martedì 30 marzo 2010

Le leggi di Sarah


Non preoccupatevi. Non ho intenzione di cambiare il nome del mio blog in Best Singer Confidential, ma in questi giorni sono perdutamente music-addicted. E dopo Barbra Streisand e Lady GaGa (e Tori Amos ed Annie Lennox nei mesi scorsi) non potevo non postare due righe sulla mia icona musicale per eccellenza. Non sto parlando di Madonna, né di Rufus Wainwright o Anthony. Ma di Sarah Mclachlan, cantautrice canadese dal timbro vocale prezioso ed inconfondibile e dalla straordinaria vena melodica, diventata famosa alla fine degli anni '90 con brani come Angel (dal soudtrack di City of Angels), Adia e I will remember you.


Un talento raro e poco prolifico: in 20 anni di carriera solo 5 album in studio, cui bisogna aggiungere però 2 album live, ep, remix, raccolte di b-sides, cover, collaborazioni varie ed un bellissimo cd natalizio, Wintersong, del 2006. L'esordio è datato 1988 con l'etereo e vaporoso Touch, in cui una Mclachlan appena ventenne cerca di costruirsi un'immagine da raffinata chanteuse pop sulle orme di Kate Bush. L'album è acerbo e ripetitivo negli arrangiamenti (quasi sempre dominati da tastiere e percussioni) ma Out of the shadows, Vox e l'elegia funebre Ben's Song sono suggestive e rivelano una voce affascinante, capace di voli raffinatissimi nel registro di testa. Segue il misterioso, oscuro e malinconico Solace (1991), in cui inizia a predominare la componente folk acustica. The path of thorns e Into the fire (brano molto alla Sinead O' Connor) restano le canzoni più famose, ma Black ha una ossessiva costruzione circolare che toglie il fiato. La linea melodica è umorale, sincera ed intimistica, mai disgiunta dal significato del testo, e la voce morbida, delicata, calda ed ombrosa domina dall'inizio alla fine come il canto triste di una sirena seducente e compassionevole.


Il successo arriva con l'album successivo, ad oggi il suo migliore, Fumbling Towards Ecstasy (1994), ipnotico, sfaccettato e scintillante, in cui alla componente acustica si affianca una dimensione soft-rock elettronica in efficace contrasto con la vocalità vellutata della Mclachlan. Cifra stilistica della voce diventano i vertiginosi scivolamenti dal registro di petto a quello di testa mentre gli arrangiamenti del produttore Pierre Marchand puntano a creare un landscape musicale interiore tortuoso, teso e sottilmente inquietante. Se la voce accarezza e conforta, il pavimento sonoro è affilato come un rasoio e le melodie, mai banali, pescano nel fondo dell'anima ed illuminano senza paura zone oscure e ferite lancinanti. Elettrizzanti Possession e Fear, struggente Elsewhere, devastante Hold on (una della canzoni più belle che siano mai state scritte sull'aids), gotica Ice, dolcissima Good enough, mistica e liberatoria la title-track.


La consacrazione avviene nel 1998, con il Lilith Tour e l'album Surfacing, 8 milioni di copie vendute nel mondo e 2 grammy awards: una sofisticata raccolta di canzoni scritte in punta di penna e degna di Blue, l'album-capolavoro di Joni Mitchell, forse il punto più alto del songwriting confessionale americano. Asciutta, intensa ed ispirata la Mclachlan distilla due perle radiofoniche soft rock come Building a mistery e Sweet Surrender, la catartica, meravigliosa ballata per chitarra e piano Adia (la canzone della mia vita...) e la sublime Angel, un pezzo al pianoforte di siderale lirismo ormai entrato nella storia della musica. Il panorama musicale tratteggiato da Surfacing è come il quadro impressionista di un cielo nuvoloso che si sta rischiarando, qua e là (ancora) squarciato da improvvise, tempestose chitarre elettriche. Prevalgono le tonalità pastello con venature cupe e malinconiche e la ricerca della "bellezza nella tristezza" si afferma come canone estetico fondamentale.


A sette anni di distanza dall'ultimo album in studio Afterglow del 2003, molto simile a Surfacing per struttura ed ispirazione e degno di nota soprattutto per i brani di apertura e chiusura, Fallen e Dirty Little Secret, la Mclachlan ha annunciato la pubblicazione di un nuovo cd di materiale inedito, The Laws of Illusions, prevista per il prossimo 15 giugno, cui seguirà la ripresa del Lilith Tour.

