venerdì 30 ottobre 2009

Che fine ha fatto Renee Zellweger?


Come sono effimere le infatuazioni dell'industria hollywoodiana. Nemmeno un decennio fa Renee Zellweger è una delle ragazze più hot del pianeta. Da fidanzata di Tom Cruise in Jerry Mcguire (1996) a figlia di Meryl Streep in La voce dell'amore (One true thing, 1998), questa ragazzona texana arriva a rivelare il suo talento in Nurse Betty (2000), un mix molto particolare di solare naiveté, buffa goffaggine e rassicurante sensualità che raggiunge la sua espressione più compiuta, forse un po' ruffiana ma di sicuro appeal, in Bridget Jones's Diary (2001).

Il 2002 è l'anno della consacrazione, con la credibile interpretazione della fragile Claire nel dramma White Oleander e soprattutto con Chicago, trionfale musical in cui, neo Marylin Monroe, bamboleggia divinamente e vince su tutti (tranne che agli Oscar). L'anno successivo ritorna perfettamente consapevole dei propri mezzi in Down With Love (Abbasso l'amore) delizioso e sofisticato calco delle commedie anni '60, ma è con Cold Mountain nel ruolo della rustica Ruby che afferra finalmente l'Oscar andato l'anno prima alla rivale Zeta-Jones.
Dall'Oscar in poi, come spesso stranamente accade, l'interesse dell'industria, del pubblico e il favore dei critici si affievoliscono: l'autoironia e la goffaggine del personaggio-Zellweger vengono classificati come leziosi e di maniera, e la sua tecnica bollata come accumulo di smorfie e tic. Dopo Bridget Jones: The Edge of Reason (Che pasticcio Bridget Jones, 2004), film come Cinderella Man (2005), Miss Potter (2006) e Leatherheads (In amore niente regole, 2008) nulla aggiungono al suo bagaglio.

Il firmamento hollywoodiano è instabile e spietato. Le stelle vanno e vengono, e poche sono fatte per restare. Quest'anno Renee aveva due film per tornare alla ribalta, ma l'uscita di entrambi è stata rimandata al 2010: My One and Lonely, ambientato negli anni '50 e diretto da Richard Loncraine, e My Own Love Song di Olivier Dahan (regista de La Vie en Rose). Ma il vero colpaccio dovrebbe essere il terzo capitolo della saga Bridget Jones, ancora senza titolo. Per il momento Renee sembra voler riconquistare terreno sui magazine di moda, apparendo in splendida forma, glamorous e sexy come non mai.
Quale interpretazione di Renee pensate sia la migliore della sua carriera?

giovedì 29 ottobre 2009

Winona Forever


Chi non era innamorato di Winona Ryder agli inizi degli anni '90? Giovanissima musa di Tim Burton in Beetlejuice (1988) ed Edward Mani di Forbice (1990), studentessa ribelle nel geniale Heathers (Schegge di follia, 1989), castigata e timorosa figlia di Cher in Sirene (1990), dolente sposa del diavolo nel capolavoro di Coppola Bram Stoker's Dracula (1992), ambigua moglie perbene nella New York di fine Ottocento ne L'età dell'innocenza di Scorsese (1993), vitale e gioiosa Jo March in Piccole donne di Gilliam Armstrong (1994), spigliata videomaker nel cult della X generation Giovani, carini e disoccupati (1994), vendicativa e miserevole strega nella Salem de La seduzione del male (The crucible, 1996), umanissimo cyborg in Alien resurrection (1997): una galleria di personaggi bellissimi, resi tutti con grande sensibilità e magnetismo.

Dietro quel primo piano incantevole, dolce ed ombroso al tempo stesso, dietro quegli occhi limpidi e tristi, c'era un fondo di vulnerabilità e fragilità insondabile, un legame con l'oscuro e con il male interiore, una magia fatta di remissività e abbandono che solo Burton e Coppola avevano intuito. Ma in fondo anche Scorsese, regalandole la crudele doppiezza di May Welland, l'Oscar che la Ryder avrebbe dovuto vincere ma che andò ad Anna Paquin per Lezioni di piano. Winona Ryder aveva un talento naturale ed istintivo, non era una grande attrice ma il suo volto era fatto per il cinema, perché irradiava luce e contemporaneamente suggeriva segreti. La sua ultima interpretazione importante risale al 1999 con Ragazze interrotte, film di James Mangold che, già dal titolo, sembrava ironicamente preannunciare gli sviluppi della sua carriera. Winona interpretava il ruolo di Susanna Kaysen, una ragazza degli anni '60 con la sindrome da personalità borderline. Fortemente voluto dalla stessa Ryder, il film doveva essere la sua consacrazione e fu invece il trampolino di lancio per Angelina Jolie. Di lì a poco, Winona finì nel vortice mediatico di scandali e tristi avvenimenti privati che tutti sappiamo.

Ma Winona è una tosta: tutti l'avevavo data per sepolta e lei, come la fenice, rinasce dalle sue ceneri e tra il 2007 e il 2008 torna a lavorare come una matta in piccoli progetti e pellicole indipendenti. La grande occasione le viene offerta nel 2009 da Rebecca Miller che le affida una parte importante in The Private Lives of Pippa Lee. I critici inglesi elogiano la sua performance come brillante e sorprendente, e le copertine dei magazine di moda tornano a farsi impressionare dalla sua bellezza senza tempo e senza età.
Oggi Winona compie 38 anni, incredibile, e sembra ancora una splendida ragazzina. Nessuna Keira Knightley o Anne Hathaway potrà mai eguagliare il suo fascino. Auguri Winona!

mercoledì 28 ottobre 2009

Step by step

Loudvision, bellissimo sito di cinema e musica con cui inizio a collaborare da questa settimana, ha pubblicato la mia recensione del film Amore 14 di Federico Moccia. Andate a leggerla su www.loudvision.it!

Vincere a Chicago


Il capolavoro di Marco Bellocchio continua la sua marcia trionfale negli Stati Uniti. Dopo le calorose accoglienze ai festival di Telluride, Toronto e New York, Vincere ha trionfato al Chicago International Film Festival la scorsa settimana, portando a casa ben quattro premi: miglior regia, migliore attrice (una magnifica Giovanna Mezzogiorno), miglior attore (Filippo Timi) e miglior fotografia (Daniele Ciprì).

Appare sempre più sconsiderata e fuori fuoco la scelta di Baaria per concorrere agli Oscar nella categoria miglior film straniero. I selezionatori si staranno mangiando le mani. La conseguenza più immediata di tutto questo è che Vincere non ha (ancora) un distributore americano: non essenso pianificata alcuna distribuzione entro la fine dell'anno Giovanna Mezzogiorno (applauditissima anche a Cannes nonostante il premio per la migliore attrice sia andato a Charlotte Gainsbourg per Antichrist) non può essere eleggibile nella categoria miglior attrice.

Una categoria che quindi restringe il proprio ventaglio di eventuali nominations: scolpite nella pietra sono Meryl Streep (Julie & Julia), Helen Mirren (The Last Station) e Carey Mulligan (An Education). Per gli ultimi due posti disponibili gara aperta tra Gabourey Sidibe (Precious), Saoirse Ronan (The Lovely Bones) e Abbie Cornish (Bright Star).

Hilary Swank, protagonista di Amelia, film di Mira Nair sulla tragica vita dell'aviatrice americana Amelia Earhart, è fuori gioco: il film, stroncato dalla critica americana come inutile, noioso, convenzionale e retorico, ha fatto un vero e proprio buco nell'acqua. Ad oggi Amelia registra una percentuale di recensioni positive del 16%, un autentico disastro. Raramente avviene che i critici americani siano così velenosi per progetti sulla carta così importanti. Ammetto di provare un certo compiacimento.
La situazione potrebbe complicarsi se Marion Cotillard (Nine) e Vera Farmiga (Up in the Air) venissero sostenute dai rispettivi studios come lead actress e fatte gareggiare nella categoria miglior attrice pur ricoprendo ruoli di supporto rispetto al personaggio principale maschile.

Qualche sorpresa potrebbe venire anche da Penelope Cruz: la sua interpretazione in Nine è da molti (tra quei pochi fortunati che hanno già visto il musical di Rob Marshall) considerata la migliore del film. Essendo la categoria di miglior attrice non protagonista troppo affollata ed avendo già vinto lo scorso anno con il film di Woody Allen, la diva spagnola potrebbe essere adeguatamente tenuta in considerazione come attrice protagonista per Gli abbracci spezzati, anche se il film di Pedro Almodovar ha ricevuto un'accoglienza tiepida.

