreso un film come Bright Star: luminoso e puro come il suo titolo, come le parole di Keats, come il volto sublime di Abbie Cornish.

La tormentata storia d'amore tra John Keats, orfano senza rendita e dalla salute cagionevole, e la vicina di casa Fanny Brawne, ricamatrice dal temperamento forte, caparbio ed indipendente nonché musa del poeta nei suoi ultimi anni di vita (1818-1821), offre a Jane Campion l'occasione per un film fuori dal tempo e dalle mode, perfettamente ancorato nello stile visivo (trasparente) e nel passo narrativo (piano e silenzioso) all'idea di amore romantico espressa nelle poesie di Keats. Il risultato è un gioiello assoluto di misura, rigore e grazia, all'altezza dei capolavori dell'autrice neozelandese, Lezioni di Piano e Ritratto di Signora.

Ma se nei film precedenti la Campion sviscerava la dimensione selvaggia e carnale dell'amore o quella dell'amore come violenza e fascinazione/sottomissione psicologica, in Bright Star è l'amore vagheggiato attraverso la sublimazione poetica a costituire il centro del discorso. Non c'è spazio per la fisicità, se non in brevi fugaci momenti (elettrizzanti) ma questo non vuol dire che il dolore e la passione non siano ugualmente lancinanti. Tutto passa attraverso la magia della parola poetica, che si tratti di un poema appena composto o di una lettera che tiene avvinti gli amanti ad un sogno, una promessa, l'attesa di un ritorno. Una parola poetica che non è mai stata così sensuale e così abilmente tradotta in immagini.



La Campion taglia inquadrature-capolavoro con la luce così come Fanny ricama e taglia tessuti e Keats compone architetture di parole. Arte. Il film non corre mai il rischio dell'esercizio di stile e dell'accademismo proprio perché ogni immagine ha una densità ed una compenetrazione di forma e contenuto che toglie il fiato. Nessun movimento di macchina gratuito. Nessun momento narrativo o artificio registico superfluo. Ma Bright Star funziona perfettamente anche come rasserenato ed al tempo stesso dolente melodramma su un amore imbevuto di poesia e destinato, come tale, a scontrarsi con il mondo prosaico (la condizione economica di Keats che non gli permette di sposare Fanny, l'avversione del suo tutore, Charles Brown, la malattia). E come tale è dominato da un'eroina volitiva ed orgogliosa che lotta fino alla fine per restare vicina al suo amato.


Ben Whishaw sembra nato per incarnare John Keats, ma l'anima del film è Abbie Cornish. La Campion è sempre stata magistrale nel dirigere le sue attrici fino ad un livello di eccellenza. E dopo Hunter, Kidman e Winslet, non smentisce il proprio dono con la Cornish: radiosa, misurata e potente, alterna l'orgoglio, la spigolosità e la schiettezza salottiera delle prime scene ("Il mio cucire ha più merito ed ammiratori degli scarabocchi di entrambi. Ed io posso ricavarci denaro", sentenzia verso Brown e Keats) ai fremiti dell'amore in tutte le sue fasi, tra dolcezza, paura, estasi ed abbandono. Fino all'epilogo, indimenticabile, senza dubbio tra i finali più belli dell'anno (e bello quanto la corsa di Nicole/Isabel Archer nel finale di Ritratto di Signora): la reazione di Fanny alla notizia della morte di Keats è una scena di devastante intensità (e rigore registico da manuale) e la Cornish avrebbe meritato l'Oscar solo per questo momento. L' immagine della carrozza funebre in una Piazza di Spagna mai così deserta è raggelante. Ed è magnifico l'ultimo primo piano su Fanny che cammina nel bosco vestita di nero e recita tra le lacrime i versi del suo amato.


"Ristorati ed imperlati dal piacere", applaudiamo in silenzio.

mercoledì 28 luglio 2010

L'autenticità della vita in "Fish Tank"


Distribuito dalla OneMovie in solo 18 copie, Fish Tank è un film da non perdere, unanimemente lodato dalla critica europea e statunitense ed immediatamente inserito nella lista delle nomination ai Best Confidential Award nella categoria miglior film e Best Act (la bravissima Katie Jarvis, attrice non professionista). Su Loudvision la mia recensione dell'opera seconda della regista britannica Andrea Arnold.
http://www.loudvision.it/cinema-film-fish-tank--1085.html

Fratellanza gay e neonazismo


E' uscito all'inizio di luglio il film vincitore del Marc'Aurelio d'Oro all'ultima edizione del Roma Film Festival. Su Loudvision trovate la mia recensione di Brotherhood - Fratellanza insieme ad una breve intervista al regista Nicolo Donato ai seguenti link: http://www.loudvision.it/cinema-film-fratellanza-brotherhood--1069.html
http://www.loudvision.it/cinema-interviste-fratellanza-brotherhood-nicolo-donato--171.html

venerdì 28 maggio 2010

La strada di Viggo


Week end al cinema? Lasciate perdere accuratamente Una canzone per te e La regina dei castelli di carta. Sorvolate su Sex & the City 2 (praticamente stroncato dalla critica ad ogni latitudine) se volete che vi resti un buon ricordo della serie tv. Degni di attenzione invece The Last Station e soprattutto The Road con un immenso Viggo Mortensen.

Il film è un dramma dal passo lento e sospeso con terrificanti venature horror. Padre e figlio attraversano un'America post-apocalittica grigia e desolata, battuta da freddo, piogge frequenti e terremoti. Devono raggiungere la costa, verso sud, nella speranza di andare incontro ad un clima più caldo. Tutt'intorno solo devastazione e miseria: non c'è ombra di vegetazione, la fauna è scomparsa, la terra sta morendo. Sopravvivono con quel po' di cibo che riescono a trovare ma la paura più grande non è quella di morire di fame. L'orrore concreto ed indicibile viene dalla paura di finire vittime dei gruppi di cannibali che percorrono le strade o si nascondono in case all'apparenza abbandonate. Camminano, padre e figlio, e dentro di loro "portano il fuoco" dell'umanità che non si lascia travolgere dal male ed ha fiducia nella vita.


