sabato 30 gennaio 2010

Gli Amabili Resti di Peter Jackson


Preceduto da una diffusa fama di flop (sia critico che commerciale: 65 milioni di dollari di budget, 33 milioni l’incasso finora raccolto oltreoceano), esce in Italia il 12 febbraio Amabili Resti (The Lovely Bones) di Peter Jackson, tratto dal bestseller di Alice Sebold. Credo di essere nella ristretta cerchia di persone che non solo hanno apprezzato il film ma se ne sono lasciati quasi completamente (e piacevolmente) avvolgere. Sarà per la potenza narrativa di Jackson (che ha fatto di meglio, ma nemmeno si smentisce), per gli effetti visivi “favolosi” e funzionali o per Saoirse Ronan, ma Amabili Resti è un viaggio onirico disturbante e commovente che merita il prezzo del biglietto.
Il plot è noto: brutalmente assassinata, la quattordicenne Susie Salmon (Saoirse Ronan) staziona in una sorta di limbo ultraterreno dal quale osserva la sua famiglia sgretolarsi di fronte alla difficoltà di elaborare il lutto. Il desiderio di alleviare il dolore dei genitori (Mark Wahlberg e Rachel Weisz) si unisce alla brama di vendetta verso il suo assassino, il placido e solitario Mr Harvey (Stanley Tucci).


In Creature del cielo Peter Jackson aveva già raccontato la storia di un atroce omicidio mescolando in modo eccellente realtà e fantasia senza mai perdere di vista gli aspetti più tragici e cruenti della vicenda. Accentuando fortemente il realismo della storia, Jackson otteneva l’effetto di rendere ancora più eccentrici, bizzarri e disturbanti gli inserti fantastici, appartenenti al mondo visionario delle due ragazzine matricide. In Amabili Resti conduce un’operazione differente: la storia è raccontata in voce fuori campo dalla protagonista morta, di conseguenza è il livello fantastico che predomina su quello realistico. Ciò che i critici americani non gli perdonano è di aver sorvolato sugli elementi violenti dell’omicidio ed aver ammorbidito una storia tanto terribile stemperandone i toni più cupi nella visione di un aldilà dalle generiche tinte pastello.


Una presa di posizione da parte della critica Usa abbastanza discutibile. Pur attenuando i dati più cruenti del racconto (Jackson sceglie intelligentemente di non mostrare il delitto), il film non risulta meno angoscioso e terrificante. Anzi, la prospettiva ultraterrena che Jackson impone sin dall’inizio agli spettatori è assolutamente convincente ed è portata avanti in modo suggestivo ed originale con risultati drammatici di notevole efficacia.
Il punto di vista principale (determinato dalla voce narrante) mette in atto un’identificazione quasi immediata tra la protagonista che, dal cielo, guarda i genitori e gli spettatori che guardano il film. Questa posizione non solo accentua la dimensione onirica dell’esperienza spettatoriale ma fa in modo che gli spettatori partecipino emotivamente al “viaggio” di Susie come se fossero intrappolati anche loro in questo mondo inbetween, sorta di terra di mezzo o dimensione parallela dove stazionano le anime prima di raggiungere il paradiso. E cos’è questo inbetween se non la dimensione altra creata dal mezzo filmico?


In questo parallelismo c’è l’aspetto più originale ed interessante di Amabili Resti. Nel dare forma a questa dimensione onirica, Jackson è molto abile nel suggerire ed evocare determinate sensazioni ed emozioni che richiamano la sfera percettiva del sogno. E questo luogo, sospeso fra cielo e terra, è assolutamente credibile soprattutto perché è costruito partendo dall'immaginario specifico, personale e "limitato" di Susie, teenager con tutto un bagaglio di sogni, visioni e desideri legati alla sua esperienza e alla sua età. L'aldilà che ne risulta, quindi, è sì celestiale, etereo e per certi versi ingenuo, ma ha anche un lato oscuro, perturbante e lugubre. in una parola favolistico. Come Avatar, Amabili Resti è un'esperienza che chiede di essere vissuta: Jackson conferma una grande capacità immaginifica nel dar corpo a sogni/incubi dalle implicazioni tutt'altro che pastello, ricorrendo ad un uso accorto e visivamente stupefacente degli effetti speciali.


Da un punto di vista narrativo non era certo facile tenere le fila di un materiale che fonde family drama, ghost story e thriller, ma la scommessa può dirsi riuscita nonostante il sentimentalismo eccessivo di alcuni momenti (soprattutto il finale) e qualche lungaggine di troppo. Dalla trilogia tolkeniana a King Kong, Jackson non è mai stato un narratore asciutto, ma Amabili Resti rischia di soffrire di questa prolissità molto più dei film precedenti.

Il principale difetto è un altro e riguarda il “pesante” approccio registico: Jackson impone la sua presenza in ogni inquadratura con continui movimenti di macchina, dilatazioni temporali o frammentazioni narrative non sempre necessarie e il film ne risulta appesantito, sovra-montato e sovra-diretto.