A fine novembre dovrebbe uscire in America The Private Lives of Pippa Lee (in Italia chissà quando): già distribuito nei cinema inglesi dallo scorso luglio, il film di Rebecca Miller ha conquistato la critica soprattutto per la performance intensa e luminosa di Robin Wright Penn. Chissà se i distributori pensano di approntare una campagna promozionale per gli Oscar oppure no. Essendo un piccolo prodotto indipendente (ed essendo comunque gli Oscar i premi dell'industria) c'è la possibilità di vedere il film della Miller in lizza (solo) per gli Independent Spirit Awards. Quanto alla favolosa Michelle Pfeiffer di Cheri, nessuna previsione sembra tenerne più conto, ma la candidatura ai Golden Globes nella categoria best actress in a comedy dovrebbe essere assicurata.
Quali attrici vorreste che entrassero nella cinquina finale?

martedì 27 ottobre 2009

Julie & Julia, antidepressivo Streep


C’era un tempo in cui il nome Meryl Streep era sinonimo di lacrime e singhiozzi, oltre che di eccellenza interpretativa, e quasi mai di sfracelli al box office. Nel 2006 Il diavolo veste Prada in qualche modo ha mutato la percezione del pubblico nei confronti della diva americana, restituendo un Streep in forma smagliante, completamente rinnovata, capace di riprendere un discorso con il pubblico mai veramente interrotto. E così il musical Mamma mia! ha sbancato in tutto il mondo soprattutto grazie alla incontenibile energia della star e un film complesso come Il dubbio è arrivato ad incassare in America più di 30 milioni di dollari. A sessanta anni Meryl Streep è diventata una garanzia di successo, Julie & Julia sta raggranellando in ogni dove ben più degli ultimi film di Nicole Kidman o Angelina Jolie. Al di là del valore del film in sé, bisogna ammettere che questa rinascita, dati i tempi in cui viviamo, ha del miracoloso.

In Julie & Julia, Meryl Streep interpreta Julia Child, autrice del best-seller “Mastering the Art of French Cooking” e celebre conduttrice televisiva di show culinari nell’America degli anni ’60. Il film segue la vita di Julia dagli anni parigini in cui iniziò ad interessarsi alla cucina francese fino alla pubblicazione del suo libro. Parallelamente il film racconta la vita di Julie Powell (Amy Adams), scrittrice frustrata nella Manhattan post 9/11 che apre un blog impegnandosi a cucinare le 524 ricette del libro della Child in 365 giorni. Il plot è tutto qui, con le crisi e le ansie della Powell alle prese con blog e ricette da una parte, e con le avventure parigine della Child e di suo marito (un adorabile Stanley Tucci) dall’altra.

Tutta la prima mezz’ora del film, con le peripezie della Child al corso di cucina francese è davvero esilarante: la Streep recita con una fisicità e una gestualità da attrice comica sopraffina, alla Buster Keaton, come se fosse un direttore d’orchestra o un compositore che usa tutte le possibilità del proprio linguaggio corporeo e vocale per esprimere un’idea di contagiosa vitalità. Ma anche la storia contemporanea funziona grazie a Amy Adams, molto brava nel tracciare la parabola del suo personaggio e nel rendere credibile la simbiosi con la figura della Child.

Julie & Julia resta tuttavia una commedia molto convenzionale, leggera e divertente, ma senza un autentico conflitto drammatico. Sembra che la regista Nora Ephron abbia scritto il copione seguendo alla lettera una ricetta, con tutti gli ingredienti che ti aspetti al loro posto. Il confine tra la ricetta “giusta” e la “solita” ricetta è sottile, ma credetemi, Meryl Streep vale il prezzo del biglietto. E’ così buffa e gioiosa che sta diventando il più sorprendente e sano antidepressivo dei nostri tempi. E non è poco.
Voto: 7+

lunedì 26 ottobre 2009

"Non posso amarti se non rinuncio a te"


"Non c'è nessuno qui che vuol conoscere la verità, signor Archer? La vera solitudine è vivere tra queste persone gentili che ti chiedono solo di fingere."

Michelle Pfeiffer (Ellen Olenska)
ne L'Età dell'Innocenza (Scorsese, 1993)

sabato 24 ottobre 2009

Nuovo incubo targato Coen

E’ un incubo travestito da commedia grottesca e surreale il nuovo lavoro dei fratelli Coen. Introdotto da un enigmatico prologo in yiddish, A Serious Man racconta la storia di Larry Gopnick professore ebreo di matematica nella Minneapolis degli anni '60, travolto suo malgrado da eventi e circostanze sempre più assurde. Non riuscendo a reagire e non trovando risposte ai propri tormenti esistenziali si rivolge all’ebraismo e chiede udienza ai rabbini per capire il significato nascosto degli eventi e la direzione da seguire.

Strutturato come una successione di aneddoti quotidiani apparentemente banali (alcuni molto divertenti) raccontati con gelido, straniante distacco ma al tempo stesso con tono e sguardo benevoli, il film ha una geometrica costruzione circolare che toglie il fiato. Il profilo narrativo è solo in apparenza basso o in sottotono rispetto al meccanismo ad orologeria di No Country For Old Men. I Coen proseguono infatti lo stesso discorso filosofico sul male e sul caos del film precedente scegliendo di raccontare una storia piccola, forse autobiografica, profondamente immersa nella cultura e nello spirito ebraico (qui descritti con humour ad un tempo dissacrante e nostalgico) e lo fanno sfoderando il loro consueto formalismo e la loro straordinaria potenza espressiva. In questo modo riescono ad essere ancora più sottili, insinuanti e devastanti nel loro pessimismo cosmico: l’accumulo di aneddoti sempre più insensati non lascia scampo a niente e nessuno.

I Coen si divertono così a spiazzare lo spettatore, facendolo viaggiare su atmosfere sospese e tempi dilatati improvvisamente rotti da bruschi interventi del “caso”, ed inseriscono apologhi geniali (come quello del dentista, raccontato dal secondo rabbino) che hanno l’effetto di produrre ulteriore frustrazione e domande irrisolte. E il finale è emblematico: è inutile cercare di capire il senso delle cose e delle persone, per quanto bizzarre e strampalate esse siano. Qualcosa di inaspettato (un incidente, una malattia, un tornado all’orizzonte) può sempre accadere, qualcosa di peggiore ed ancora più assurdo. Né la religione, con tutto il suo apparato rituale e la sua tradizione secolare può dirci più di quanto già non sappiamo.

Siamo nelle mani del caso e del relativismo, in balia dell’insanabile scontro tra razionalità e spiritualità, certezza della matematica da una parte e incertezza assoluta del destino dall’altra. Persino la fisica non dà più risposte certe, la prospettiva e il punto di vista da cui si guarda modifica la realtà stessa delle cose. In questo senso non sapremo mai se il vecchio del prologo è uno spirito oppure è un uomo in carne ed ossa. Lo vediamo uscire dalla porta e le probabilità che muoia dietro l’angolo o si allontani nella neve sono le stesse. Una cosa è certa: marito e moglie resteranno fermi nelle loro credenze. E quel tornado nero che si avvicina minaccioso all’orizzonte, potrebbe spazzare via la bandiera americana e travolgere tutti. O forse no.

Voto: 8

Meryl meets human beings




Red Carpet Meryl





venerdì 23 ottobre 2009

Posseduto da Joan


Mi auguro di non avere incubi stanotte. Erano anni che non vedevo un film con Joan Crawford e non ricordavo quanto potesse essere intensa. Gli americani direbbero impressive, very terrific. In Possessed (Anime in delirio il discutibile titolo italiano) cupissimo noir del 1947 diretto da Curtis Bernahrdt la diva interpreta Louise Howell, una donna instabile che abbandonata dall'uomo che ama, cinico e sprezzante, finisce in un vortice di ossessioni ed allucinazioni fino a diventare schizofrenica. Ricoverata in ospedale in stato catatonico, dovrà dolorosamente ricostruire i tasselli della memoria con l'aiuto della medicina psichiatrica.

Come ogni noir che si rispetti, il film inizia dalla fine ricostruendo la storia attraverso una serie di flashback. La sequenza d'apertura è indimenticabile: Bernahrdt inquadra in campo lungo Joan Crawford che cammina lungo una strada deserta in evidente stato confusionale. Barcolla, si avvicina al ciglio della strada, passa un tram e per un attimo si ha il dubbio che voglia farsi investire. In queste scene la Crawford è davvero efficace, perduta e miserabile.

Con l'inizio del racconto in flashback la credibilità si fa labile e il film diventa contraddittorio nella costruzione del personaggio femminile, rivelando la propria anima di star-vehicle per la teatralità e la recitazione ad effetto della diva. Dopo una prima scena in cui l'idillio sul lago tra Louise e David si trasforma nel teatro della fine della loro storia (lei è gelosa e possessiva e vorrebbe il matrimonio, lui si sente soffocare e decide di lasciarla), ritroviamo Louise che lavora come infermiera in una casa sulla riva opposta della baia. Accudisce la signora Pauline, moglie malata e depressa del ricco industriale Dean Graham ed è disponibile, mansueta, quasi sottomessa. Sembra un'altra persona rispetto all'amante appassionata e aggressiva della scena precedente. L'effetto è straniante anche perché la Crawford non è affatto credibile come docile infermiera, il suo carisma attoriale va in tutt'altra direzione né la star sembra sforzarsi di dare alla propria maschera aspetto e movenze più dimessi. In camice bianco è così ridicola e fuori parte da risultare una bizzarra figura in bilico tra camp e horror.