Accolto senza entusiasmo a Venezia 2009 ma molto apprezzato dalla critica americana, The Road è un film coraggioso ed importante, imperfetto e bellissimo. Sebbene i flashback che riguardano il rapporto tra il padre e la madre (una funzionale Charlize Theron) e con i quali si allude ad un luminoso tempo pre-apocalisse e alla dolorosa decisione suicida della donna siano piuttosto scivolosi, Hillcoat è abbastanza intelligente da evitare di ricostruire il momento dell'apocalisse. Non occorre mostrare: vedendone le conseguenze gli spettatori possono benissimo immaginare l'immane portata del disastro. Ed è molto bravo nel disegnare immagini di sconfortante desolazione sotto cieli cupi e gonfi di pioggia. Forse fin troppo. Nei piani lunghi che vedono padre e figlio camminare lungo sentieri deserti circondati da una natura morente c'è come la ricerca di una poesia nella miseria, un'estasi della desolazione, un'elegia del grigiore post-apocalittico. Sono immagini bellissime da vedere e questa bellezza è in violento contrasto con il contenuto stesso dei vari quadri. Laddove il passo estatico/desolato cede il posto all'azione nello scontro con gli altri sopravvissuti (fra cui un magnifico Robert Duvall in una scena memorabile) il dramma ha la meglio sulla poesia, l'orrore dilaga, le emozioni espolodono ed il film decolla.


Viggo Mortensen si conferma uno dei più grandi attori viventi ed è uno scandalo che non sia stato candidato all'Oscar per questo ruolo. Non c'è nulla di superfluo ed eccessivo nella sua interpretazione. Tutto è vero, intenso, palpabile. Nel corpo ferito, sul volto scavato e nello sguardo terrorizzato ma ancora vivo vibra quel "fuoco" di cui parla McCarthy e tutto l'amore del mondo che un padre può volere al proprio figlio. Ed è nel bellissimo rapporto tra i due personaggi che il film segna un altro punto a favore: Mortensen ed il piccolo, bravissimo Kodi Smith McPhee sono credibilissimi e devastanti. E nel finale, uno dei più belli dell'anno, il passaggio metaforico della fiaccola dal padre al figlio è straziante.

Viggo è già sul set del nuovo film di David Cronenberg previsto per il 2011. A Dangerous Method racconterà la nascita della psicanalisi attraverso il rapporto tra Sigmund Freud, interpretato da Mortensen, e Carl Jung, cui darà il volto Michael Fassbender. Con tutto il rispetto per i tandem Burton-Depp e Scorsese-DiCaprio, il binomio autore-star che preferisico è quello metafisico e carnale composto da Cronenberg e Mortensen. Altro capolavoro in arrivo?

Voto: 7

giovedì 20 maggio 2010

Italiani a Cannes: "La nostra vita"


"Terribilmente urlato e poco convincente" è la lapidaria stroncatura di Variety. Molto meno sbrigativo, invece, The Hollywood Reporter secondo cui "il pubblico internazionale (e, aggiungo io, anche la critica) difficilmente potrà comprendere con quanta precisione Daniele Luchetti ha dipinto l'Italia contemporanea". Luchetti ha realizzato "un dramma intelligente che usa il proletariato per rappresentare lo stato delle cose in una scala più vasta".
Unanime invece la critica italiana nel sottolineare l'importanza e la bellezza de La nostra vita, da venerdì 21 nelle sale. Su loudvision.it potete leggere la mia recensione e l'intervista a Daniele Luchetti in occasione della conferenza stampa tenuta a Roma prima della partenza per Cannes.




Beautiful Italians a Cannes
In basso Elio Germano, Isabella Ragonese, Raul Bova e Stefania Montorsi sulla Croisette.


venerdì 14 maggio 2010

Adam dei miracoli

Uscito in America l'estate scorsa arriva in sordina questo week end nei cinema italiani Adam di Max Mayer, una piccola, delicata commedia sulla storia d'amore tra Beth (la Rose Byrne di Damages) e il giovane Adam (Hugh Dancy, già visto in Savage Grace, qui davvero molto bravo), affetto da sindrome di Asperger. Film tanto gradevole nei toni, soprattutto grazie ai due interpreti, quanto esile nella sceneggiatura e piatto nella regia. Ma Dancy e Byrne valgono il prezzo del biglietto. La mia recensione è su Loudvision al link:
http://www.loudvision.it/cinema-film-adam--1042.html

Robin Hood, un prologo noioso e frustrante


Fastidio e noia. Non c'è nulla che funzioni davvero in questa nuova versione delle avventure di Robin di Longstride nei 140 minuti inutilmente accumulati da Ridley Scott. Nulla, a parte i bellissimi titoli di coda, la puntuale, accurata ricostruzione storico/scenografica (ma trovandoci di fronte ad un film ad alto budget, è il minimo) e l'atmosfera grigia cupa ed opprimente da dramma shakespeariano d'annata. Quest'ultima forse fin troppo accentuata, al limite dell'enfasi tronfia e pesante. Ma l'accoppiata Scott-Crowe non ha mai avuto la mano leggera.

Tra battaglie e saccheggi, intrighi a palazzo, corteggiamenti svogliati, flashback che si vorrebbero rivelatori ma suonano posticci e una marea di attori impegnati (si fa per dire) quel tanto che basta per portare a casa lo stipendio milionario, i 140 minuti scorrono senza divertimento e senza emozione per i poveri spettatori. La trovata del film è quella di narrare (anzi, inventare)l'antefatto storico che precede la nascita della leggenda di Robin Hood. Un prequel in piena regola quindi, che finisce proprio dove gli altri film (e, ahimè, anche l'interesse del pubblico) cominciano e si apre la strada ad un probabile sequel. Che, data la gelida accoglienza della critica (45% di recensioni positive su rottentomatoes), è quanto mai incerto. Vedremo come risponderà il pubblico. Ma credo che preferirà di gran lunga l'action a colori di Iron Man 2.