Nondimeno, il regista neozelandese è abile nel mantenere altissimo il livello di tensione e nel garantire una commozione che risuona autentica. Qualche dubbio sullo scioglimento finale che non appaga pienamente le aspettative e lascia un senso di amaro in bocca difficile da digerire, ma Amabili Resti rimane opera rispettabilissima, potente e ipnotica.
Difficile dimenticare il Mr Harvey di Stanley Tucci, mellifluo, magnetico ed inquietante. Nel ruolo della fulminatissima nonna Lynn Susan Sarandon ha il compito di portare il sorriso in una manciata di scene e ci riesce così bene che ne vorresti di più. Ma il film non sarebbe possibile senza Saoirse Ronan che rende credibili tutti i palpiti e i sogni infranti di Susie, ed àncora stupendamente la dimensione emotiva del racconto. Catturata dalla macchina da presa, la magia del suo volto e dei suoi occhi vale più di ogni effetto visivo.
Voto: 7

Ghiotte pillole dal Sundance


Ricchissimo il carnet di titoli presentati in questi giorni al Sundance Film Festival. Focus Features ha già acquistato i diritti per la distribuzione di The Kids Are All Right di Lisa Cholodenko, comedy-drama-gay-manifesto con Annette Bening e Julianne Moore, magnifica (e a quanto pare credibilissima) coppia lesbo che ha cresciuto due ragazzi nati tramite inseminazione artificiale, e uno splendico Mark Ruffalo nel ruolo del padre-donatore del seme. Accoglienza entusiastica: script leggero, brillante, sincero ed intelligente, grandi performance e ottime prospettive di successo. E magari di candidature all'Oscar il prossimo anno per i tre protagonisti.


Occhi puntati sul dramma romantico Blue Valentine: Derek Cianfrance registra discese e risalite amorose fra Ryan Gosling e Michelle Williams, acclamattissimi e mai così casual e sexy.


Get Low di Aaron Schneider, storia di un patriarca nel Tennessee post-depressione interpretato da Robert Duvall, Sissy Spacek e Bill Murray, era già pronto nel 2009, ma l'uscita era stata rinviata. Le proiezioni al Sundance confermano quanto già si diceva negli scorsi mesi: aspettiamoci un monumentale Duvall.


Il biopic inglese sull'infanzia di John Lennon, Nowhere Boy, diretto da Sam Taylor Wood, continua a convincere dopo gli ottimi risultati in patria (ha ricevuto le candidature ai BAFTA per Kristin Scott-Thomas e Anne Marie Duff).


Si fa un gran parlare anche del debutto alla regia della visionaria video-maker Flora Sigismondi: The Runaways, con Kirsten Stewart e Dakota Fanning, storia di una girl-band americana anni '70, potrebbe essere uno degli hit della prossima primavera. Una delle sorprese del festival è sicuramente il thriller-horror spagnolo Buried, diretto da Rodrigo Cortes ed interpretato dal lanciatissimo Ryan Reynolds: tutto girato in una tomba in cui il povero Ryan si ritrova seppellitto ad inizio pellicola. Lebanon docet, con tutti i dovuti distinguo.


Sofisticato e complesso appare già Howl, di Rob Epstein e Jeffrey Friedman, che ripercorre la storia del processo per oscenità contro Allen Ginsberg e il suo poema omonimo. Protagonista il mozzafiato James Franco di Milk, assieme a Marie-Louise Parker, John Hamm e Jeff Daniels.


Contrastanti invece le prime risposte a The Killer Inside Me, adattamento di un romanzo di Jim Thompson diretto da Michael Winterbottom al suo primo film americano e con un cast all star: Casey Affleck, Kate Hudson e Jessica Alba. Ultraviolento, gratuito e pericoloso, ma la confezione visiva sembra lussuosa e affascinante.


Dopo il bellissimo Le cose che so di lei e l'interessante Nine Lives, Rodrigo Garcia, cineasta legato all'universo e alle storie femminili, dirige Annette Bening e Naomi Watts nel dramma Mother & Child. Interprete a teatro di un recente adattamento della Medea di Euripide, si prospetta un grande anno per la Bening. Tra gli altri film, oltre a Io sono l'amore di cui ho già parlato in un post precedente, si segnala l'interessante esordio alla regia di Philip Seymour Hoffmann con Jack Goes Boating. Postilla: vedremo mai Synecdoche, New York?

Quale tutti questi titoli riuscirà a bissare il successo di film come Little Miss Sunshine, Precious e (500) giorni insieme, tutti provenienti dalle fila del Sundance?

venerdì 29 gennaio 2010

Tennessee Williams e i percorsi del desiderio negato


Grande drammaturgo statunitense della metà del secolo scorso, Tennessee Williams è stato uno dei primi autori a sdoganare in teatro la tematica omosessuale. Ambientate nel sud degli Stati Uniti all’epoca della grande depressione, le sue opere raccontano storie di innocenze perdute, sogni infranti, destini di follia e morte, tragiche parabole di decadenza e corruzione, favole tristi di ragazzi e ragazze dalle vite interrotte per colpa di fagocitanti genitori-virago (siano essi madri o padri). Ma soprattutto il suo teatro racconta i tortuosi percorsi di un desiderio affettivo e sessuale che, negato da se stessi e dalla società, resta inespresso, ma è sempre lì, che preme dal fondo per emergere. Omosessuale egli stesso, eccentrico, sensibilissimo e tormentato, incapace di accettare fino in fondo il suo orientamento, Williams “nascondeva” ed esprimeva se stesso nei suoi personaggi. Un corpus teatrale dalla forza e dal coraggio devastanti, dallo stile elegiaco ma anche violentemente realistico, spesso accusato di ridondanza ma profondamente radicato nello spirito della sua epoca, di cui ne rifletteva pienamente la cultura omofoba e repressiva.