Ma l'intreccio prende il sopravvento e al motivo dell'amore ossessivo si lega l'indagine sulla morte di Pauline, annegata nel lago. Sola e disperata, Louise cede alla proposta di matrimonio del signor Graham ma inizia ben presto a dare evidenti segni di squilibrio. La morte di Pauline rappresenta il nodo più ambiguo di tutto il film e il motivo più suggestivo: Louise ne è tormentata oltre ogni logica per una ragione psicologica precisa, Pauline rappresenta il suo doppio. Louise non solo ne prende il posto sposandone il marito ma, avvertendo in sé stessa i sintomi della malattia mentale, teme di fare la sua stessa fine, infelice, depressa e suicida. Non è un caso che la regia non la inquadra mai: Pauline è infatti un fantasma ancor prima di morire. La porta della sua stanza è sempre socchiusa, ne sentiamo solo la voce e percepiamo la sua presenza nel suono insistente del campanello che richiede con urgenza i servizi dell'infermiera. In questo modo Bernahrdt riesce a farla rivivere nella mente di Louise ben oltre la sua morte. Il film regala una scena di autentico brivido quando Louise torna nella casa sul lago e, sentendo suonare il campanello di Pauline, prima si convince che sia ancora viva, poi immagina di esser stata lei ad ucciderla. La casa acquista improvvisamente un aspetto sinistro: attraverso la soggettiva di Louise percorriamo le scale (raggelante lo sguardo obliquo che Joan Crawford lancia velocemente allo specchio e agli spettatori) fino alla stanza di Pauline e all'urlo di Louise che richiama l'intervento del marito.

Nelle scene in cui si materializza la follia della protagonista, Possessed è assolutamente angosciante. Bernardht rende benissimo i percorsi labirintici della mente di Louise alternando primi piani sul suo volto sconvolto a dettagli visivi e sonori (la pioggia che batte alla finestra, il ticchettio dell'orologio) che accentuano lo stato allucinatorio e il grado di falsata percezione del reale in cui la donna precipita. Un'altra scena incredibile è quella in cui Louise ha una violenta lite con la figliastra e la uccide spingendola dalle scale. La dissolvenza sul corpo della giovane Carol in fondo alle scale è seguita dall'inquadratura della porta che si apre e mostra la figliastra rientrare in casa. La macchina da presa inquadra le scale e percorre la ringhiera fino al volto sudato e febbrile di Louise che, evidentemente, ha di nuovo immaginato tutto.

Presa per singole pose, l'interpretazione della Crawford è eccellente ma, pur nell'instabilità e nella schizofrenia del personaggio, la star sembra più preoccupata dell'effetto finale immediato piuttosto che di trovare un'unità di fondo al suo carattere. Che risulta così frammentario e poco credibile sia nei mille risvolti dell'intreccio da una scena all'altra sia nei fulminei cambi emotivi all'interno della stessa scena. Nondimeno bisogna riconoscere alla star una forza e un'intensità che vanno ben oltre i problemi di verosimiglianza.

Fortemente influenzato dalla psicoanalisi e dalle ricerche sulla malattia mentale che tanto seguito ebbero nella Hollywood anni '40 (si pensi a Io ti salverò di Hitchcock) Possessed può sicuramente apparire oggi schematico e semplicistico per la diagnosi clinica della psicosi della protagonista, ma è straordinariamente suggestivo nelle modalità di rappresentazione della follia. Indimenticabile la battuta di David a Louise "Tu sei abituata a temperature che scendono e aumentano. Ma nell'amore non ci sono ricadute. Quando ne sei fuori, la febbre non torna più".

Le stelle di Roma

Con il Marc'Aurelio d'oro alla carriera a Meryl Streep cala il sipario sul Festival del Film di Roma. Miglior film Brotherhood dell'italo-danese Nicolo Donato. Premio del pubblico e Gran Premio della Giuria a L'uomo che verrà di Giorgio Diritti. Migliori attori Sergio Castellitto per Alza la Testa di Alessandro Angelini e la bravissima Helen Mirren di The Last Station, che inizia così la sua corsa verso l'Oscar. Up in the Air, tra i favoriti alla vigilia, è rimasto a bocca asciutta. Al prossimo anno!

giovedì 22 ottobre 2009

Meryl, il campo magnetico della perfezione


L'avevo promesso e alla fine l'ho fatto. Pur non avendo il biglietto per assistere all'incontro-intervista con Meryl Streep questa sera al Roma Film Fest, mi sono stoicamente presentato in biglietteria due ore prima dell'evento alla (disperata) ricerca di qualcuno che avesse un biglietto in più. Non è che nutrissi molte speranze, visto il recente latitare della dea bendata dalle mie parti. Ma dovevo tentare ed ho avuto ragione. Non solo ho trovato qualcuno che mi ha addirittura regalato il biglietto, ma tale siderale epifania si è verificata appena ho messo piede in biglietteria. C'è solo un termine per descrivere questo incredibile colpo di fortuna.

Alla fine Meryl è arrivata, ha sfilato sul red carpet sotto i flash di fotografi e fan, ha firmato autografi, si è lasciata felicemente travolgere dall'ovazione che ha accolto il suo ingresso nella Sala Sinopoli. Ave Meryl, la più grande attrice vivente, un monumento di storia del cinema.
Dal vivo è proprio come ti aspetteresti: brillante, disponibile, misurata, spiritosa, elegantissima. La maggior parte delle clip proiettate (a parte Il diavolo veste Prada, l'inevitabile Mamma Mia! e il meraviglioso I ponti di Madison County) riguardavano i primi anni della sua carriera: Il cacciatore, Manhattan, Kramer vs Kramer, La scelta di Sophie. In un'ora di intervista era praticamente impossibile passare in rassegna in modo esaustivo una carriera così duratura e straordinaria e fa sorridere che gli applausi più calorosi siano stati proprio per Mamma Mia! (il suo più grande trionfo commerciale, di certo non uno dei suoi film migliori). Personalmente mi sarebbe piaciuto ascoltare qualche domanda su The Hours, ma anche se fosse stata in programma, non c'era più tempo.

Ci si aspetta sempre da queste interviste che l'attore si metta a nudo e riveli i segreti della propria arte, ma così non è. Ripercorrendo i primi anni della sua carriera, un po' per modestia, un po' per sfatare il mito della perfezionista e della prima della classe, Meryl non ha accennato nemmeno una volta a quanto abbia studiato per interpretare un personaggio. E così Manhattan e Kramer vs Kramer furono girati quasi contemporaneamente e lei era tutt'altro che preparata (anche perchè contemporaneamente recitava Shakespeare a teatro ogni sera). Alla domanda sulla sua strabiliante abilità nell'imitare accenti e cadenze straniere, Meryl si lancia in una gag strepitosa: approfittando di una interferenza con il suo microfono, rivela di essere un campo magnetico che non solo manda in tilt i microfoni, ma attira a sé gli accenti, i tic, i gesti delle persone e li raccoglie. Più volte risponde con un laconico I don't know. E forse la risposta è proprio questa. Lei non lo sa. E' ovvio che un attore si prepari e studi, ma la preparazione non serve a niente se sulla scena, sul set, non si accende la scintilla, se non succede nulla. E quello che può succedere, non lo sa nemmeno l'attore. O almeno il grande attore. Ecco la lezione di Meryl Streep: gli attori hanno la possibilità di cogliere il senso profondo della vita. Non c'è nulla in realtà di cui possiamo essere certi. Non sappiamo in anticipo cosa accadrà, non possiamo mai sapere come andranno a finire le cose. Un attore deve riuscire a stupirsi ogni volta, deve lasciarsi cogliere di sorpresa al primo come al trentesimo ciak. Sì, ma come? La scintilla, il genio, un dono. Ave Meryl.

mercoledì 21 ottobre 2009

Avenue Q, il trionfo dell'irriverenza


Da performer di musical (come la mia formazione post-accademica vuole che io sia, anche se attualmente in panchina) non potevo assolutamente mancare la prima nazionale dell'attesissimo Avenue Q ieri sera al Teatro Olimpico di Roma. Nato nei teatri off-Broadway nel 2003 e divenuto in breve tempo un fenomeno culturale di livello mondiale vincitore di 3 Tony Awards, è sbarcato finalmente in Italia il musical peloso senza peli sulla lingua. Un concentrato vincente di camp e politicamente scorretto, melodie azzeccate e tempi comici perfetti. Chi ha visto l'edizione londinese può confermare che la versione italiana è assolutamente fedele all'originale, per quanto nella trasposizione/traduzione dei testi (operazione sempre ardua e rischiosa in casi come questo) qualche sfumatura si sia persa. Ma è lo spirito quello che conta, l'energia, la precisione della messa in scena. Qualche ingranaggio forse è ancora da rodare (qualche secondo di troppo tra i cambi scena, soprattutto nel secondo atto; non tutti gli attori sembrano essere perfettamente a proprio agio e in qualsiasi momento col pupazzo cui devono dar vita). Ma sono inezie. Gli ingredienti per un successo duraturo ci sono tutti e auguro dal profondo del cuore al regista e al direttore musicale (Stefano Genovese e Cinzia Pennesi) a tutto il cast (strepitosi Gabriele Foschi e Mauro Simone, di una dolcezza e bravura devastanti Elena Nieri, perfetti tutti gli altri), ai musicisti e alla troupe tecnica di sbancare i botteghini italiani. Quando si hanno a disposizione giovani attori così bravi, qui chiamati a sostenere un vero e proprio tour de force vocale e fisico nel dare vita a pupazzi/personaggi diversi, non serve affatto avere grossi nomi in cartellone. Avenue Q è un prodotto pop nel senso più nobile e alto del termine, fatto per piacere ma non per forza a tutti, dissacrante (nel mettere alla berlina tutti i luoghi comuni della cultura e della società contemporanee), spassosissimo e al tempo stesso colto e sofisticato (nel gioco del doppio tra attore in carne e ossa e pupazzo che prende vita). Una scarica di energia travolgente, una boccata di aria fresca nel teatro musicale italiano.