Trovarsi di fronte ad un interminabile prologo è a dir poco frustrante. Che senso ha un film fatto senza urgenza e senza ispirazione? Capisco la necessità di raccontare qualcosa di diverso e di nuovo rispetto a quanto detto (e visto) in passato, ma almeno bisognava sforzarsi un po' di più per rendere il racconto interessante e suggestivo. Invece tutto è stereotipato, già visto, finto e senza passione. Nemmeno gli attori funzionano e salvano il film dal disastro: troppi personaggi e uno script che non dà a nessuno il materiale sufficiente su cui lavorare. Dirò una banalità ma sin dall'inizio è evidente quanto Russell Crowe sia troppo maturo e fuori parte per interpretare Robin Hood. Ed è insopportabile con la sua unica espressione corrugata e pensosa. E ridicolo nella variante animalesca e selvaggia (tipo quando esce urlante dall'acqua nella scena della battaglia sulla spiaggia, una sequenza fin troppo ricalcata sullo sbarco in Normandia di Salvate il soldato Ryan).

Quanto a Cate Blanchett, è sempre bellissima e l'aggiornamento del personaggio di Lady Marion da damsel in distress a signora fiera ed indipendente è interessante. Ma lo sviluppo della love story con Robin Hood è prevedibile (e soltanto abbozzato), la chimica tra le due star assolutamente inesistente e l'apparizione nelle vesti di guerriera simil-Giovanna d'Arco nella sequenza della battaglia finale è a dir poco fuori luogo ed imbarazzante.

Voto: 4

lunedì 3 maggio 2010

Dench vs Blanchett: scontro di regine in "Diario di uno scandalo"


E' un grande film Diario di uno scandalo e non solo per le incredibili performance di Judi Dench e Cate Blanchett. Richard Eyre realizza un thriller d'autore di notevole complessità psicologica, stringato e senza sbavature nei suoi 90 minuti di durata, immerso in un'atmosfera livida e claustrofobica (gli esterni grigi e piovosi, il seminterrato) ed impreziosito dalla colonna sonora liquida di Philip Glass. Il film non inizia: scorre come un fiume e lo spettatore ci finisce immediatamente dentro, travolto dal vortice manipolatorio di Barbara. Dall'alto della sua facoltà di controllare il racconto attraverso la scrittura del suo diario, la protagonista impone immediatamente la sua prospettiva interiore come focalizzazione narrativa principale:

"Tutti mi hanno sempre affidato i loro segreti. Ma io a chi posso affidare i miei? A te. Soltanto a te"

Così dichiara in apertura la voce fuori campo di Barbara mentre sfoglia le pagine di un diario ancora immacolato. Ma ci vuole poco per intuire che si tratta di una prospettiva instabile, parziale, non condivisibile fino in fondo. Barbara non è solo una vecchia insegnante cinica e severa: è molto di più ed anche molto peggio. Dalle pagine del suo diario emerge la sua natura sprezzante e presuntuosa. Una presunzione che ha profonde radici nel suo isolamento, nella sua solitudine e nell'assenza d'amore. Si difende Barbara. Si trincera dietro una glaciale rigidità. Si sente respinta, rifiutata, sessualmente ignorata e questo la trasforma in un essere spregevole e pericoloso. La sua idea di superiorità rispetto agli altri si traduce in parole di disprezzo per chiunque e sfocia in una pericolosa ansia di controllo e possesso attraverso metodiche, puntigliose strategie manipolatorie.


Nei primi 10 minuti il regista pone le basi della fascinazione di Barbara per Sheba Hart, la nuova insegnante di arte. Pochi sono gli accenni all'omosessualità di Barbara: la dolce impertinenza della sorella, che le chiede se "c'è qualcun'altra", o il ricordo costante di una vecchia amica del cuore di cui si sono perse le tracce. Nelle parole di Barbara, Sheba potrebbe essere la "fatina" giunta a rimpiazzare quel posto rimasto vacante per tanto tempo. E' sincera nel suo diario, Barbara. E' davvero felice quando Sheba la invita a pranzo dalla sua famiglia e lei si lustra a festa per fare bella figura: "Oh beatitudine! Una bandiera gioiosa sventola sul deserto artico del mio calendario". Ma è ipocrita e doppia: davanti è tutta sorrisi, disponibilità ed affetto. Ascolta le confessioni dell'incauta Sheba e si compiace di esserne la confidente.

"E' una caratteristica tipica dei privilegiati, abbandonarsi a confidenze immediate ed incaute [...] Sheba fu di una sincerità assoluta. Una novizia che si confessa alla madre superiora".

Ma alle spalle (sul diario ed in voce fuori campo) non lesina in commenti terribili sul marito e sui figli. E' falsa Barbara, forse soltanto poco più di tutti quanti noi. Finiamo col provare vergogna, persino imbarazzo per la sua spietata sincerità. "Non si leggono i diari degli altri", dirà alla fine.


Dal canto suo, Sheba è inquieta e confusa, insoddisfatta della vita di madre ed incerta sulla sua vocazione di insegnante. Crede fondamentalmente di essere "una buona a nulla", e forse è così. Di certo è un'istintiva, se si abbandona alla passione per l'alunno quindicenne Steven Connolly con tale leggerezza e noncuranza delle conseguenze.

"Mio padre diceva sempre - Ricordati Sheba, non devi perderti !- Non lo so. E' che c'è una distanza tra la vita che uno sogna di avere e la vita che ha".

Mentre dà queste battute lo sguardo di Cate Blanchett si perde chissà dove e le labbra accennano un lieve sorriso. A differenza del personaggio di Barbara, non abbiamo accesso all'interiorità di Sheba. Questo rende il suo carattere arduo da interpretare e da raccontare al pubblico, soprattutto attraverso il filtro della voce di Barbara, ma la Blanchett riesce a rendere miracolosamente credibili le scelte di Sheba senza imporre nessun giudizio.

"Mi sono sempre comportata bene. Sono stata una buona moglie, una discreta madre. Questa voce dentro di me continuava a ripetere - Perché non potresti essere cattiva almeno una volta, perché non dovresti trasgredire? Te lo sei guadagnata".