Cinema e censura
Dalle sue opere teatrali sono stati tratti alcuni fra i film più celebri della Hollywood anni '50 e '60. Imperdibili occasioni per i grandi attori americani (Elizabeth Taylor, Paul Newman, Marlon Brando, Katharine Hepburn, Nathalie Wood, Geraldine Page, Richard Burton solo per citarne alcuni) di misurarsi con i personaggi dell'universo williamsiano, psicologicamente complessi e stratificati, questi film furono spesso oggetto da parte della censura di modifiche e tagli rispetto alle versioni teatrali. I riferimenti all'omosessualità dei personaggi dovevano essere eliminati, così come la violenza di alcuni passaggi doveva essere ammorbidita nelle implicazioni più crude. In questa operazione di alleggerimento e sfrondamento del testo dagli elementi più controversi, anziché perdere spessore, i film aquistavano spesso fascino e una sottile, perversa ambiguità. Altre volte i sottotesti risultavano fin troppo semplificati e banalizzati; eppure, messi a confronto con le piéce originali e alla luce della loro storia produttiva, questi film sono oggi una limpida espressione della difficoltà quando non della impossibilità per il desiderio (in qualunque forma, luogo, epoca) di trovare una via d’uscita, quando è schiacciato e messo a tacere da ogni direzione.


Il magazine online http://www.loudvision.it/ inizia da questa settimana a pubblicare la mia retrospettiva sul cinema di Tennessee Williams: da Un tram che si chiama desiderio a La gatta sul tetto che scotta, passando per Improvvisamente l’estate scorsa fino a Questa ragazza è di tutti. Di seguito trovate il link del primo articolo:
Buona lettura.

giovedì 28 gennaio 2010

Rimandata l'uscita di Bright Star


Misteri della distribuzione italiana. L'uscita di Bright Star, prevista per il 5 febbraio, è stata rinviata a data da destinarsi. La 01 aveva probabilmente pianificato una distribuzione a cavallo delle nominations agli Oscar, ed in effetti all'inizio dell'autunno si era fatto un gran parlare del film di Jane Campion come probabile concorrente in varie categorie. Poi, per chissà quale congiuntura astrale sfavorevole, il film è sparito da qualsiasi previsione e le associazioni dei critici, Golden Globes, SAG e BAFTA si sono trovati unanimente concordi non solo nel snobbarlo ma quasi nel pretendere che non esista affatto. Uscire lo stesso week end di An Education, che invece porterà sicuramente a casa qualche candidatura, non era comunque una scelta saggia, dato che entrambi i film si rivolgono allo stesso pubblico. Non resta che augurarsi di non dovere attendere troppo per godere dell'ultimo lavoro della grande autrice neozelandese.

martedì 26 gennaio 2010

Tilda e l'Italia al Sundance


Luca Guadagnino sbarca in America. Il suo film Io sono l'amore (I Am Love), dopo la premiere alla Mostra del Cinema di Venezia nelle sezione Orizzonti lo scorso settembre, è stato presentato al Sundance il 22 gennaio. Storia di una famiglia dell'alta borghesia milanese, il film è stato accolto molto favorevolmente dalla critica americana soprattutto per l'eleganza dello stile visivo, le atmosfere da melo' raffreddato e l'affascinante prova di Tilda Swinton.


Più tiepida l'accoglienza a Venezia, dove era stato sollevato un ingombrante paragone con Visconti e il suo Gruppo di famiglia in un interno e il formalismo di Guadagnino era stato accusato di presunzione e freddezza. In America sarà distribuito nei circuiti d'essai, in Italia dal 19 marzo. Nel cast anche Pippo Delbono, Edoardo Gabbriellini, Alba Rohrwacher e Marisa Berenson. Per i fan di Tilda Swinton, ancora orfani della visione di Julia, un film da non perdere.

A look at Emily Blunt


Ne Il diavolo veste Prada rubava la scena non solo ad Anne Hathaway ma addirittura a Meryl Streep. La sua Emily Chalton, assistente del boss terrorizzata, invidiosa e sempre ad un passo dal peso-forma ideale, era un piccolo capolavoro di smagliante comicità. Ma Emily Blunt aveva già dimostrato un notevole carisma e una misteriosa sensualità nel film del debutto, l'indipendente My Summer of Love (2004).


La sua interpretazione in The Young Victoria (2009), ricostruzione romanzata degli anni giovanili della Regina Vittoria, le è valsa la candidatura ai Golden Globes come miglior attrice drammatica e potrebbe anche portarle una nomination ai prossimi Oscar. In attesa che il film sia distribuito anche in Italia, la prossima occasione per vedere la Blunt sui nostri schermi è nientemeno che in una super-produzione hollywoodiana, The Wolfman, con Benicio del Toro e Anthony Hopkins.

Diretto da Joe Johnston ed in uscita il 19 febbraio, il film promette atmosfere dark, romance, grand-guignol ed effetti speciali mozzafiato. Nel ruolo dell'intrepida eroina Gwen Conliffe, la Blunt potrebbe rivelarsi la sorpresa del film, con la sua intensità e quello sguardo liquido e magnetico, sospeso su abissi sconosciuti e dolori remoti.

lunedì 25 gennaio 2010

Marie Antoinette alla corte dei balocchi


E' quasi un film muto l'opera terza di Sofia Coppola ispirata alla biografia su Maria Antonietta scritta da Antonia Fraser. I dialoghi sono quasi esclusivamente ridotti in forma di vacuo, sterile, costante chiacchiericcio di sottofondo che serpeggia lungo le pareti affrescate di Versailles. Ma la componente sonora non potrebbe essere meglio servita dalla "duplicità" dell'accompagnamento musicale, genialmente in bilico tra passato e presente.

Alternando senza soluzione di continuità musica classica e rock contemporaneo a commento delle immagini e delle emozioni della protagonista, Sofia Coppola suggerisce il divario insanabile tra esterno ed interno, fra le imposizioni sociali da una parte e le aspirazioni intime dall'altra. Ed è questo contrasto tra la freschezza dell'età e le schiaccianti responsabilità di un ruolo che la delfina di Francia è chiamata troppo presto a ricoprire che costituisce il cuore sanguinante di Marie Antoinette. La musica dell'epoca fa da contrappunto alle costrizioni di un cerimoniale pubblico spesso ridicolo e soffocante, mentre il rock-pop diventa la voce della regina nei suoi momenti privati, espressione del suo desiderio di ribellione e della sua ricerca di libertà.