martedì 20 ottobre 2009

The Last Station


Da spettatore attento e smaliziato sono in genere incline a valutare con sufficienza o comunque con sospetto ogni volta che un film mi trova così emozionalmente scoperto e vulnerabile da cadere in tutte le sue trappole patetiche e sentimentali. Nondimeno, per quanto mi abbandoni o meno al flusso emotivo, ritengo che non solo ogni spettatore in sala veda sempre il proprio film, pur vedendo tutti lo stesso film, ma che ogni visione è un’esperienza unica e irripetibile, risultato dell’incontro tra un oggetto immutabile (il film) e un soggetto attivo (lo spettatore) che in base al proprio stato interiore recepisce il film, lo vive e di conseguenza lo trasforma ogni volta.
Detto questo, si vede che ieri sera fossi in un mood particolarmente tempestoso perché di fronte a The last station di Micheal Hoffman presentato al Roma Film Fest, ho pianto a dirotto come non mi capitava da tempo.

Tratto dal romanzo di Jay Parini, il film racconta gli ultimi anni della vita di Lev Tolstoj (Christopher Plummer) e la disputa che lo divise dalla moglie, la contessa Sophja (Helen Mirren), in merito al testamento e ai diritti sulle sue opere letterarie. Il grande scrittore russo aveva da anni abbracciato una nuova etica religiosa che poggiava sull’amore e sull’armonia universale, sul pacifismo e sul rifiuto della proprietà privata e dell’arte come commercio (il tolstoismo). Sostenuto da Vladimir Chertkov (Paul Giamatti) Tolstoj arrivò a rinunciare ai diritti d’autore sui propri lavori per cederli al popolo russo, decisione che causò feroci litigi con la moglie. Contraria alla conversione etica del marito un po’ per amore, un po’ per ragioni economiche (il timore che i consiglieri convincessero Tolstoj a liberarsi di ogni suo bene senza lasciare nulla in eredità alla famiglia), la contessa Sophja si vide tutt’ad un tratto messa da parte dalla nuova ideologia del marito fino ad essere allontanata dai suoi collaboratori.

Il materiale narrativo è quindi piuttosto interessante e succulento ma Micheal Hoffmann (che non è mai stato un grande regista) si limita ad illustrare la vicenda in modo convenzionale, cercando comunque di evitare il rischio di teatralità ed accademismo tanto comune alle confezioni d’epoca. L’afflato di fondo però è potente (belle le musiche di Sergei Yevtushenko), l’ispirazione sembra sincera (Hoffman è anche autore dello script) e il finale strappa (ben) più di una lacrima. Non si può negare che il conflitto tra amore e ideologia sia articolato in modo netto ed efficace, con la figura luciferina di Giamatti da una parte e l’impeto regale della Mirren dall’altra e le scene madri non si contano. La regia è corretta e lascia che il lavoro lo facciano gli attori, preoccupandosi semplicemente di non perdere nessun movimento degli occhi o delle labbra. E gli attori restano il principale motivo di attrazione del film: Plummer torreggia da gigante ed Helen Mirren divora la scena alternando con consumata maestria enfasi teatrale e regale dignità. Ma anche James McAvoy è notevole: poche cose sono così ardue da rendere come la purezza d’animo e la trasparenza, e nel ruolo di Valentin, il giovane segretario di Tolstoj, l’attore di Espiazione è commovente nella sua assoluta limpidezza. Tutti e tre dovrebbero essere in lizza per i prossimi Oscar.

Voto: 7

lunedì 19 ottobre 2009

Up in the air


Appena uscito dalla sala affollatissima e surriscaldata dove proiettavano Up in the air al Roma Film Fest, il primo fugace (e provinciale) commento è che gli americani le commedie le sanno fare e le fanno davvero bene. Up in the air è un prodotto mainstream (confezione lussuosa, grossi nomi in cartellone) che pur all’interno di una struttura classica riesce a veicolare contenuti poco rassicuranti e confortanti sulle relazioni, sull’amore e sulla vita in generale (oltre ad articolare in modo anche un po’ furbo e consolatorio un discorso molto attuale sulla crisi economica globale).

Ryan Bingham (George Clooney) è un uomo che ha fatto del lavoro la sua ragione e la sua filosofia di vita. E’ un tagliatore di teste, si occupa di comunicare a dipendenti di aziende sparse negli Stati Uniti che sono stati appena licenziati. E’ quindi distaccato, freddo, molto cinico, non si fa coinvolgere da niente e da nessuno, è praticamente una macchina da guerra. Viaggia per oltre 300 giorni all’anno da un capo all’altro dell’America e gli aeroporti sono diventati il suo habitat naturale. Non ha una famiglia a cui tornare né un legame affettivo stabile, la sua casa è un grigio, impersonale e vuoto monolocale. Tutto quello di cui ha bisogno sono il suo leggero e maneggevole trolley e il suo portafogli. Tutto ciò che desidera è continuare ancora a viaggiare per diventare la settima persona al mondo ad avere percorso il milione di miglia aeree. Le cose inizieranno a cambiare con l’entrata in scena di due personaggi femminili che travolgeranno ogni sua sicurezza: Nathalie (Anna Kendrick), giovane e rampante neocollega ideatrice di una nuova modalità di licenziamento via internet e Alex (Vera Farmiga), l'affasciante frequent flyer con cui Ryan intraprende una frequentazione inizialmente occasionale e via via sempre più intensa. Per ragioni diverse, sarà il rapporto con Nathalie (che Ryan è costretto suo malgrado ad accompagnare in una specie di apprendistato) e con Alex (che sembra essere il suo alter ego femminile) a provocare un graduale e profondo cambiamento in Ryan. Il finale è agrodolce e molto riuscito e peccato per la solita estenuante celebrazione del valore della famiglia americana attraverso cui superare crisi e momenti difficili. Per fortuna, caso insolito per una commedia hollywoodiana, sono il senso di sconfitta e pessimismo a prevalere sull’atmosfera generale.

Al terzo film dopo Thank you for smoking e Juno, Jason Reitman non è più una sorpresa ma una conferma. Up in the air è sicuramente il suo lavoro più maturo e complesso, una commedia che alterna sapientemente risate intelligenti e commozione non gratuita, diretta con gran classe, scritta benissimo ed interpretata da un cast in stato di grazia. George Clooney è sempre stato un bravo attore, oltre ad essere una star di prima grandezza dotata di innegabile fascino e di un'eccellente capacità comunicativa. Ma nel ruolo di Bingham supera sé stesso aggiungendo alla tavolozza dei suoi colori sorprendenti note di tristezza, sconforto e fragilità che finora non aveva mai toccato con tanta credibilità e sensibilità. Al personaggio di Nathalie è assegnata la funzione di comic relief e sono legati i momenti più divertenti del film, ma Anna Kendrick è talmente abile da tracciare un ritratto a tutto tondo molto efficace. Ma è Vera Farmiga, bellissima e sexy, a bucare lo schermo nel ruolo di Alex con una recitazione sottile e obliqua. E’ suo il colpo di scena più imprevisto del film: la sceneggiatura sembra per un attimo aver barato con lo spettatore ma in realtà articola il climax in modo perfettamente coerente al punto di vista assunto sin dall’inizio, quello del protagonista maschile.


Il film esce negli States il 4 dicembre e in Italia all’inizio del prossimo anno. George Clooney ha buone probabilità quest’anno non solo di essere nominato all’oscar, ma di portarsi a casa la statuetta come attore protagonista (dovrebbe essere un testa a testa tra lui e Colin Firth). Quanto alle due donne, meriterebbero entrambe di essere candidate come attrici non protagoniste, ma la concorrenza quest’anno è spietata (ci sono le attrici di Nine, Susan Sarandon per The lovely bones, Julianne Moore per A single man e quella che sembra già essere la vincitrice annunciata, Mo’nique per Precious) e pare che lo studio voglia promuovere e sostenere Vera Farmiga come protagonista. Candidatura assicurata anche per film, regia e script.

Voto: 8 -

Seconda visione del film in data 9 dicembre:
http://best-actress-confidential.blogspot.com/2009/12/re-viewing-tra-le-nuvole-up-in-air.html

Voto: 7-

Beati gli smemorati...


"I'm not a concept Joel, I'm just a fuck'd up girl
who's looking for her own peace of mind, I'm not perfect".