Sheba è una debole, e come tale si lascia travolgere dagli eventi. E si fida degli altri. La Blanchett è strepitosa nel rendere la sua incoscienza, e disarmante quando si sforza di trovare una giustificazione al suo comportamento (ma attenzione: se si giustifica, è solo per le orecchie di Barbara). Finita nella trappola dell'anziana collega, che dopo aver scoperto la tresca compra l'amicizia della giovane in cambio del suo silenzio, Sheba commette un altro errore, ancora più grave della pedofilia (il giovane, sfrontato e bugiardo Steven è tutt'altro che innocente e lo sguardo del regista sulla questione è brillantemente scevro da qualsiasi moralismo). Anche Sheba, in fondo, crede di poter manipolare Barbara, fingendosi sua amica soltanto per tenerla al suo posto. Praticamente si mentono a vicenda. Qui ruota il centro nevralgico delle tensioni del film: un'autentica tragedia dei sentimenti, una fotografia della loro svalutazione e mercificazione.


"Avevo davanti un'occasione superba: se agivo con astuzia potevo assicurarmi la preda rendendola mia debitrice in eterno. Potevo ottenere tutto... senza fare nulla".

Barbara ha dalla sua parte anni ed anni di reclusione interiore che l'hanno trasformata in un vampiro. Quando scopre che Sheba sta ancora frequentando lo studente nonostante il suo veto di porre fine alla liason, la situazione precipita. Barbara ancora una volta è persino sincera nel voler mettere in guardia Sheba dai rischi che sta correndo.

"Credi che lui ricambi le tue attenzioni sdolcinate? Oh certo! Sarà affascinato dagli squallidi appetiti di una matura signora borghese con problemi coniugali! Non sai quanto siano crudeli gli adolescenti. Io li conosco. Quando sarà sazio ti butterà come uno straccio vecchio! Non sei più una ragazzina."

A partire da questo momento la donna si autoconvince che il suo rapporto con Sheba sia una specie di platonica storia d'amore. Una visione completamente distorta della realtà, un'enorme menzogna che non può non ritorcersi contro con effetti catastrofici. Quando la giovane si trova costretta a scegliere tra l'amica e la sua famiglia, la vendetta scatta subdola ed inesorabile. La scena in cui Barbara circuisce il collega ed accende la miccia dello scandalo semplicemente insinuando il sospetto della relazione illegale, è un trionfo attoriale. Judi Dench è micidiale ed implacabile, un cervello astuto che afferra immediatamente la possibilità di una vendetta e porta il suo interlocutore lì dove lei vuole che arrivi. Nel passaggio successivo c'è tutto il dolore e il rancore del personaggio.

"Le persone come Sheba sono convinte di sapere cosa significhi essere soli. Ma della tortura del lento sgocciolio della vera, infinita solitudine non sanno niente".


E Cate? Quando la verità sulla manipolazione viene a galla, le due donne si affrontano in una stupefacente scena madre e noi spettatori assistiamo con la bava alla bocca ad uno dei duelli più intensi degli ultimi anni. Sheba finalmente sputa il rospo e vomita addosso alla sua carnefice tutto quello che pensa veramente di lei. Poi si dà in pasto ai giornalisti urlando con tutta la rabbia e la disperazione che ha in corpo. Di solito controllatissima, Cate Blanchett qui molla le redini e si lascia andare. Il momento dell'urlo è di una potenza dilaniante ed è probabilmente la scena più toccante del film.

voto: 8

Film che fanno male (2): Antichrist


Illuminazione del giorno dopo: il vero anticristo non è la donna-strega, tanto ignobilmente rappresentata in questo incubo confuso, predicatorio e autocompiaciuto. Un incubo attraversato da contraddizioni psicologiche di ogni sorta e da un immaginario erotico/satanico che si vorrebbe raffinato (la fotografia è lussuosa, lo scenario horror della baita nel bosco di sicuro effetto) ma rischia di essere soltanto ridicolo. No, il vero anticristo è il regista stesso.

Lontano dal melo' miracoloso de Le onde del destino (il suo film più puro?) e dal rigore spietato di Dogville, Lars Von Trier inscena ossessioni e turbe personalissime praticamente senza alcun filtro, tanto basica è l'elaborazione drammaturgica e il gioco dei rapporti tra i due protagonisti. E' come se noi spettatori avessimo direttamente accesso ai suoi pensieri e al suo cervello, ahimé, un po' disturbato, perlomeno riguardo al rapporto con l'altro sesso. Che la sua atroce misoginia nasconda un'omosessualità latente mai accettata?


Ovviamente scherzo, ma suggerirei al regista danese di andare in analisi o, nel caso ci andasse già, di cambiare psicanalista (o cambiare pusher...), piuttosto che rendere pubbliche le sue privatissime angosce imbastendo un raccontino pretestuoso il cui unico scopo è far aggirare Charlotte Gainsbourgh indemoniata in mezzo ad un bosco avvolto dalla nebbia (con in mano una pala, una chiave inglese, un paio di forbici e via precipitando).

Dopo i primi 10 minuti già avvertivo il fastidio di assistere ad uno scherzo travestito da film d'arte in cui non c'era nessuna possibilità di riconoscersi, identificarsi o tantomeno rintracciare non dico un messaggio (che brutta parola) ma almeno la possibilità di una trasfigurazione del delirio privato (leggi: piccolo, misero) di Von Trier in qualcosa di universalmente necessario. Il regista è invece interessato solo a scioccare lo spettatore con le sue brutture. Infarcisce il suo kammerspiel con un simbolismo d'accatto ed uno psicologismo sdentato e gioca nella maniera più subdola possibile con la morbosità stessa della spettatore. Che, ignaro di rendere un servizio al diavolo, resta a guardare il gioco al massacro tra marito e moglie per vedere non cosa accadrà alla fine, ma fino a che punto il direttore d'orchestra ha avuto il coraggio di spingersi. In questo Von Trier è diabolico e geniale, bisogna rendergliene atto. Ma per far leva sugli istinti voyeuristici e masochistici più bassi degli spettatori è ignobile ed immorale.