Le scelte musicali imprimono al racconto una modernità travolgente. Ma è anche lo sguardo registico ad essere moderno, nel senso di fresco, originale e innocente. Proprio come lo sguardo puro di Maria Antonietta che, rinchiusa in una scatola troppo bella e troppo grande, vede spezzarsi per sempre la sua fanciullezza. La limpidezza delle immagini non deriva solo dallo splendore dell'apparato scenografico e dalla magnificenza dei costumi ma dalla nitidezza dello sguardo "virginale" di Sofia Coppola, che si fa tutt'uno con quello di Maria Antonietta, assumendone completamente la prospettiva. La prospettiva di una bambina cui vengono dati balocchi e gioielli ma a cui al tempo stesso viene richiesto di soddisfare aspettative immense; una "spia austriaca", come veniva apostrofata, in un mondo di parrucconi corrotti e crudeli, addobbati a maschere orrende che scrutano e criticano ogni sua mossa; una giovane donna costretta ad un matrimonio di stato e destinata ad annegare nel gioco d'azzardo e nel vizio l'infelicità di un'unione con un uomo ancora più immaturo di lei.


Ha occhio Sofia Coppola nel comporre le sue inquadrature di dolente desolazione in mezzo alla grandezza e allo sfarzo più sfrenati. Maria Antonietta è spesso inquadrata da sola in spazi (interni o esterni) enormi e vuoti: catturata la sua figura al centro del campo visivo, la macchina da presa si allontana lentamente accentuando il senso di spaesamento della protagonista che appare sempre più piccola e sola, schiacciata dall'architettura e oppressa dalla fitta trama dei damaschi.

Bellissima la sequenza bucolica al Trianon: sospesa nella natura e dedita ai piaceri della vita contadina, la regina sembra ritrovare una dimensione autentica e recuperare l'innocenza irrimediabilmente persa a corte. E in profondo contatto con se stessa scopre l'amore e la passione fra le braccia del conte Fersen.


La Coppola registra il tempo che passa e l'avvicinarsi dell'inesorabile declino riproponendo l'inquadratura fissa (e muta) di Maria Antonietta e Luigi XVI seduti alla stessa tavola, fantocci prigionieri di loro stessi e di una stoica e stolta idea di sovranità. All'esterno avanza la folla in rivolta come un brusio indistinto di voci. La separazione tra nobiltà e popolo è totale, e tardivo risulta qualsiasi tentativo di cercare l'approvazione della folla urlante (come nella scena in cui la regina si inchina davanti al suo popolo: un momento di grandissimo cinema).

Il racconto procede per ellissi agghiaccianti e scorre rapidamente verso il suo epilogo, un'inquadratura fissa della stanza da letto dei sovrani saccheggiata dopo il passaggio della folla. L'accelerarsi dei tempi narrativi suggerisce quanto veloce ed inattesa fu la caduta di Versailles vissuta dall'interno, tanto avulsa dalla realtà era diventata la vita di corte.

Perfetta incarnazione della visione dell'autrice, Kirsten Dunst è una Maria Antonietta stupenda, cristallizzata in un'eterna, perduta giovinezza.

Voto: 9

Box office: Avatar supera "Il Cavaliere Oscuro"


Superati i 533 milioni di dollari de Il Cavaliere Oscuro e sempre in cima al box office americano al quinto week end di programmazione, Avatar è ormai a tutti gli effetti il secondo film di maggior incasso della storia. Dovrebbero bastare una decina di giorni per passare dagli attuali 552 milioni a 600, e superare il record di Titanic. Questi dati non tengono conto dell'inflazione e dell'effettivo numero di biglietti strappati: l'incasso americano di Titanic oggi equivarrebbe a 950 milioni. Tuttavia, continuando di questo passo, Avatar potrebbe terminare la propria cavalcata oltre la vetta degli 800 milioni. Senza precedenti anche il successo a livello mondiale: il film viaggia su 1,836 miliardi di dollari e si appresta a superare il precedente film di Cameron nel giro delle prossime ore.

La posizione a metà classifica di Amabili Resti conferma il mezzo flop dell'ultimo lavoro di Peter Jackson, mentre Sherlock Holmes e Alvin 2 stanno per uscire dalla top ten con un bottino di 200 milioni. Ottimo anche il risultato della commedia E' complicato con Meryl Streep, arrivata quasi a quota 100 milioni.

In Italia Avatar sta polverizzando ogni record e si avvia a superare L'era glaciale 3 al primo posto nella classifica stagionale con 30 milioni d'incasso. Se i film di Verdone (14 milioni) e Virzì (3 milioni) reggono bene, Tra le nuvole ottiene il secondo posto della settimana con un discreto totale di 1.4 milioni, mentre nemmeno il pubblico italiano si è lasciato abbagliare dal luccichio di star di Nine (5 posto, con appena 500mila euro).

domenica 24 gennaio 2010

L'autunno della bellezza: Michelle Pfeiffer in Chéri


E' uscito finalmente in dvd il sottovalutato Chéri, ultimo film di Stephen Frears sceneggiato da Christopher Hampton dal romanzo breve di Colette. Sagace e conciso schizzo della Belle Epoque, l'opera di Colette trova nel team de Le Relazioni Pericolose i talenti adatti a trasferire sullo schermo la perfida ironia della scrittrice francese e a suggerire dietro merletti e crinoline una serpeggiante ed incontenibile malinconia.