Clementine Kruczynski (Kate Winslet) in Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Gondry, 2004)

domenica 18 ottobre 2009

Il blog di cinema che fa per voi

E venti! I miei primi venti giorni di blog! Ora che l'idea originale inizia ad avere una struttura di fondo piuttosto concreta e una forma grafica dignitosa, mi sembra doveroso fare il punto della situazione e lanciare un messaggio di benvenuto a tutti coloro che si connettono per la prima volta.

Se per voi il cinema è una ragione di vita, una filosofia, il vostro personale credo religioso, insomma il mantra attraverso cui innalzate lo stato vitale quotidiano;
se vi divertite a stilare periodicamente liste dei vostri film e dei vostri attori preferiti ;
se adorate le attrici americane e almeno una volta nella vita vi siete follemente innamorati di una star e avete tappezzato la vostra camera con le sue fotografie e i poster di tutti i suoi film;
se nonostante la vostra intelligenza non sapete resistere al glamour hollywoodiano e al fascino del red carpet;
se sin da piccoli guardavate Tg1 e Tg5 dall'inizio alla fine solo per vedere i servizi di Vincenzo Mollica e Anna Praderio da Venezia e da Cannes;
se non vi fermate al semplice piacere - fascinazione della visione e ritenete interessante l'analisi critica dei film alla ricerca di nuovi/altri significati rispetto a quelli direttamente veicolati dal discorso filmico;
se ritenete che il cinema americano (indipendente e non) sia nonostante tutto il cinema più bello del mondo (e ho detto il più bello, non il migliore);
se i vostri generi preferiti sono il melò, il noir, il musical e in generale il film drammatico d'autore ma siete inclini a non disprezzare nulla a priori, a parte i cinepanettoni e le saghe che superano il terzo episodio solo per fare più soldi;
se vi ritrovate a piangere alla scena del semaforo sotto la pioggia ogni volta che rivedete I ponti di Madison County e pensate, a prescindere dalle vostre inclinazioni sessuali, che Michelle Pfeiffer fosse fottutamente sexy come Catwoman e ne I favolosi Baker;
se l'unica cosa per cui fate un tifo da stadio è il vostro divo o il vostro film del cuore che concorrono agli Oscar (o ai Golden Globes, agli Screen Actors Guild, agli Emmy, ai Tony, ai David etc...)


questo è il blog di cinema che fa per voi!

Scorrendo l'archivio dei post già pubblicati potete trovare le recensioni dell'ultimo film di Woody Allen, dei nuovi Tarantino e Ang Lee, de La doppia ora e di Bernard & Doris, bellissimo e misconosciuto film con la coppia Sarandon-Fiennes appena uscito in dvd e trasmesso in Italia solo sul satellite; un'analisi della commedia Frankie&Johnny (Paura d'amare, 1991) focalizzata sull'interpretazione di Michelle Pfeiffer, del toccante Safe di Todd Haynes (1995) e del carisma di Glenn Close; uno sguardo al cinema classico attraverso il melò Femmina folle (1945) con Gene Tierney; un tuffo nella musica pop con Tori Amos e Annie Lennox. Inoltre: previsioni delle prossime candidature ai premi Oscar, anticipazioni sull'attesissimo musical Nine, news e prossimi commenti dei film appena presentati al Festival del Film di Roma, dati del box office, tante foto e altro ancora. Have fun!

venerdì 16 ottobre 2009

"I was lost until you came" (Annie Lennox)


"Please take these lips
Even if I have been kissed
A million times"
(Stay by me)

"For I am just a troubled soul
Who's weighted... weighted to the ground
Give me the strength to carry on
till I can lay this burden down"
(Little Bird)

"It takes strenght to live this way
the same old madness every day
I wanna kick these blues away
I wanna learn to live again"
(Dark road)

Annie Lennox è un mito. Il termine mito è ormai troppo spesso abusato ma nel caso di Annie Lennox non può esserci definizione più azzeccata. Musicista di successo (ha venduto milioni di dischi, prima con gli Eurythmics e poi da solista), cantante dalle doti tecniche ed espressive stratosferiche (è stata definita the greatest white soul singer alive), icona della cultura pop adorata dalla comunità LGBT per la potente presenza scenica e l'immagine trasgressiva, infine attivista politica impegnata in Africa nella campagna contro l'AIDS.

Ma fermiamoci alla musica, anche se nel caso della Lennox (in questo pari solo a Madonna) è difficile separarla dall'immagine dei suoi video: un'immagine ipercostruita, teatrale, di grandissima suggestione ed eleganza, che gioca in modo raffinato, provocatorio e geniale con i temi della sessualità e dell'androginia. Un'immagine per la quale occorrerebbe un post a parte, un'analisi accurata, finanche un vero e proprio studio accademico (si vedano ad esempio i video di Little bird e No more I love you's, dei veri gioielli di sofisticato umorismo oltre che figurativamente splendidi). Da Diva (1992) che segna il suo esordio come solista, alla raccolta di greatest hits uscita questa primavera Annie Lennox ha centellinato la propria produzione discografica: solo altri due album di materiale inedito, Bare (2003) e Songs of mass distruction (2007) e un album di cover (Medusa, 1995). Oltre alle splendide partecipazioni alle colonne sonore del film Bram Stoker's Dracula (la struggente Love song for a vampire) e de Il signore degli anelli: Il ritorno del re (Into the west). La rarità delle apparizioni e delle uscite discografiche ha amplificato negli anni il valore intrinseco e la preziosità del prodotto musicale della Lennox, diffondendo la sua figura di un'aura mitologica, reverenziale, quasi sacrale di cui pochi altri cantanti pop contemporanei possono vantarsi (forse solo Bono degli U2 e la signora Ciccone).

A differenza di Madonna però, Annie Lennox ha dalla sua un talento vocale strepitoso. Alla base del fenomeno c'è quindi innanzitutto la voce: un timbro di contralto lirico inconfondibile ugualmente capace di virtuosisimi alla Whitney Houston nel soul (Precious), di graffiare nel rock (Love is blind, Smithereens), di scatenarsi nel pop (Sweat dreams, Little bird), di commuovere fino alle lacrime nelle ballads (Why, Cold, Stay by me, A thousand beautiful things, Dark road), di divertirsi (e far divertire) col musical-cabaret (la sublime Keep young and beautiful che chiude l'album Diva), infine di sorprendere per fedeltà ed introspezione nelle reinterpretazioni dei classici (dal jazz di Ev'ry time we say goodbye del grande Cole Porter al rock di Halleluja di Jeff Buckley). L'abilità tecnica indiscutibile è risultato di studi classici e si vede (anzi, si sente) come il passaggio dal registro di petto al registro alto (di testa) è gestito con una voce mista di grande spessore e potenza, molto difficile da conquistare e assolutamente elettrizzante per chi ascolta. La tecnica, caso oggi più unico che raro, non è mai però mero sfoggio di bravura o gratuita esibizione virtuosistica (Mariah, Christina e tutte le vostre seguaci fatte con lo stampino, parlo a voi) ma è semplicemente lo strumento attraverso cui l'emozione e l'urgenza comunicativa hanno modo di esprimersi al meglio, facendo arrivare il messaggio in modo più diretto e al tempo stesso spettacolare. Il risultato è eccellente. Annie Lennox andrebbe studiata in tutte le scuole di canto. Ci vorrebbe un decreto ministeriale.

Nel frattempo ringrazio dal profondo del cuore quel mio amico che un anno fa mi ha fatto ascoltare Dark Road e A thousand beautiful things e mi ha fatto ricordare quanto andassi pazzo per Annie Lennox e per la sua Precious nell'estate del 1992 alla tenera età di 13 anni. Ebbene sì, avevo già gusti molto molto sofisticati.

Glamour victim


Ieri sera ero su Google alla ricerca di immagini di Anjelica Huston in Rischiose abitudini (The Grifters), tragico e spietato noir di Stephen Frears, per inaugurare la galleria The Great Performances of All Time inserita nel sidebar di Best Actress Confidential appena sotto le previsioni dei prossimi Oscar. Mi imbatto così quasi per caso in un magnifico servizio fotografico realizzato da quel genio di Annie Leibovitz nel marzo 2007 per Vanity Fair.

Trentanove attori di Hollywood (da Amy Adams a Evan Rachel Wood elencati in ordine alfabetico nei credits) per 14 quadri (definirli scatti è improprio, anche perchè si tratta di autentiche "composizioni") attraverso cui la Leibovitz racconta (con annesse didascalie) una storia noir losangelina seguendo tutti gli stilemi fotografici, iconografici e narrativi del genere. Ecco allora le splendide "signore di Los Angeles" Anjelica Huston, Sharon Stone e Diane Lane (in alto) in lussuosi abiti anni '40, mentre commentano la notizia dell'ultimo omicidio nella toilette dello Snyder's Restaurant. O Judi Dench ed Helen Mirren in una rocambolesca fuga in auto (in alto a destra).