La storia in due parole: la difficile elaborazione del lutto del figlioletto (incidentalmente caduto dalla finestra mentre i genitori copulavano al ralenti in un sofisticatissimo bianco e nero) si trasforma in un'esplorazione della psiche contorta di mamma Charlotte Gainsbourgh (ammirevole, ma poverina: è caduta in depressione per due mesi dopo la fine delle riprese... qualcuno fermi Von Trier!!!). Papà Willem Dafoe (immoto come al solito) è, guarda caso, uno psicoterapeuta e decide di curare lui stesso la moglie, portandola nel luogo dove lei ha più paura di tornare: Eden, una baita in mezzo al bosco dove aveva trascorso l'estate precedente insieme al figlio mentre faceva le ricerche per la tesi. Ed è nella tesi la spiegazione dell'arcano: l'argomento è la persecuzione delle donne tacciate di stregoneria nel corso dei secoli. L'idea di partenza era quella di documentare l'innocenza di queste povere donne, ma più Charlotte si addentrava nei suoi studi avvolta dall'isolamento della baita, più iniziava a maturare la certezza della malignità della natura e della cattiveria insita nell'animo femminile. Insomma, queste streghe non erano affatto innocenti.


Dal momento in cui Dafoe fa due più due ed identifica la moglie con una strega, non c'è limite alla follia persecutoria della donna (letteralmente impazzita) e al vortice di orrore che Von Trier ci costringe a vedere. I momenti top sono in crescendo: la castrazione di lui, un atto masturbatorio che termina con una bella eiaculazione di sangue, l'automutilazione di lei (quest'ultima davvero insostenibile), fino all'epilogo in cui Dafoe uccide e brucia la Gainsbourgh legandola ad un palo proprio come si faceva con le streghe nel medioevo.

A poco vale il colpo di scena finale che svela le ragioni del terribile senso di colpa del personaggio di Charlotte. Con gli occhi pieni di orrore e di sdegno, c'è solo qualcosa che vorresti fare: tornare indietro nel tempo e scegliere un altro film. Oppure, meglio: rovesciare un secchio di acqua gelata su Von Trier e costringerlo a rivedere Le onde del destino. Sperando torni a fare film così.

voto: 4

Film che fanno male (1): Requiem for a dream


Week end punitivo? Mood masochistico? Preoccupante cupio dissolvi? Necessità di disintossicarmi dalla sindrome-Blanchett? Ieri ho visto in fila due dei film più controversi, inclassificabili, maledetti e terrificanti degli ultimi dieci anni: Requiem for a dream di Darren Aronofsky (2000) e Antichrist di Lars Von Trier (2009). Devo aver associato le due visioni intuendo che difficilmente avrei trovato, in un altro momento, il coraggio di approcciare questi film. Quindi due al prezzo di uno. Per Antichrist rimando al prossimo post; subito dopo si ritorna a respirare con la retrospettiva su Cate Blanchett.

Piaccia o no lo stile esccessivo e provocatorio di Aronofsky, Requiem for a dream è un'esperienza visiva ed emotiva difficile da dimenticare. E non a caso il film è diventato un cult movie, oltre ad aver raccolto nomination in ogni dove per la prova di Ellen Burstyn (ma anche Jared Leto e Jennifer Connelly sono straordinari).


Diviso in tre capitoli, Summer, Fall e Winter, che scandiscono le tappe di una discesa agli inferi senza ritorno (manca ovviamente la rinascita rappresentata dalla Primavera), il film ruota intorno alla vita di Sarah Goldfarb (una Burstyn che non ha paura di apparire patetica e mostruosa), casalinga in sovrappeso che passa le giornate a guardare orribili show commerciali in tv, e di suo figlio Harry, tossicodipendente impegnato con ogni mezzo a procurarsi l’eroina per sé, la sua ragazza Marion e l’amico Tyrone. Quando un giorno Sarah viene selezionata come probabile concorrente di un programma, il suo unico obiettivo diventa quello di dimagrire in vista della sua apparizione in tv ed inizia una dieta a base di anfetamine. Chiusa in casa nell’attesa di ricevere la convocazione allo show e realizzare il suo sogno di indossare in tv il suo bel vestito rosso, Sarah diventa sempre più dipendente dalle pillole dimagranti, finendo in un vortice allucinatorio senza speranza che la porterà dritta dritta in un istituto psichiatrico.

Contemporaneamente Harry e Tyrone spacciano eroina per mettere soldi da parte e fare la bella vita, ma le cose precipitano dopo una sparatoria in cui Tyrone resta coinvolto e tutto il denaro viene utilizzato per pagare la cauzione. Procurarsi eroina diventa sempre più difficile e l’astinenza getta il gruppo in uno stato di tensione insostenibile. Marion finisce col prostituirsi per poter comprare la droga, mentre Harry e Tyrone partono per un viaggio in Florida nella speranza di fare accordi direttamente coi trafficanti e ripartire da zero. Ma il braccio di Harry, su cui continua ad infierire con pesanti iniezioni di eroina, sembra essersi infettato… Finale tragico per tutti.


Aronofsky indaga più tipi di dipendenza: dalla tv, coi suoi falsi miti del successo e della bellezza, dalle pillole dimagranti, dalla droga. E le mette tutte sullo stesso piano con grande efficacia drammatica, mescolando una grande varietà di tecniche di ripresa allo scopo di stupire, provocare e sconvolgere lo spettatore: split-screen, primi piani ravvicinatissimi, riprese a velocità accelerata, prospettive distorte che mirano a rendere il punto di vista allucinato dei personaggi. Le differenti scelte stilistiche sono comunque funzionali: per rappresentare il momento dell’iniezione di eroina, ad esempio, ricorre ad un montaggio di inquadrature brevissime che, ripetute in modo ossessivo, producono un effetto sempre più respingente. A questo montaggio ipnotico e sincopato alterna inquadrature senza stacchi in cui segue i personaggi adoperando la snorricam, una camera legata direttamente al corpo dell’attore che determina un senso di vertigine per lo spettatore oltre a suggerire la prospettiva interna, spesso alterata, del personaggio.