Nella Parigi dei primi del '900, Lea de Lonval (Michelle Pfeiffer) è una ricca ed ancora bellissima cortigiana d'alto bordo giunta alla fine della sua gloriosa carriera. La vecchia rivale ed ora amica Madame Peloux (Kathy Bates, petulante e infida) le chiede di occuparsi dell'educazione sentimentale e sessuale del figlio Chéri (Rupert Friend, angelico e irridente), fulgido giovane dalla condotta debosciata e senza freni. Le lezioni d'amore sfociano in una relazione che dura sei anni, fino a quando Madame Peloux non pianifica il matrimonio di Chéri con la giovane Edmée. Costretti a separarsi, Lea e Chéri si scoprono innamorati. Ma è troppo tardi per un futuro di autentica felicità.

Chéri è un film-miniatura (poco più di 80 minuti di durata) in cui la trama scorre rapida e stringata, senza alcuna divagazione, come un racconto popolare d'appendice; una miniatura fitta di dettagli ambientali e psicologici, un piccolo, splendido cameo in cui personaggi e azioni sono congelati in una commedia delle maniere imposta dai ruoli, dalle convenzioni sociali e dal Tempo che passa inesorabile; un teatrino dei sentimenti che nega l'amore rincorrendo il piacere e l'effimera felicità del denaro, ma che verrà spazzato via dalla ferocia della prima guerra mondiale (cui la voce fuori campo accenna seccamente nel gelido finale). Frears sceglie il registro leggero della commedia ed impone al materiale narrativo l'andamento brioso, apparentemente frivolo ed effervescente, di un'operetta. Ma sotto la superficie pulsa l'anima del melo' e del valzer autunnale.

A sottolineare le aperture sentimentali al melodramma interviene la colonna sonora di Alexandre Desplat, autentico gioiello che rievoca magistralmente l'atmosfera dell'epoca ed accompagna gli spettatori nel cuore di questi personaggi che si seducono l'un l'altro ma non sanno (come) essere felici e si amano ma non riescono a dirselo. Ma ancor più della musica e delle aperture paesaggistiche (dal palazzo in stile liberty di Lea e dalla serra lussureggiante di Madame Peloux, si passa ad una corsa in auto lungo un viale alberato, o all'ariosa vista sul mare dalla terrazza dell'Hotel a Biarritz) è il montaggio a dare dinamismo alla storia, mentre la finissima regia di Frears con precisi movimenti di macchina svela l'interiorità dei personaggi al di là delle maschere sociali.

Nella scena della seduzione iniziale, Chéri, lascivamente appoggiato alla vetrata del giardino, chiama a sé Lea: la macchina da presa si muove sinuosamente accompagnando il movimento di Lea che, apparentemente in controllo del proprio potere ma già sedotta dal fascino dell'impetuosa giovinezza di Chéri, gli si avvicina e lo bacia. E una lacrima bagna il volto limpido del giovane amante a sigillare un'unione che non sarà solo contrattuale, ma sincera e dolorosa per entrambi.

La macchina da presa insegue, rincorre, inquadra Lea in piena adorazione della sua figura e della sua dignità, ma soprattutto scruta nel privato della sua stanza ed indaga sul suo volto alla ricerca dei momenti in cui il controllo delle emozioni nei duelli verbali cede il passo alla verità interiore: ed ecco che la maschera cade e lo sguardo di Frears coglie per un istante sul volto di Lea il turbamento, la delusione, il dolore, l'abbandono, la malinconia per l'Età che inesorabilmente la separa da Chéri. Sublime la scena in cui annusa una rosa ed un istante dopo i petali si sfaldano fra le sue mani, simbolo di una bellezza che sta svanendo.

Tragica elegia sull'autunno dei sentimenti e della bellezza, Chéri è anche un film su Michelle Pfeiffer, colta in pose da dea dello schermo come solo la Garbo un secolo fa. La Pfeiffer, radiosa, non deve far nulla per essere credibile, tanto perfetta è l'adesione tra attrice e ruolo: lei è Lea de Lonval, Lea è Madame Olenska quindici anni dopo la partenza da New York. Chéri ci ricorda in ogni scena quanto sensibile e delicata sia la recitazione della Pfeiffer, capace di esprimere emozioni senza esibirle, e quanto cieco sia il cinema americano ad essersi (quasi) dimenticato di lei. Crudele ed asciutto come nel finale di Le relazioni pericolose e Rischiose abitudini, Frears chiude il suo vacuo, decadente balletto con un epilogo fulmineo che trafigge come una lama: un impietoso primo piano su Lea/Michelle che registra tutte le imperfezioni del volto e i segni del Tempo. Se fosse l'ultimo film della Pfeiffer sarebbe una splendida uscita di scena. Ma ci auguriamo tutti che non lo sia.
Voto: 8

SAG Awards per Bullock, Bridges e i "Bastardi"


Ohi ohi, qui c'è da tremare. Sandra Bullock ha battuto Meryl Streep agli Screen Actors Guild Awards ieri sera, collezionando un'altra incredibile vittoria che l'avvicina sempre più all'Oscar. Non ho nulla contro la Bullock, intendiamoci, e se The Blind Side non avesse incassato così tanto in America non avrei (così tanti) pregiudizi sull'effettiva qualità della sua performance. Ma che il dio denaro getti la sua ombra in maniera così spudorata ed evidente sui riconoscimenti artistici proprio non mi va giù. Esattamente come è avvenuto ai Golden Globes. E questo inizia ad essere preoccupante. Quanto all'immenso Jeff Bridges, proclamato miglior attore per Crazy Heart, ritengo che meriti la giusta consacrazione ma è chiaro che si tratta di un riconoscimento alla carriera, un meccanismo che si è sempre verificato (in un certo senso anche l'anno scorso per Kate Winslet in The Reader) e che continuerà a verificarsi in base al feeling del "momento" (mix astrale di sentimento verso la star, pubblicità e popolarità).