Per chi voglia accostarsi alla sua musica per la prima volta, nel 2008 è uscita la raccolta Closer contenente anche due inediti molto belli, U want me 2 e Don't give up on us. Non fermatevi al primo ascolto. Se sentite riecheggiare Dido state certi che è quest'ultima ad aver copiato tutto. La musica e la voce di Sarah entrano sotto pelle lentamente, in punta di piedi. Sembra che chiedano il permesso. Ma vale la pena di farli entrare. Una volta dentro, sono un tesoro inestimabile.

GaGa. This Lady rocks


Ma avete visto il nuovo video di Lady GaGa Telephone featuring Beyoncé? 9 minuti e 30 di sublime trash-pop colorato, irriverente e di raffinatissimo cattivo gusto orchestrato da quel geniaccio di Jonas Akerland. Gustosissima la citazione nel finale a Thelma&Louise con GaGa e Beyoncé velenose assassine dei rispettivi amanti che fuggono in auto mascherate da irresistibili vedove gangster. Telephone prosegue la storia dell'altro incredibile video di Lady GaGa, Paparazzi, sempre diretto da Akerlund. Assieme a Bad Romance, il singolo che ha fatto da battistrada alla riedizione del suo cd The Fame Monster, sono i tre brani in rotazione continua nel mio ipod durante il footing pomeridiano. Ferdi GaGa?


E pensare che fino a poco tempo fa giudicavo snobisticamente questo fenomeno come uno dei soliti prodotti costruiti a tavolino dall'industria discografica per vendere musica di plastica. Ma la ragazza sa cantare. In genere si pensa che chi gioca così tanto con la propria immagine lo faccia per sopperire alla carenze artistiche. Ma non è questo il caso: la combinazione di talento ed immagine (quanto sincera ed autentica sarà il tempo a dirlo) nel fenomeno Lady GaGa ha un che di esplosivo e sorprendente.


Non si può certo dire che la ragazza non faccia spettacolo, frullando suggestioni da Madonna (nel trasformismo e negli espliciti riferimenti sessuali) e da un Marylin Manson addomesticato (nell'estetica freak ironicamente disturbante), mentre dichiara apertamente che tra le sue fonti di ispirazione ci sono anche David Bowie e i Queen. Vocalmente è un mix tra Christina Aguilera e Gwen Stefani, ma senza gli eccessivi virtuosismi della prima e con molte più carte da giocare della seconda. Sentitela cantare dal vivo: che siano performance acustiche al pianoforte delle sue hit (Poker Face acustica è di gran lunga superiore alla versione dance, un divertissement da applausi; Speechless è una ballad stupenda ed anche Paparazzi, che resta forse il suo brano migliore, è ancora più drammatica ed inquietante) o esibizioni live con tanto di orchestra e coreografie da musical, Lady GaGa divora il palcoscenico e canta in maniera (spesso) sensazionale.


Al pianoforte sembra di rivedere una Tori Amos aggressiva, teatrale e sensuale, ma con molta più voce ed un talento musicale ugualmente straordinario. E sulla scena ha l'energia di una Madonna con molti anni in meno. Ma qual'è la vera Stephanie Germanotta alias Lady GaGa? La brillante ragazza al piano o la scatenata performer che fa di tutto per scioccare il pubblico con i suoi allestimenti eccessivi e i suoi travestimenti deliranti?



Lo capiremo nelle prossime trasformazioni. Per adesso non si può certo dire che non abbia fatto centro. Che l'immagine/confezione sia stata imposta e studiata dalla casa discografica per trovare un modo per rendere vendibile la sua non proverbiale bellezza (anche se Stephanie è molto più carina di come appare conciata nei video) o sia tutto farina del suo sacco per adesso poco importa. Lasciamo che Lady GaGa continui ad intrattenerci e a stupirci. Gli artisti esistono per questo.

lunedì 29 marzo 2010

Titanica Kate


Rose DeWitt Bukater è ad oggi la performance più emozionante di Kate Winslet. Certo, tecnicamente è inferiore alle prove fornite in Revolutionary Road e The Reader, e la Clementine Kruczynski di Eternal Sunshine resta un capolavoro di autenticità in brillante equilibrio tra commedia surreale e dramma. Ma il modo in cui la Winslet riesce a rendere credibile il percorso del suo personaggio nel kolossal di Cameron, dal desiderio di ribellione contro le costrizioni imposte dalla casta all'amore improvviso per il vagabondo di terza classe Jack Dawson, fino all'incredibile, impossibile destino di sopravvivenza, ha un che di prodigioso.