Il tutto accompagnato dalla drammatica partitura di Clint Mansell Lux Aeterna, una composizione per quartetto di archi che contribuisce all’atmosfera fredda, dissonante, straniante del racconto ed ha avuto uno straordinario successo anche al di là del film. Requiem è un’opera potente ed ossessiva, forse un po’ furba e programmatica nel frullare con abilità stili e metodi di ripresa e nel rappresentare personaggi votati sin dall'inizio ad una fine atroce, ma è auntentica e sanguinante e, senza dubbio, narrativamente efficace. Tutta l’ultima parte è un incubo pazzesco, ben oltre qualsiasi altra cosa abbiate mai visto sullo schermo. Ha coraggio Aronofsky, presunzione e una gran bella faccia tosta: il rischio della provocazione gratuita resta ed Aronofsky sembra a volte fin troppo compiaciuto nel far raschiare ai suoi disperati protagonisti il fondo della loro miseria non risparmiando nulla né a loro né ai poveri spettatori. Ma il messaggio arriva dritto al cuore, alla testa e agli occhi con una forza deflagrante.
voto: 7

giovedì 29 aprile 2010

Blanchett sfinge enigmatica in "Intrigo a Berlino"

Subito dopo l'Oscar come miglior attrice non protagonista per The Aviator, Cate Blanchett ha continuato a macinare generi e ruoli diversissimi tra loro con la costanza di una macchina da guerra infaticabile. Le sue interpretazioni tra il 2006 e il 2007 danno un'ulteriore prova della sua versatilità e della sua capacità di scomparire nei personaggi, modificando aspetto, fisicità, timbro della voce, accento e persino (la cosa più difficile) ritmo e tempi interiori. Se il punto più alto della sua arte è finora rappresentato dalla performance di Bob Dylan in Io non sono qui (grado massimo di perfezione tecnica) e dall'appassionata Sheba Hart di Diario di uno scandalo (grado massimo di abbandono emotivo), nel 2006 la Blanchett è apparsa anche in Babel e nel curioso The Good German - Intrigo a Berlino di Steven Soderbergh.

Ed è su questo film che vorrei soffermarmi, a prescindere dal suo risultato semi-fallimentare. Nel ruolo della misteriosa Lena Brandt, ebrea sposata al matematico nazista Emil Brandt in fuga nella Berlino post bellica, la Blanchett trascende il film stesso con la sua magnetica bellezza, risollevando l'attenzione dello spettatore in ogni fotogramma in cui appare. Ed anche se Soderbergh, in pieno mood da gelido studente di cinema tutto cervello e niente cuore, usa il personaggio (e di conseguenza l'interprete) come una mera funzione narrativa ed iconografica attraverso cui ricalcare gli stilemi del noir classico, Cate è l'unica a salvarsi dal naufragio del film, assieme alla strepitosa fotografia in bianco e nero.


Tratto dal romanzo di Joseph Kanon, Intrigo a Berlino offre a Soderbergh l'occasione per sfoderare la sua cinefilia rivisitando il cinema noir; operazione sulla carta molto affascinante, ma che sullo schermo si risolve in uno sterile esercizio di stile. Soderbergh non gira un semplice omaggio, ma un vero e proprio calco, recuperando, anzi, imitando stilemi ed inquadrature degli anni '40. La fotografia contrastata di taglio espressionista è assolutamente magnifica ed a volte si ha davvero l'impressione di vedere un film di quel periodo. Ma se l'involucro abbaglia, il contenuto non ha un briciolo della profondità, del simbolismo e della visionarietà del noir classico. La trama è inutilmente involuta, gli aggiornamenti riguardo alla rappresentazione della sessualità e della violenza non stabiliscono nessun ponte con la contemporaneità e persino il finale alla Casablanca suona finto e forzato. Tra l'enciclopedia del cinema che fu e l'esperimento fine a se stesso di un regista che si crede il primo della classe ma è incapace di infondere vita alle sue marionette, Intrigo a Berlino è irritante e pretenzioso, e non va oltre il fascino decadente di un vecchio giocattolo restaurato.


E gli attori? Clooney, anche quando gioca apertamente a fare il moderno Cary Grant, è sempre e soltanto Clooney, mentre Tobey McGuire si cimenta in un ruolo negativo ben oltre le sue possibilità. La Blanchett merita un discorso a parte, essendo l'unica completamente a proprio agio nell'universo cinematografico di modelli e riferimenti evocati da Soderbergh con tanta maniacale perizia. Nel momento in cui appare sullo schermo Cate Blanchett/Lena Brandt sembra davvero emergere da un film degli anni '40, vestita, pettinata, illuminata ed inquadrata come un vera dark lady del passato.


Da un punto di vista narrativo e visivo il personaggio di Lena è una fotocopia letterale dello stereotipo della donna fatale: infida, ingannevole, incredibilmente bella e pericolosa. Soprattutto inconoscibile: quali sono i suoi segreti? Quali i suoi scopi? Quando mente e quando è sincera?
Mora e tentatrice, volto immobile e sguardo da sfinge, voce calda e sensuale ed un inconfondibile accento tedesco, la Lena di Cate Blanchett è chiaramente costruita sul fascino enigmatico di Marlene Dietrich e sulla Ilsa di Ingrid Bergman in Casablanca, ed è un altro perfetto esempio del trasformismo dell'attice. Questa volta non è chiamata a mimetizzarsi nei panni di un personaggio realmente esistito, come Katherine Hepburn o Bob Dylan, ma ad incarnare un'idea stessa di femminilità, uno stereotipo portato sullo schermo migliaia di volte. Come tale deve essere immediatamente riconoscibile e, trattandosi di un film che ne omaggia mille altri, anche il suo calco deve essere la summa di tutte le dark lady possibili.



L'attrice fa ancora una volta centro: modella look e tempi recitativi sull'aplomb glaciale della Dietrich, ed arriva a fondersi perfettamente non solo con l'ambiente storico ma con il tessuto stesso del film. Diventa pura materia di cinema sulla cui superficie traslucida convivono passato e presente in un vertiginoso corto circuito postmoderno. Così facendo Cate mette a fuoco l'obiettivo finale del regista: resuscitare fantasmi. Ed è la sola che ci riesce.