E quest'anno è il "momento" di celebrare Jeff Bridges. E, a quanto pare, il momento di Sandra Bullock, la cui vittoria farebbe contenta tutta l'America (ha anche vinto il People Choice Award), se parliamo in termini di box office, potere economico e vendibilità dell'immagine (sono anni che non vince una star tanto forte al botteghino, le ultime furono Reese Witherspoon per Walk The Line nel 2005 e prima di lei Julia Roberts per Erin Brockovic nel 2000). Quando sarà il momento per il terzo Oscar di Meryl Streep nessuno può dirlo, ma non tutto è ancora perduto (anche Meryl è diventata una garanzia commerciale: E' complicato ha già superato i 90 milioni di dollari). Naturalmente anche per lei sarebbe un riconoscimento alla carriera piuttosto che al suo comunque pregevole lavoro in Julie & Julia. Ma questo è il gioco. Speriamo solo che gli Oscar non diventino come i Grammy, in cui trionfano sempre e solo le corazzate da primi posti in classifica. Continuando così non mi stupirei di vedere premiati gli attori da copertina di Twilight. O di Transformers 2.
Attori non protagonisti Mo'nique per Precious e Christoph Waltz per Bastardi senza gloria. Al film di Quentin Tarantino è andato anche il premio per il miglior cast.

sabato 23 gennaio 2010

Rising stars: Carey, Abbie, Saoirse e Gaby


Per Carey Mulligan e Gabourey Sidibe si è iniziato a parlare di nomination all'Oscar sin da quando i loro rispettivi film, il raffinato An Education e il crudo dramma afroamericano Precious furono presentati al Sundance l'anno scorso. Da allora nessuno ha schiodato i loro nomi dalle previsioni della cinquina di miglior attrice dell'anno. Anche se Meryl Streep e Sandra Bullock stanno facendo piazza pulita dei premi più importanti (ma non di tutti i riconoscimenti delle associazioni dei critici) per la performance della Mulligan si è parlato di un autentico star-making turn e i BAFTA, per i quali è stata recentemente nominata, potrebbero coronarla finalmente migliore attrice dell'anno.


Il successo di An Education ha in qualche modo oscurato la campagna promozionale per gli Oscar di un altro film d'ispirazione letteraria, Bright Star di Jane Campion, romantica rievocazione dell'amore tra il poeta John Keats e la sua musa Fanny Brawne. Il film si avvale di quella che Variety ha definito la sublime interpretazione di Abbie Cornish: Jane Campion, autrice dallo sguardo sempre poetico ed insolito, intrinsecamente "altro" e femminile, è sempre stata magistrale nel dirigere le attrici, da Holly Hunter in Lezioni di piano a Nicole Kidman in Ritratto di signora, passando per Holy Smoke, con una magnetica Kate Winslet, e il sottovalutatissimo In The Cut, oscura ricognizione sulle ferite femminili con una Meg Ryan mai così intensa ed erotica.
Entrambi i film, An Education e Bright Star, escono il 5 febbraio e potremo finalmente lasciarci abbagliare dalla freschezza di queste due star emergenti (oltre ad analizzarne le performance).


Per Amabili resti bisognerà invece attendere il 12 febbraio: nonostante sia stato affossato dalla critica, il film di Peter Jackson è finalmente uscito in America in un maggiore numero di sale, dopo la limitata distribuzione a dicembre per concorrere agli Oscar, e non sta andando poi così male. Anche i critici più scettici sono concordi nel definire la presenza magica di Saoirse Ronan (anche per lei una nomination ai BAFTA come migliore attrice) la cosa più riuscita del film. Se c'è qualcosa che ho adorato in Espiazione era proprio il volto, l'intensità e l'asciuttezza di Saoirse. E nel ruolo di Susie Salmon sembra assolutamente perfetta.


Quanto a Gabourey Sidibe, detta Gaby, non sappiamo ancora quando Precious sarà distribuito in Italia; certo è che dal Sundance a Toronto il film di Lee Daniels ha raccolto un'infinità di premi e tutti danno per sicuro l'Oscar a Mo'nique come miglior attrice non protagonista. Gaby strapperà una candidatura, ma speriamo che la sua carriera non si fermi qui. Per le attrici oversize è già un'impresa titanica raggiungerà la notorietà: ancora più difficile continuare ad avere le opportunità per mantenerla. Chiedere a Nikki Blonski di Hairspray.

Julianne e Amanda in Chloe


Accolto tiepidamente allo scorso Festival di Toronto, esce a marzo negli Usa il thriller Chloe del regista canadese Atom Egoyan, maestro delle atmosfere ipnotiche e sospese (Exotica, Il dolce domani, Il viaggio di Felicia). Remake del francese Nathalie (2003) con Fanny Ardant, Emmanuelle Béart e Gerard Depardieu, Chloe è un dramma borghese interpretato da Julianne Moore, Liam Neeson e Amanda Seyfried nel ruolo della bellissima escort che, assunta dalla Moore per spiare il marito in privato, si insinua nella vita dei due distanti, freddi ed infelici coniugi. Erotismo raffinato, ambiguità psicologica e un plot che, a quanto sembra, scivola pericolosamente in un territorio da Attrazione Fatale. Corrono voci di una scena lesbo-bollente tra la Seyfried e la Moore, divinamente votata ai ruoli con implicazioni omosex (nel prossimo The Kids are alright, che sarà presentato il 25 gennaio al Sundance, Julianne fa coppia fissa con Annette Bening, madri di due bambini avuti tramite inseminazione artificiale). Non vedo l'ora di annegare nel livello di complessità psicologica che la Moore ha impresso al suo personaggio in Chloe. Julianne, sempre più sofisticata icona gay.