Infine Ed Norton, Kate Winslet, Robert de Niro, Jennifer Connelly, la Mirren e Julianne Moore (a sinistra) nella hall dell'Hotel LaBrea nei panni di altri misteriosi ed ambigui personaggi, in un'atmosfera torbida e patinata, carica di inganni e segreti, pulsioni nascoste e tradimenti. I quadri sono uno più bello dell'altro e meritano tutti di essere ammirati.
Mi piace moltissimo quando le star si prestano a giochi del genere, soprattutto se lo sguardo dietro l'obiettivo è sofisticato e brillante come quello di Annie Leibovitz. Penso di avere una personalità abbastanza sfaccettata e aperta da accettare di indulgere ogni tanto e senza riserve al richiamo del glamour hollywoodiano. Con dei modelli così poi, resistere è assolutamente impossibile.

Che la Festa abbia inizio!

Si è aperta ieri con la proiezione di Triage di Danis Tanovic (con Colin Farrell, Paz Vega e e un acclamatissimo Christopher Lee) la quarta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma presieduta da Gian Luigi Rondi e diretta da Piera Detassis. Il cartellone è ricchissimo di eventi: oltre alle ghiotte retrospettive su Meryl Streep (Marc'Aurelio alla carriera e interprete di Julie & Julia) e Heath Ledger (tra le star di The Imaginarium of Doctor Parnassus di Gilliam, il suo ultimo film), i titoli più interessanti sembrano essere almeno sulla carta Hachiko: a dog's story di Lasse Hallstrom con Richard Gere (che incontrerà il pubblico sabato 17) e Joan Allen, The city of your final destination di James Ivory con Anthony Hopkins, Laura Linney e Charlotte Gainsbourg, Up in the air di Reitman, The last station di Hoffmann e A serious man dei Coen (di cui ho già parlato in un post precedente).
Tra gli italiani occhi puntati soprattutto sull'atteso Viola di mare di Donatella Maiorca con la coppia Valeria Solarino e Isabella Ragonese e L'uomo che verrà di Giorgio Diritti con Maya Sansa e Alba Rohrwacher. Per chi è su Roma un salto al Villaggio del Cinema è d'obbligo.
Quanto a me, in attesa di vedere i film di cui ho già acquistato il biglietto, stamattina mi sono prefisso un nuovo obiettivo: partecipare al prossimo Roma Film Fest e alla prossima Mostra del Cinema di Venezia come accreditato e non come spettatore pagante. Avendo studiato recitazione so benissimo quanto sia importante la definizione dell'obiettivo e del compito nella costruzione del personaggio. Nel corso della storia innumerevoli ostacoli potrebbero frapporsi al raggiungimento dell'obiettivo creando motivi di conflitto (esterno e/o interno), ma se l'obiettivo è saldo, come professano tutti i manuali di recitazione e di sceneggiatura, non c'è ostacolo o conflitto che tenga. E il lieto fine dovrà essere assicurato.

A new look

Finalmente ho arricchito il layout del mio blog! Oltre all'archivio e alle etichette dei frequent topics sulla colonna di destra potete ora trovare alcune (fondamentali) citazioni, il box office italiano dell'ultimo week end, l'elenco dei film che ho visto in sala da quest'estate ad oggi con relativo giudizio, la performance più importante della settimana, il film in uscita più atteso, le previsioni aggiornate dei premi Oscar 2010 con le liste dei papabili candidati . Questo e altro ancora, ma sopratutto tantissime nuove foto. Have fun!

giovedì 15 ottobre 2009

Basta che funzioni


Sarà che nell’ultima settimana ho visto in successione il nuovo Ang Lee, La doppia ora e Tarantino in un’escalation di gradimento, ma il nuovo film di Woody Allen Basta che funzioni (Whatever works), non mi ha entusiasmato.
In realtà, per trovare un film di Woody Allen che mi abbia conquistato davvero, bisogna tornare al 2005, a quel Match Point che pure rappresentava un’anomalia (per genere e densità di scrittura) nella sua recente produzione. Detto questo, il Woody Allen che continuo a preferire è quello dell’inizio degli anni ’90, probabilmente più per motivi nostalgici e personali che artistici, il Woody di Crimini e misfatti (1989), Misterioso omicidio a Manhattan (1993) e Pallottole su Broadway (1994). Gli alleniani convinti potrebbero infuriarsi perché non sto citando, tra gli altri, capolavori come Io e Annie (1977), Manhattan (1978), Broadway Danny Rose (1984) o Hannah e le sue sorelle (1986). Ma, si sa, le ragioni del cuore sono spesso oscure e va detto che non ho mai visto un film di Woody Allen più di una volta, anche quando mi ha elettrizzato come Match Point, noir asciutto e rigoroso nel suo pessimistico e disperato discorso sul caso e sulla colpa. Con tutte le differenze del genere, trovare adesso quella densità di scrittura e soprattutto quella finezza di stile e quella ricercatezza che in Match Point han fatto gridare ad una rinascita di Woody Allen (e che erano presenti in tutta la sua produzione almeno fino a metà anni ’90), è impresa ardua. Già Scoop (2006) riaggiustava il tiro, riconsegnandoci un Woody Allen leggero quasi fino all’inconsistenza (pur con la consueta maestria nell’inanellare scoppiettanti battute a raffica) stringato, minimalista e stilisticamente, diciamolo, un po’ sciatto. Ma con Vicky Christina Barcelona (2008), vuoi per la riuscita ambientazione catalana, vuoi per l’affiatato quartetto di interpreti (Bardem, Cruz, Hall, Johansson) il regista newyorchese faceva centro ancora una volta e tornava al successo con una commedia solare, inventiva e sexy.
Basta che funzioni, con la sua lievità e la sua freschezza narrativa, sembra voler bissare il successo del film precedente e almeno in Italia, dati del box office alla mano, ci è riuscito. Nelle sale dal 18 settembre il film veleggia verso i 4 milioni di euro di incasso. Un risultato ragguardevolissimo, segno che questo Woody Allen svecchiato, ancora cinico e pessimista ma profondamente umano, capace di dare a settanta anni suonati una bella lezione sul senso della vita e la sua fugacità, piace moltissimo.
Boris Yelnikoff (Ed Begley Jr), ex fisico di mezza età reduce da un fallito tentato suicidio, è Woody Allen con tutto il suo amaro sarcasmo, la sua misantropia e la tragica consapevolezza della propria genialità (in un mondo di stupidi vermetti, bambini idioti, fondamentalisti cattolici, reginette di provincia subnormali). Una sera incontra Melody (Evan Rachel Wood, molto brava in un ruolo che ricorda la Mira Sorvino de La dea dell’amore, 1995), una ragazzina di provincia scappata di casa e, pur tra mille resistenze, accetta di ospitarla per qualche giorno. La convivenza si trasformerà in matrimonio fino a quando la madre di Melody, Marietta (una strepitosa Patricia Clarkson), rintraccia la figlia e si presenta a casa della coppia (il fato che bussa alla porta) portando scompiglio e nuovi divertenti, imprevedibili sviluppi.
La commedia scivola veloce, senza intoppi e senza fronzoli tra mille battute geniali, ritmo serrato, sapidi caratteri e quella tipica aria improvvisata da jam session di bravi attori che fa tanto Woody Allen. Se c’è qualcosa che Woody Allen non ha smarrito è sicuramente la sua eccellente capacità affabulatoria. Tuttavia, ciò che in Basta che funzioni disturba un po’ è la programmaticità della lezione finale (il senso della libertà individuale e la necessità di essere sinceri con sé stessi senza nuocere agli altri) e le modalità con cui tale lezione viene “impartita”. Fin dalla prima scena Boris è consapevole dello sguardo del pubblico in sala e parla direttamente agli spettatori. Il pubblico è quindi chiamato in causa ed interpellato direttamente come destinatario del discorso filmico, a sottolineare l’urgenza della lezione. La trovata è piacevole ma lo scioglimento narrativo (con tutti i personaggi profondamente cambiati dopo aver scoperto e accettato la parte più sincera di loro stessi) è schematico e semplicistico, funzionale alla morale della favola, questo sì, ma in modo troppo scoperto.
Infine, nonostante la bravura di Ed Begley jr, dispiace non vedere Woody Allen nel “suo” ruolo: solo con la sua mitica presenza avrebbe dato al film maggiore spessore. E poi, se possiamo avere Woody, perché accontentarci di un attore che dice le sue battute e, in fondo, lo imita?