Voto: 5 (al film, ma 8 alla Blanchett)

mercoledì 28 aprile 2010

In "Heaven" con Cate e Ribisi


Diretto da Tom Tykwer dopo il successo internazionale di Run, Lola, Run, e basato su una sceneggiatura di Kieslowki (primo capitolo di una trilogia che avrebbe dovuto comprendere anche Hell e Purgatory), Heaven è un film irrisolto e misconosciuto, ma assolutamente affascinante. E, dato non trascurabile, si avvale di una delle più sensazionali performance di Cate Blanchett, qui al suo massimo grado di purezza, accompagnata da un Giovanni Ribisi meraviglioso per intensità e candore. Il plot è quantomeno bizzarro ed insolito, e mescola crime story, thriller, dramma e romance con tale leggerezza (se non ingenuità) e sprezzo della verosimiglianza che risulta subito chiaro quanto la trama sia metaforica, un semplice pretesto per riflettere su qualcos'altro: la natura umana e temi universali quali la vendetta, la colpa, la redenzione e l'amore. In questo senso Heaven è un film filosofico, coraggioso, forse addirittura sbagliato (all'uscita fu un fiasco clamoroso), ma unico nel suo genere. Merito dell'abbagliante stile visivo di Tykwer, che disegna spazi ed inquadrature di una limpidezza straniante ed imprime all'azione un ritmo lento, sospeso, carico di tensione non solo psicologica, ma addirittura metafisica, grazie al supporto della stupenda fotografia di Frank Griebe.


Interamente girato in Italia tra Torino e Montepulciano, con attori impegnati a recitare sia in inglese che in italiano, Heaven racconta la storia di Philippa, un'insegnante inglese che, dopo aver inutilmente segnalato alla polizia il coinvolgimento di un uomo nella morte per overdose di suo marito, decide di farsi giustizia da sola. Il suo piano però fallisce miseramente: nello scoppio della bomba da lei stessa fabbricata perdono la vita quattro persone innocenti e Philippa viene accusata di associazione terroristica. Filippo, il giovane, silenzioso carabiniere che fa da traduttore nel corso dell'interrogatorio, si innamora di lei e l'aiuta ad evadere. Insieme attraverseranno l'Italia e troveranno rifugio nelle campagne toscane. Ma sarà quasi impossibile sfuggire alle ricerche dei carabinieri...


Dimenticate la trama e lasciatevi incantare dalla magia delle immagini e dalle atmosfere ovattate e celestiali; celestiali, però, non in senso iconografico (a parte il magnifico finale, con la corsa sulla collina, l'amore ai piedi del grande albero e la fuga verso il cielo... da brivido), ma in termini di dilatazione spazio-temporale, con effetti di irrealtà avvolgente. Tykwer trasforma un'assurda storia thriller in un poetico inno alla vita e alla libertà, ma il risultato non sarebbe lo stesso senza Blanchett e Ribisi: la loro alchimia è semplicemente commovente, il loro progressivo avvicinamento psicologico e fisico sconvolgente e naturalissimo. Nell'ultima parte, in cerca di riparo e redenzione nell'abbraccio della natura, i due protagonisti indossano lo stesso costume neutro (jeans e maglietta bianca), si rasano a zero i capelli, adottando un look che annulla ogni differenza e li rende identici, quasi fratelli (non a caso hanno lo stesso nome). A poco a poco, diventano, per amore, una cosa sola: esseri umani liberi e puri. Così umani, senza maschere, senza trucchi, senza orpelli, da rappresentare l'umanità al grado zero, primordiale. Così umani... da sembrare alieni: indifesi, innocenti nonostante la colpa, ma felici.


Rasata eppur bellissima, Cate Blanchett sfodera nella tenuta del primo piano e nella luminosità dello sguardo un'intensità ed un abbandono lontani dai tecnicismi e dagli istrionismi mimetici di cui è assoluta maestra. L'essere umano primordiale al quale Philippa e Filippo ritornano nel finale è anche l'Attore al grado massimo di neutralità e disponibilità di fronte al personaggio, all'azione e alle emozioni: nudo, naturale, aperto. Una pagina bianca pronta ad accogliere qualsiasi sentimento e psicologia. I personaggi/attori si annullano per poter essere universali ed esprimere tutta l'unicità e la molteplicità della vita nel loro corpo/sguardo. Guidati dalla mano ispirata di Tykwer, Blanchett e Ribisi accettano la sfida e volano verso il cielo. Quasi impossibile separare le due prove attoriali: sono un'unica, miracolosa performance.

Voto: 7

martedì 27 aprile 2010

Dal nuovo Soldini volevamo di più


Cosa voglio di più? Magari non il solito film italiano sulla crisi economica, sulle famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese, sulle avventure extraconiugali vissute come valvola di sfogo e fuga (impossibile) da una vita grigia fatta di conti e pannolini, sulla passione che scoppia improvvisa quando e dove meno te l'aspetti, sull'amore che (finalmente) arriva ma è (quasi) sempre il momento sbagliato, sull'amore che ti costringe a mettere in dubbio le tue strutture, le tue certezze, la tua vita e gli affetti delle persone a te più care. Fino a che punto posso chiedere di più dalla mia vita ed aspirare ad essere più "felice" di come si suppone che io sia senza fare del male agli altri?

Provate a pensare a quante altre volte abbiamo visto, letto, sentito una storia del genere. Il soggetto è quanto di più trito si possa immaginare, e non basta l'idea di ambientare una passione clandestina (da un punto di vista letterario legata soprattutto ad un contesto borghese) fra personaggi di bassa estrazione sociale (sarebbe questo l'elemento di presunta novità?) per tener desto l'interesse dopo i primi 15 minuti. Per fortuna la sceneggiatura e soprattutto la regia di Silvio Soldini sono attente ai dettagli ed alle sfumature nascoste fra le pieghe dei dialoghi, nei silenzi e negli sguardi dei personaggi. Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher sono molto bravi nel mettere in scena con sincerità e generosità il tipico gioco delle parti ed alcuni personaggi di contorno sono ben schizzati (anche se il casting di Battiston in coppia con la Rohrwacher stride un po' troppo sin dall'inizio). Molto bello ed intenso il finale aperto, ma lancio una preghiera a regista e sceneggiatori: la prossima volta non fermatevi alla prima idea che vi viene in mente quando dovete scrivere un film...