venerdì 22 gennaio 2010

Al via Damages terza stagione




Riparte lunedì 25 gennaio la sensazionale serie drammatica Damages, per la gioia (e il cervello e il sistema nervoso costantemente messo a dura prova) dei fan americani. Giunta alla terza stagione, nonostante il calo degli ascolti della seconda (ma il favore della critica resta incondizionato) Damages è un legal thriller di raffinatissima fattura che poggia su una costruzione temporale pazzesca. La sceneggiatura a puzzle spezza la linearità narrativa in un continuo andirivieni tra flashback e flashforward, centellinando rivelazioni e colpi di scena con una precisione matematica e tenendo letteralmente incollati alla poltrona i telespettatori. Riconfermato il cast principale, l'elettrizzante, incomparabile Glenn Close assieme a Rose Byrne e Tate Donovan, ed assolutamente succulenti i nomi delle guest star: Lili Tomlin, Campbell Scott e Martin Short.


Dopo essere letteralmente impazzito per la prima serie che, da troglodita delle magie del web quale ero fino all'estate scorsa, ho seguito in chiaro su canale5 (nonostante una collocazione a notte fonda assolutamente ridicola), sto recuperando tutti i 13 episodi della seconda stagione, già trasmessa da AXN. Assieme a Ted Danson e Anastasia Griffith, fra gli interpreti della prima stagione, due grandissimi attori americani entrano a far parte del cast, garantendo un inimmaginabile livello di ambiguità: William Hurt, magnificamente infido nel ruolo chiave di Daniel Purcell e la formidabile Marcia Gay Harden in quello dell'avvocatessa Claire Maddox. Sono ancora alla puntata numero 6, i nodi irrisolti della prima stagione stanno lentamente venendo al pettine (Patti Hewes ha davvero cercato dif ar uccidere Ellen? Chi ha assassinato David?) ma vanno pericolosamente ad intrecciarsi con i nuovi intrighi orditi dai perfidi, geniali sceneggiatori. Riuscirà Ellen a vendicare la morte del fidanzato David e ad incastrare Patty? Credetemi, la serie mozza il fiato.


Su tutto e tutti sovrasta, predomina, incombe Glenn Close, vincitrice di due Emmy e un Golden Globe per il ruolo di Patty Hewes. Da Alex Forrest (Attrazione fatale) alla Marchesa de Merteuil (Le relazioni pericolose), da Norma Desmond (il musical Sunset Boulevard) a Cruella de Vil (La carica dei 101), da Camille Dixon (La fortuna di Cookie) a Damages: una galleria di personaggi memorabili, donne perfide e potenti (ma anche sole, disperate e miserabili) che le hanno garantito il titolo di unica, degna erede di Bette Davis.


Nella dimensione del foro, in cui tutto è lecito e tutti tradiscono tutti per ottenere ciò che vogliono, il carisma ferale di Glenn Close trova una nuova perfetta possibilità di espressione. Con quello sguardo obliquo, quel sorriso spesso gelido, quell'energia che emana anche quando è immobile, Glenn Close è una belva in un ring che circuisce la sua preda ed aspetta il momento giusto per azzannarla. Il fatto che l'attacco e l'esplosione tanto attesa siano costantemente rinviati non fa che aumentare la tensione emotiva. Sfibrati ed elettrizzati, gli spettatori di Damages restano lì, con gli occhi sbarrati e un'insaziabile fame di nuovi episodi.

Nominations BAFTA awards


Ci siamo quasi: il 2 febbraio sapremo chi sarà nominato agli Oscar quest'anno. Il 23 gennaio saranno proclamati i vincitori dei SAG, gli Screen Actors Guild Award, mentre ieri sono state rese note le nominations ai BAFTA, i premi della British Academy of Film and Television Arts. Tutto come da copione, con Avatar e The Hurt Locker (da noi uscito nel 2008: mi propongo di recuperarlo al più presto in dvd) che la fanno da padroni, assieme all'inglesissimo An Education (in Italia dal 5 febbraio), storia dell'educazione sentimentale della giovane Jenny nella swinging London degli anni '60, scritto dal Nick Hornby di About a boy.

Come già per i Golden Globes e i SAG, completamente snobbato Bright Star di Jane Campion (uno dei film meglio recensiti dell'anno... non vedo l'ora che arrivi il 5 febbraio). Niente male anche per la commedia Tra le nuvole (nei cinema da oggi): solo Jason Reitman non riesce a strappare la candidatura per la regia, mentre Bastardi senza gloria non riesce ad entrare nella cinquina del miglior film.
Queste le candidature principali:

Miglior film
Avatar / An Education / The Hurt Locker / Precious / Tra le nuvole

Miglior regia
James Cameron (Avatar) / Lone Scherfig (An Education) / Neill Blomkamp (District 9) / Kathryn Bigelow (The Hurt Locker) / Quentin Tarantino (Bastardi senza gloria)


Miglior film inglese
An Education / Fish Tank / In The Loop / Moon / Nowhere Boy

Sceneggiatura originale
Una notte da leoni / The Hurt Locker / Bastardi senza gloria / A Serious Man / Up

Sceneggiatura non originale
District 9 / An Education / In The Loop / Precious / Tra le nuvole

Film straniero
Gli abbracci spezzati / Coco Avant Chanel / Il nastro bianco / A Prophet /
Let The Right One In

Film d'animazione
Coraline / The Fantastic Mr Fox / Up

Miglior attore
Jeff Bridges (Crazy Heart) / George Clooney (Tra le nuvole) / Colin Firth (A Single Man) / Jeremy Renner (The Hurt Locker) / Andy Serkis (Sex & Drugs & Rock & Roll)