Voto: 7 -

martedì 13 ottobre 2009

Frankie & Johnny, una Michelle d'annata

Grassetto
Lasciate che il mondo intero abbia Pretty Woman: la mia commedia romantica preferita è Frankie & Johnny (Paura d’amare) di Garry Marshall con Al Pacino e Michelle Pfeiffer. Uscito nel 1991 e tratto da una piece teatrale di Terrence McNelly, Frankie & Johnny fu un buon successo ma non bissò il trionfo planetario del film precedente. Eppure ha dalla sua un regista che ha notevolmente affinato il proprio mestiere (si veda la felice gestione della coralità dell’intreccio e l’efficace ambientazione metropolitana) e una coppia di star tra le più belle di tutto il cinema americano. Pacino e la Pfeiffer, insieme nove anni dopo Scarface di Brian de Palma, fanno davvero scintille in questo film, credibilissimi come cuoco e cameriera che lavorano e si innamorano nell’Apollo Restaurant, multietnico e pittoresco bistrot nel cuore di New York.
Se Pacino è un Johnny perfetto, istrionico e adorabile, perfino ossessivo nella sua perseveranza, la Pfeiffer offre forse quella che a oggi resta la sua performance migliore. La scelta di Michelle Pfeiffer per il ruolo di Frankie al posto di Kathy Bates che aveva interpretato la piece a teatro non fu senza polemiche. Troppo glamour, troppo bella - si disse - per essere convincente come cameriera sciatta e ignorante. Eppure ancora una volta la Pfeiffer si rivelò in grado di oscurare la sua bellezza e costruire un “carattere” comune e ordinario, una donna apparentemente scontrosa e solitaria, ma in realtà sola e profondamente ferita dalla vita.
Era il suo periodo d’oro, gli anni a cavallo fra gli ’80 e i ’90 in cui la Pfeiffer non sbagliava un colpo e inanellò una serie di interpretazioni a dir poco eccellenti, rivelando non solo un carisma di star assoluta, ma combinando magnetismo e presenza scenica ad una sensibilità interpretativa e una versatilità davvero uniche. Tra il 1988 e il 1993 la Pfeiffer cavalcò tutti i generi, dal dramma in costume (Le relazioni pericolose, L’età dell’innocenza), alla commedia (Una vedova allegra ma non troppo), dalla spy-story (La casa Russia) al fantasy (Batman, il ritorno), dalla commedia musicale (I favolosi Baker) al dramma (Due sconosciuti un destino – Love field), al romance (Frankie & Johnny). Comparve in tutte le liste di migliore attrice dell’anno e aprì la strada alle sue più dirette eredi (in termini di sensibilità artistica) Nicole Kidman e Julianne Moore, che a partire dalla metà degli anni ’90 avrebbero preso il posto della Pfeiffer nel cuore di critici e spettatori accorti.
Se la Madame Olenska de L’età dell’innocenza è la sua interpretazione più “importante” e quelle ne I favolosi Baker e Batman Returns le sue prove più famose e riconoscibili (la sua Catwoman è diventata un’icona pop; la scena in cui canta Makin’ whoopee distesa sul pianoforte è un pezzo di storia), la performance nel film di Marshall è nondimeno la sua più autentica e sincera, la più completa e profondamente devastante. In questo film Michelle gioca davvero tutte le sue carte:
- attrice molto fisica e istintiva, ma capace anche di grandi momenti introspettivi e di esprimere efficacemente il conflitto interiore attraverso una notevolossima "tenuta" del primo e primissimo piano (il monologo finale, disperato, rassegnato, mai patetico; gli sguardi alla finestra, carichi di sottotesto);
- dotata di grande autoironia, capace di passare con facilità dal registro brillante al drammatico o di far convivere i due livelli nella stessa scena (ad esempio nella scena al bowling, quando crolla psicologicamente sulla pista da gioco e si rifugia nella toilette, è davvero da spezzare il cuore);
- infine onesta, umile e sincera (nell’interpretazione di Frankie non c’è traccia di tecnicismi o manierismi, la sofferenza e il senso di solitudine sono credibili, palpabili, autentici).
E’ un miracolo, e Garry Marshall a Al Pacino le ruotano attorno consapevoli di lavorare con del materiale incandescente.

Ma Frankie & Johnny non è solo una commedia-veicolo per le due star protagoniste. E’ un film ricco di azzeccatissimi caratteri di contorno che danno un’efficace senso di pluralità e coralità all’intreccio e al tema principale (l’amore e la solitudine); è un film fortemente calato in una realtà urbana caotica e frenetica con precise notazioni ambientali e sociali e magnificamente fotografato da Dante Spinotti; infine è una triste, malinconica, irresistibile elegia sulla solitudine e sulla paura di aprirsi nuovamente agli altri dopo che gli altri ci hanno fatto soffrire.
Cosa chiedere di più come regalo per il mio 31esimo compleanno? Buona visione.

Folgorato da Ingloriuos Basterds


Appena uscito da una sala di Roma dove (grazie al cielo) proiettano Ingloriuos Basterds (Bastardi senza gloria) rigorosamente in versione originale con sottotitoli, ecco le mie prime impressioni (e sto cercando di frenare l'esaltazione).
Quentin Tarantino ha davvero un gran coraggio e una gran bella faccia tosta. Ci vuole coraggio ad aprire un film di quasi tre ore con una sequenza (lunghissima, geniale) quasi tutta dialogata, costruita con una precisione matematica e una sapienza tecnica magistrale. E ci vuole una gran bella faccia tosta per affrontare la Storia con la S maiuscola (la seconda guerra mondiale, il nazismo) con una libertà, una creatività, una sregolatezza così apparentemente naif (ma non c’è nulla di naif in termini puramente cinematografici, anzi è tutto iperstrutturato e stratificato) da suscitare immediatamente suggestione ed ammirazione.
Tarantino riscrive non solo il cinema (mischiando i generi e combinando pezzi, immagini, suoni provenienti da fonti disparate per produrre un nuovo “senso”) ma si diverte, azzarda, osa riscrivere la Storia stessa attraverso il cinema con un impatto e una forza (letteralmente) deflagranti. L’autoreferenzialità e il citazionismo tipicamente tarantiniani sono perfettamente integrati in un racconto dove il Cinema è il vero protagonista, continuamente presente e interpellato attraverso rimandi e citazioni ma anche in quanto luogo fisico (la sala cinematografica) dove si svolge la scena finale in cui si realizza e si consuma il sogno del suo autore.
Il film è impossibile da raccontare, è un’esperienza assolutamente da “vivere”. Per il lavoro sui tempi del racconto e sul ritmo narrativo, con estenuanti digressioni che dilatano e amplificano il tempo in modo parossistico ed accelerazioni improvvise e violente; per l’uso originalissimo della colonna sonora, che cita a piene mani Ennio Morricone e il western; per il lavoro sui dialoghi, pronunciati in quattro lingue diverse (tedesco, francese, inglese, persino italiano) in una babele linguistica e sonora che dà le vertigini; per le prove degli attori, su tutti un Christoph Waltz gigantesco, premiato a Cannes e di sicuro candidato all’Oscar (ma anche un insolito Brad Pitt e due donne, Diane Kruger e Melanie Laurent che lasciano il segno nei rispettivi ruoli della spia tedesca e dell'intrepida ebrea Shosanna).
Inglorious Basterds è uno di quei film che fanno andare in brodo di giuggiole critici e studiosi di cinema: non solo un gustosissimo pastiche ma un film profondamente teorico sul “potere” del cinema, orchestrato con una passione, un amore e una fede assoluta nel cinema stesso che Tarantino proietta in ogni immagine, ogni scena, ogni (folgorante) sequenza.
Voto: 9

lunedì 12 ottobre 2009

Gli incubi di Clarice


"Coraggiosa Clarice! Me lo dirai quando gli agnelli smetteranno di gridare?"

Stamattina mi sono svegliato con questa frase nel cervello e i volti di Jodie Foster e Anthony Hopkins fissi davanti agli occhi... che significa? Ne ho parlato col mio analista. Forse è da troppo tempo che non rivedo il capolavoro di Jonathan Demme (imperdonabile da parte mia) ma ho come la sensazione che gli incubi di Clarice siano diventati i miei. Secondo il mio analista dovrei aprire ogni settimana il mio blog proprio con la frase, la scena, il primo piano che mi ronzano nella testa. Non voglio deluderlo. Quid pro quo dottore.

domenica 11 ottobre 2009

La doppia ora


Il motivo ultimo per cui nella corsa italiana ai premi oscar per il miglior film straniero Baaria di Giuseppe Tornatore sia stato preferito al geniale Vincere! di Marco Bellocchio o a La doppia ora, sorprendente esordio di Giuseppe Capotondi, è presto detto: i soldi. Baaria è costato uno sproposito e, sostenuto da una macchina distributiva e mediatica fortissima, deve assolutamente avere un ritorno in termini non solo economici ma anche di riconoscimento artistico. E magari ci riuscirà anche (e, almeno per spirito patriottico, glielo auguriamo). Non voglio dire che Baaria sia un brutto film: piuttosto è un animale mastodontico, (solo) a tratti poetico ed ispirato, ma schiacciato dal suo stesso peso e dalle sue intenzioni autoriali. Nulla a che vedere con la compattezza e la forza dell’ultimo lavoro di Bellocchio o l’irruenza e la precisione narrativa de La doppia ora.