voto: 6

lunedì 19 aprile 2010

Gotico polanskiano


Lo scrittore inglese Ewan McGregor (giustamente il suo personaggio non ha nome, è un signor Nessuno) è assunto (per 250mila dollari) come ghostwriter dell'ex premier britannico Adam Lang (Tony Blair?), che ha il volto televisivo sorridente e plastificato di Pierce Brosnan. Deve rivedere e correggere l'autobiografia del politico, praticamente già scritta dal suo predecessore, trovato morto sulla spiaggia in circostanze misteriose. Suicidio o omicidio? Il giorno stesso in cui Ewan raggiunge in America la villa-bunker sull'isola al largo della costa atlantica dove Lang vive assieme alla moglie Ruth (Olivia Williams), all'amante-segretaria Amanda Bly (Kim Cattrall) e al suo staff, il politico viene accusato dal tribunale internazionale dell'Aia di crimini di guerra: ha illegalmente rapito e passato alla Cia dei (potenziali) terroristi e li ha fatti torturare. Il povero scrittore non farà in tempo a pentirsi di aver accettato l'incarico che finisce coinvolto in un intrigo ben al di là della sua portata.

Roman Polanski in zona Frantic sforna un thriller eccellente, anti-americano e anti-politico, con uno sguardo al classicismo, tra suspence hitchcockiana, atmosfere gotiche (la casa sull'isola, la pioggia battente) e convenzioni noir (l'uomo comune travolto da eventi straordinari, la donna infida), e uno sguardo (di un pessimismo senza speranza) alla Storia attuale. Film geometrico nella struttura e nel design, cupo ed allarmante (fotografia livida e colonna sonora alla Bernard Hermann di Desplat), in cui McGregor si conferma un perfetto James Stewart del nostro tempo ed Olivia Williams incarna un'insinuante, sottile variante della dark lady del noir classico. Non c'è un'inquadratura superflua o fuori posto, la sceneggiatura scorre matematica tra sequenze memorabili e luoghi topici (il traghetto, l'inseguimento) in una spirale kafkiana di sospetti, cospirazioni e pericoli sempre più angosciante. Grandissimo finale.

Voto: 9

domenica 18 aprile 2010

"Oltre le regole - The Messanger": la recensione


Da eroe di guerra a messaggero di morte per conto del governo, il viaggio interiore del sergente Will Montgomery alla ricerca di un barlume di umanità nell'incontro con i parenti dei caduti in Iraq. La mia recensione di Oltre le regole - The Messanger è su Loudvision al link:
http://www.loudvision.it/cinema-film-oltre-le-regole-the-messenger--1020.html

voto: 7

martedì 13 aprile 2010

Fantastic Mr Anderson


Segnate l'appuntamento sull'agenda: venerdì esce Fantastic Mr Fox, geniale, eccentrica, imperdibile incursione nel mondo dell'animazione in stop motion dell' enfant prodige del cinema americano Wes Anderson, autore de I Royal Tenenbaum e Un treno per il Darjeeling. Tratto da un racconto di Roald Dahl, scrittore britannico di celebri romanzi per l'infanzia fra cui "La fabbrica di cioccolato", "I Gremlins", "James e la pesca gigante" e "The Witches" (da cui Nicholas Roeg trasse nel 1990 un adattamento con una magnifica Anjelica Huston), e cosceneggiato insieme all'altrettanto appuntito, surreale ed irriverente Noah Baumbach (regista de Il calamaro e la balena, Il matrimonio di mia sorella e dell'imminente Greenberg con Ben Stiller), Fantastic Mr Fox racconta la storia del signor Fox, impenitente ladro di polli, che conduce una vita idilliaca assieme all'amata moglie, al figlio Ash, disadattato e complessato, e all'adorabile, superdotato cugino Kristofferson .


Dopo aver deciso di abbandonare i rischi dell'attività di ladro di pollame in favore di una vita tranquilla e borghese, Mr Fox ha affittato una casa ricavata in un enorme albero in cima alla collina. Ma dalla posizione privilegiata della sua nuova tenuta il richiamo della natura selvaggia ed animalesca torna presto a farsi sentire e la tentazione di riprendere il vecchio vizio di far razzia di polli in barba agli allevatori circostanti si fa sempre più forte. Peccato che questa volta avrà a che fare con i fattori più cattivi e vendicativi che abbia mai incontrato. Mr Fox metterà in pericolo non solo la vita della sua famiglia, ma quella di tutti gli animali del vicinato, costretti a rifugiarsi sottoterra per sfuggire all'assedio delle ruspe dei fattori decisi a stanare ed annientare con ogni mezzo la comunità di piccoli rifugiati.

Eccellente dal punto di vista artistico (bellissimi i colori e il design scenografico), ricchissimo nella caratterizzazione dei personaggi, stratificato nell'uso dei simboli e dei riferimenti cinematografici, accompagnato dall'ennesima travolgente partitura di Alexandre Desplat (compositore che davvero non sbaglia un colpo, qui impegnato nel creare un mondo folk vivace e colorato), Fantastic Mr Fox è un gioiello spassoso e sofisticato, visivamente splendido e dal sorprendente contenuto sovversivo. L'universo strampalato e bizzarro delle famiglie di Wes Anderson trova un'equivalente perfetto, quasi un'immediata traduzione nella famiglia di Mr Fox, mentre la metafora politica si costruisce lentamente a mano a mano che la storia si allarga fino ad abbracciare tutta la comunità di animali in fuga. Una comunità di buffe, umanissime creature del sottosuolo che nell'unione e nella lotta per la comune sopravvivenza troverà la forza per contrastare il pericolo rappresentato dall'uomo.


Anderson continua il suo viaggio personalissimo nel mondo del cinema parlandoci con leggerezza ed acume dell'impossibilità di sfuggire alla propria natura e della felicità che si raggiunge quando ci si riconosce e ci si accetta per quello che si è. Ma ci parla anche della forza del gruppo e dell'importanza della condivisione, dell'amore (commoventi le scene tra marito e moglie) e della crescita personale (bellissima l'evoluzione del rapporto tra padre e figlio ). Senza mai essere predicatorio, ma sempre acuto, candido, libero ed originale.
Voto: 8