Miglior attrice
Carey Mulligan (An Education) / Saoirse Ronan (Amabili resti) / Gabourey Sidibe (Precious) / Meryl Streep (Julie & Julia) / Audrey Tatou (Coco Avant Chanel)

Miglior attore non protagonista
Alec Baldwin (E' complicato) / Christian McKay (Me And Orson Welles) / Alfred Molina (An Education) / Stanley Tucci (Amabili resti) / Christoph Waltz (Bastardi senza gloria)

Miglior attrice non protagonista
Anna Kendrick (Tra le nuvole) / Vera Farmiga (Tra le nuvole) / Mo'nique (Precious) / Anne-Marie Duff (Nowhere Boy) / Kristin Scott-Thomas (Nowhere Boy)

mercoledì 20 gennaio 2010

Il sapore della vita nel nuovo Virzì


Ha il sapore della vita vera il nuovo film di Paolo Virzì e la densità della grande commedia all'italiana, quella in cui tutti possiamo riconoscerci perché ci rappresenta e racconta un pezzo di noi, come eravamo e cosa siamo diventati. La vita vera, crudele e complicata, senza sconti per nessuno ma inguaribilmente bella, in cui risate e lacrime sono intrecciate in modo indissolubile e sorprendente, e che solo il buon cinema, quello onesto e sincero, magari imperfetto, ma appassionato, può restituire.

Nell'estate del 1971, sotto lo sguardo imbarazzato del figlio Bruno e quello gioviale della piccola Valeria, Anna viene proclamata "la mamma più bella", suscitando la gelosia del marito e l'inizio dei pettegolezzi e delle malignità del paese. Parte così La prima cosa bella, tragicommedia agrodolce e malinconica ricognizione su un passato avventuroso, sfociato in un presente grigio e sospeso. Bruno è diventato un professore di lettere a Milano, fa uso di droghe ed è immensamente infelice. La notizia della malattia terminale della madre lo costringe a tornare a Livorno e a fare i conti con il passato. I ricordi si affacciano vividi e tumultuosi: Anna è sempre stata una madre troppo bella, esuberante e moderna per non provarne vergogna o imbarazzo. Tutti gli uomini perdevano la testa per lei, tutte le donne sparlavano di lei, mentre lei attraversava le (terribili) vicissitudini della vita senza perdere il sorriso, il coraggio e l'innocenza. Sopravvissuta alla morte di un marito scontroso e ostile e alle dicerie di provincia, Anna non ha perso un briciolo di quella forza, di quel candore e di quella straordinaria vitalità. E giunta alla fine del suo viaggio, è forse tempo di mettere a posto le cose e riunire la famiglia, In fondo non è mai troppo tardi per concedersi ancora un po' di felicità.



La prima cosa bella è soprattutto un tuffo nell'infanzia alla ricerca delle radici del malessere incolmabile del protagonista (magnificamente interpretato da Valerio Mastandrea). Da queste acque torbide e malinconiche, Virzì riemerge con un affresco familiare umido e caldo, sentito e partecipe, luttuoso e riconciliante. Non tutto funziona alla perfezione come nel precedente Tutta la vita davanti (che probabilmente resta la sua opera migliore): lavorando su un materiale privato, Virzì eccede in toni nostalgici ed autoindulgenti e non sempre ha il distacco necessario per asciugare il racconto. Ma evita facili bozzettismi alla Baaria, non ha paura di scavare e ferire, e muove i suoi personaggi con un amore ed una compassione che farebbero sciogliere le pietre. Molto più compatta la parte contemporanea, che racchiude i momenti più emozionanti e divertenti. Anche per merito del cast e di una sceneggiatura acuta e sensibile, chiaramente modellata sugli attori.

Mastandrea àncora il film col suo finissimo ritratto di uomo inadeguato ai margini della sua stessa vita e Claudia Pandolfi (Valeria) non è mai stata così brava. Se Micaela Ramazzotti (Anna da giovane) è intensa ma gioca un po' troppo con lo stereotipo della svampita innocente vessata dalle avversità, Stefania Sandrelli semplicemente illumina lo schermo e riempie i cuori con una interpretazione fra le migliori della sua gloriosa carriera. Nel passaggio di testimone fra le due attrici sembra davvero di rivedere il bellissimo personaggio di Adriana nel film Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli. Virzì intreccia consapevolmente passato e presente dei personaggi e del cinema italiano, infarcendo la narrazione di rimandi cinefili (fra cui anche una citazione da Roma città aperta) e regalando alla Sandrelli una parte che non sarà (mai più) dimenticata.

Voto: 7+

Mulholland Drive miglior film del decennio


La Los Angeles Film Critics Association ha stilato la classifica dei migliori film del decennio appena concluso. Al primo posto l'enigmatico incubo di David Lynch, Mulholland Drive (che svetta anche in cima alla classifica dei Cahiers du Cinema), seguito da Il petroliere di Paul Thomas Anderson e da Eternal Sunshine of the Spotless Mind di Michel Gondry. Quarto l'immancabile Brokeback Mountain di Ang Lee, seguito al quinto posto da Non è un paese per vecchi dei Coen a pari merito con Zodiac di David Fincher. Gli altri posti sono occupati da Yi yi. E uno... e due!, 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni ex-aequo con la trilogia de Il Signore degli Anelli, La città incantata, United 93 ex-aequo con Y tu mama también. Fanalino di coda (si fa per dire) Sideways.
Una bella classifica, senza dubbio. Ma dove sono Moulin Rouge, In the mood for love e Lontano dal paradiso?