Nel panorama produttivo italiano il film di Capotondi è sicuramente una “bestia” rara: si è parlato di film di genere, ma in realtà di generi il film ne shakera tre o quattro, thriller, horror psicologico, noir e film d’autore, scivolando dall’uno all’altro con grande sapienza e, pur con una trama fittissima di colpi di scena, senza mai barare con lo spettatore. E’ infatti la sceneggiatura uno dei punto di forza del film, modellata secondo la struttura classica della divisione in tre atti (con due grandi snodi drammatici che muovono l’azione in modo inatteso), ma in realtà costruita su un “doppio” binario non solo narrativo, ma anche stilistico e profondamente teorico.
Nel primo atto, ci vengono presentati i due protagonisti: Sonia (Ksenia Rappaport) viene da Lubiana e lavora come cameriera in un hotel; Guido (Filippo Timi) fa il guardiano in una villa e frequenta assiduamente gli speed-date organizzati da una matrona torinese (affascinante incrocio tra una maitresse e la guida di un girone infernale). Le loro rispettive solitudini si incontrano e si riconoscono proprio in uno di questi appuntamenti. Iniziano a frequentarsi e ad innamorarsi, fino a quando durante una passeggiata nel parco della villa, Guido e Sonia vengono assaliti da una banda di rapinatori e Guido resta tragicamente ucciso. E’ il primo turning point/snodo drammatico della sceneggiatura e segna l’inizio della seconda parte del film, quella cinematograficamente più interessante e teorica. Sonia si trova ad elaborare il lutto della perdita di Guido e, mentre a poco a poco vengono rivelate alcune informazioni sul suo oscuro passato, la sua mente inizia a vacillare, a vedere e sentire strane presenze partorite dalla sua inquietudine e (probabilmente) dal senso di colpa. Assieme al personaggio femminile gli spettatori vengono catapultati in un vero e proprio thriller-horror psicologico con tutti i luoghi topici del genere: scena nella vasca da bagno (bellissima citazione da Le verità nascoste di Robert Zemeckis), la scena in cui la protagonista rimane da sola al buio nel suo appartamento, quella agghiacciante del sequestro nel bosco e via discorrendo. Capotondi e i suoi sceneggiatori non si lasciano mancare nulla e ripercorrono tutte le situazioni classiche. La tensione è costruita in modo magistrale in un crescendo narrativo di grandissima efficacia fino al momento in cui il secondo turning point mescola nuovamente le carte e capovolge completamente la situazione. Si può citare a questo punto addirittura La donna che visse due volte di Hitchcock. Per una volta, il colpo di scena non è affatto gratuito e il disvelamento del livello onirico (il binario doppio della narrazione) non solo è condotto in modo assolutamente originale ma ha una forte valenza teorica. Il blocco narrativo centrale è, non a caso, il più spettacolare in termini puramente cinematografici, quasi a suggerire la valenza onirica dell’esperienza cinematografica, e ad esprimere l’equivalenza cinema = sogno. Da questo punto in poi tutti i nodi vengono al pettine: il disvelamento progressivo della realtà avviene in un diminuendo della tensione (bellissimo il climax in “sottotono” nel parcheggio dell’aereoporto) in perfetta sintonia psicologica con la rassegnazione e la sconfitta interiore del personaggio di Sonia che non riesce a dare una svolta alla propria vita ed accetta il suo destino di donna “perduta”.

La regia di Capotondi, stretta sui volti dei personaggi, è sicura e vibrante, abile non solo nel gestire gli shift della sceneggiatura in modo spettacolare, ma anche capace di dare al suo materiale narrativo un’anima noir e un’atmosfera da film d’autore insolita nel cinema di genere. Filippo Timi ammorbidisce efficacemente il suo sguardo fisso e sinistro con un velo di disarmante dolcezza. Ma è Ksenia Rappaport a “tenere” il film dall’inizio alla fine, in uno star turn di grande magnetismo e sensibilità. Nel tracciare il ritratto di questa donna difficile e misteriosa che non riesce a venire a patti con i fantasmi del passato e soprattutto non sa cogliere l’occasione d’amore che le si presenta, la Rappaport è così fisica e intensa da rendere credibile ogni spostamento narrativo e da farci sentire sulla pelle tutta l’angoscia, la debolezza e l’inquietudine del personaggio.

Voto: 8

sabato 10 ottobre 2009

Motel Woodstock: il cinema umanista di Ang Lee

Sono un fan di Ang Lee almeno dai tempi dell’austeniano Ragione e sentimento (1995) e di quella gelida, malinconica ricognizione sulla famiglia americana che era Tempesta di ghiaccio (1997). L’interesse e la stima si sono poi trasformati in amore e devozione con Brokeback Mountain (2005, assieme a Mystic River di Clint Eastwood, forse l’unico vero classico recente del cinema americano) e con l’iper-lussuoso melo’ Lust, Caution (Lussuria, 2007). Non particolarmente innovativo dal punto di vista del linguaggio filmico ma non per questo meramente illustrativo o convenzionale, Ang Lee è un regista portavoce di un’idea di cinema classico che io sottoscrivo e apprezzo a spada tratta (ovviamente se sostenuta da una certa densità di scrittura e di riferimenti: per intenderci, anche Ron Howard è un cineasta classico, ma troppo vincolato ad un tipo di rappresentazione standardizzata e soggetta all’industria hollywoodiana).
Ang Lee ha dimostrato con gli anni non solo una notevole originalità tematica nel passare con grande versatilità da un genere all’altro ma anche e soprattutto una mano eccellente nella direzione degli attori. Rivedendo i suoi film, ciò che più colpisce e impressiona (a parte l’invidiabile carnet di premi raccolti in ogni dove) è il suo “umanesimo”, il suo stare attaccato ai corpi e ai volti dei personaggi, la sua aderenza alla materia narrativa, la sua straordinaria, questa sì, abilità nel descrivere, analizzare, raccontare i sentimenti e le emozioni umane. In questo mettere sé stesso in secondo piano rispetto al racconto e ai suoi personaggi, in questo dare risalto agli attori, Ang Lee si può definire un autore classico, un po’ come Clint Eastwood (con tutti i dovuti distinguo), ma senza il disperato pessimismo e la rigorosa asciuttezza di quest’ultimo. O, meglio, come Stephen Frears, eclettico quanto il regista taiwanese e anche lui autore di un tipo di cinema incentrato sugli attori e su un’idea di regia “invisibile” funzionale al racconto e quindi estremamente efficace, rigorosamente precisa tanto nella scansione narrativa quanto nella definizione dei piani.




Dopo le traversie della censura di Lust, Caution, con Motel Woodstock (Taking Woodstock), presentato all’ultimo Festival di Cannes, Ang Lee si prende una vacanza dai temi drammatici e ritorna alle atmosfere brillanti e leggere di uno dei suoi primi lavori, Il banchetto di nozze (1993). E di commedia si tratta: per risollevare le sorti del malandato motel di famiglia, il giovane Elliott (Demetri Martin) decide di affittarlo come base agli organizzatori di una manifestazione musicale (che si erano visti rifiutare l’autorizzazione in un paese vicino) e si trova così, per caso, a mettere in moto la macchina organizzativa di quello che sarà il più importante raduno rock della storia.
Attraverso la prospettiva privata ed esterna del protagonista, Ang Lee rievoca quindi il momento più rappresentativo degli anni della controcultura e della liberazione sessuale, la tre-giorni di Woodstock. E lo fa costruendo attorno allo sguardo timido e incerto del protagonista un affresco nostalgico e divertente dell’evento e dando vita a una galleria di personaggi buffi e strampalati, su tutti Sonia, la madre taccagna di Elliott benissimo interpretata da Imelda Staunton. Ciò che davvero interessa ad Ang Lee è catturare lo spirito autentico che si doveva respirare sulle colline di Woodstock, quel senso di libertà e di apertura al mondo e alla vita, di frenesia e di grande partecipazione collettiva. Per una volta, il racconto passa quindi in secondo piano rispetto alla Storia e alla sua ricostruzione d’epoca (peraltro perfetta fin nei minimi dettagli) e in questo Lee tradisce un po’ sé stesso e la propria peculiarità.
Tuttavia di grande effetto risulta il ricorso allo split-screen nelle immagini del corteo di hippies che si muove verso il raduno: la suddivisione dello schermo non solo rimanda ad una tecnica televisiva degli anni ’60, ma rende bene il caos, la frenesia e l’entusiasmo del concerto, come se Lee mostrando più inquadrature nello stesso momento volesse abbracciare tutto e tutti col suo sguardo da entomologo, in una moltiplicazione dei punti di vista che crea un effetto caleidoscopico di grande efficacia. Si noti che il palco non viene inquadrato nemmeno una volta, se non da lontano, attraverso lo sguardo allucinato e sognante di Elliott sotto acidi. Ed è significativo che Elliott non riesca fino alla fine a recarsi a vedere il concerto, a conferma del fatto che Lee vuole suggerire le emozioni e lo spirito che animarono l’evento, piuttosto che rappresentare l’evento stesso. Dove il film non convince e, dispiace dirlo, delude è nei riferimenti alla tematica omosessuale, tematica che peraltro Lee stesso con Brokeback Mountain ha contribuito a sdoganare nel circuito hollywoodiano mainstream. L’omosessualità del protagonista è troppo frettolosamente archiviata così come risulta soltanto abbozzata la figura peraltro interessante di Vilma, transgender ante-litteram (interpretata da un goffo e dolce Liev Schreiber).
Detto questo, il film è godibilissimo e molto spiritoso. Ma, vista la straordinaria filmografia del suo autore, un po’ al di sotto delle aspettative.


Voto: 7