L'altra sera, a parecchi anni di distanza dall'ultima visione, mi sono rituffato nelle acque del Titanic e ne ho potuto godere ancora una volta l'immenso, vorticoso spettacolo. Cameron è un maestro nel gestire le fila di un racconto popolare che non può non arrivare al cuore di chiunque, proprio perché facile ed immediato (proprio come in Avatar). Ma al di là dell'impianto spettacolare ancora oggi stupefacente, il film non avrebbe funzionato senza l'alchimia tra DiCaprio e la Winslet. DiCaprio è ebbro di gioventù, tutto febbrile temperamento e disarmante naiveté, ma il cuore del film restano il personaggio di Rose e la performance dell'attrice, fulcro della focalizzazione narrativa e tramite principale per l'immedesimazione degli spettatori. Da incatenata signora dell'alta società a travolgente eroina melodrammatica che sceglie il proprio destino: una performance fisica imponente, che cavalca romance, drama e disaster movie con estrema disinvoltura e commovente naturalezza. L'Oscar andò ad Helen Hunt per Qualcosa è cambiato. A voi ogni ulteriore commento .

Jim Carrey e Ewan McGregor coppia gay per Pasqua


Presentato al Sundance e a Cannes lo scorso anno I love you Philip Morris di Ficarra&Requa, bizzarra commedia omo con la coppia Jim Carrey - Ewan Mcgregor, esce finalmente in Italia il prossimo week end. Stoltamente ribattezzato dalla distribuzione italiana Colpo di fulmine - Il mago della truffa, il film è stato debitamente (e scandalosamente) ripulito dalle scene più hot tra i due coraggiosissimi protagonisti. Gli stessi tagli erano già stati effettuati per la distribuzione internazionale. Ovviamente il titolo italiano tende a sviare il pubblico vendendo l'aspetto comico del film, piuttosto che quello rocambolescamente romantico e gay. Nonostante questo, Colpo di fulmine resta l'uscita più interessante del week end pasquale e ci restituisce un Jim Carrey in grandissima forma.

Altri titoli interessanti delle feste sono Il piccolo Nicolas e i suoi genitori, gioiellino francese d'annata, e l'apprezzato film d'animazione in 3D Dragon Trainer, già balzato in vetta al box office ma con risultati inferiori alle aspettative. Evitare accuratamente Daddy Sitter, terribile, imbarazzante commedia con le vecchie glorie John Travolta e Robin Williams. E per chi non può fare a meno del cinema italiano, se avete già visto Mine Vaganti, c'è sempre Happy Family di Salvatores.
Più interessanti le uscite post-Pasqua, con il ritorno di Roman Polanski e il thriller L'Uomo nell'ombra, il cartoon in stop motion Fantastic Mr Fox, The Messanger e Agorà.

Eat Pray and Love Julia


Esce il 13 agosto in America (da noi ad ottobre) l'adattamento cinematografico del bestseller Eat Pray Love di Elizabeth Gilbert, la storia di una donna che, dopo il divorzio, intraprende un viaggio alla ricerca di se stessa in tre le tappe: Italia (eat), India (pray) e Bali (love). Al di là del rischio di scivolare in una filosofia new age a buon mercato, non so se è più preoccupante lo schematismo di fondo (prepariamoci alla solita galleria di stereotipi sull'Italia) o il fatto che la storia sia biografica. La regia affidata al Ryan Murphy di Correndo con le forbici in mano (e Nip & Tuck) dovrebbe tenere a freno il grondante sentimentalismo in agguato, ma l'unico motivo per andare a vedere Eat Pray Love è Julia Roberts, in un ruolo a tutto tondo che dovrebbe permetterle di passare dalla commedia al dramma al romance come non le capita ormai da (troppo) tempo. Dopo il parziale fiasco di Duplicity, Julia potrebbe tornare a reclamare il ruolo di regina della commedia romantica scippatole negli ultimi anni da Sandra Bullock. E se lo merita. A parte il magico sorriso e l'insolita bellezza che ha il sapore del cinema da qualsiasi lato la si guardi, Julia è anche brava: rivedere (almeno) le sue performance in Erin Brockovic, Closer e Mary Reilly.
http://www.youtube.com/watch?v=iZzmqHJ0gPU

venerdì 26 marzo 2010

Barbra Streisand, playlist d'amore


Da tre giorni domina incontrastata la mia playlist sull'ipod. Preoccupante mood nostalgico? Di certo il mio ritorno di fiamma per una delle icone assolute della musica e del cinema americano è dovuto ad un'urgenza emotiva: entrare in contatto anche solo per una manciata di minuti (giusto il tempo di una canzone) con la pienezza della vita. Farne esperienza, consumarla. E ricominciare daccapo, goderne di nuovo la bellezza nel suo insieme traboccante di senso. La voce della Streisand, con il suo calore, la sua corposità, la purezza del fraseggio, il filo di voce inarrivabile e le strazianti aperture in belt, ti accompagna in questo viaggio e non ti lascia più. Un viaggio profondo che parte da dentro per poi aprirsi all'esterno con gioia infinita. La sua voce è il viaggio. E' la vita.



The way we were (Come eravamo) è non solo uno dei film del cuore del mio caro amico Jo, ma anche il titolo di una delle canzoni più belle che siano mai state scritte. Ed è naturalmente la potenza espressiva della Streisand che la rende così speciale, nostalgica e struggente. Assieme a Papa can you hear me? dal film Yentl è probabilmente la sua più grande performance vocale. Chiunque veda in questi giorni in metropolitana o per le strade di Roma un deficiente con le cuffie nelle orecchie, l'espressione in equilibrio tra estasi, beatitudine e tormento e gli occhi gonfi di pianto, ebbene quello sono io con la voce della Streisand nel cervello. Meglio di qualsiasi droga.


Subito dopo la straziante preghiera ebraica di Yentl a lume di candela, la playlist impone una sterzata di ritmo e si colora di moderna sensualità pop anni '80 con A woman in love. Ed ecco che il deficiente nerd di prima vince ogni pudore e si mette irrimediabilmente a cantare a squarciagola ovunque si trovi: al supermercato, sulle scale di casa o per le strade che sembrano deserte ma potrebbero nascondere sostenitori di Forza Nuova. Con tutti i rischi che ne conseguono.


Ma con la sensazione della Vita che dalla testa ti attraversa il corpo e riesce ad infonderti almeno un po' della sua energia e della sua forza cosa ha davvero importanza? Nulla, tranne l'amore. Lo dice anche Madonna (Nothing really matters, love is all we need), quindi bisogna crederle.

Per la cronoca dopo la Streisand seguono in playlist One Night Only di Jennifer Hudson e Listen di Beyoncé dal soundtrack di Dreamgirls. Chi non piange a sentire questi pezzi è una pietra. Si conclude con l'immancabile My heart will go on. Sarà mica che mi sono innamorato?

giovedì 25 marzo 2010

Glenn Close torna al cinema


Mentre la terza serie di Damages riscuote un successo (di critica) strepitoso in America (confermo: la prima puntata è davvero mozzafiato) arriva la notizia che Glenn Close tornerà al cinema in un ruolo che profuma di Oscar. Si tratta dell'adattamento cinematografico del dramma The Singular Life of Albert Nobbs, storia di una donna che nella Dublino del XIX secolo si finge uomo per sopravvivere e lavorare come maggiordomo in un hotel di lusso. La Close, che ha già interpretato questo ruolo a teatro vincendo un Obie Award nel 1982, sarà anche sceneggiatrice e produttrice. Dietro la macchina da presa Rodrigo Garcia, che ha diretto l'attrice in Le cose che so di lei e 9 vite di donna. L'inizio delle riprese è previsto per luglio.


Ha vinto tutto Glenn Close: tre Tony Awards (The Real Thing, La morte e la fanciulla, Sunset Boulevard), un Obie (Albert Nobbs), tre Emmys (Serving in Silence, Damages 1 e 2) due Golden Globes (The Lion in Winter, Damages 1) e un Screen Actor Guild (The Lion in Winter). Tutto tranne l'Oscar. Qualche anno fa si era parlato di un'adattamento per il grande schermo del musical Sunset Boulevard: per il ruolo di Norma Desmond si era fatto il nome di Glenn Close e Barbra Streisand. Ma il progetto è stato abbandonato. Dopo i trionfi di Damages, Albert Nobbs potrebbe essere finalmente l'occasione giusta per tornare in gara agli Oscar: se la Close riesce a strappare la sua sesta candidatura è fatta. Patty Hewes non perde mai.

The Best of Nicole Kidman


Da morire (To Die For, 1995): ritratto al vetriolo della provincia americana e delle deformazioni indotte dalla fruizione incontrollata del mezzo televisivo. Nel ruolo di Suzanne Stone, arrivista senza scrupoli disposta a tutto pur di diventare famosa, la Kidman esplode rivelando uno smagliante talento comico e un'eccellente padronanza nel gestire le trasformazioni del personaggio: barbie finto-ingenua, squallida dark lady di provincia, squalo assetato dei quindici minuti di notorietà di warholiana memoria. Performance strabiliante e multistratificata. La Kidman ha tutto: stile, tempi e carisma. Gustosa ed agghiacciante la citazione da Viale del tramonto.


Ritratto di signora (Portrait of a Lady, 1996): splendido incontro di sensibilità artistiche, Henry James, Jane Campion e Nicole Kidman, per uno degli adattamenti letterari più belli degli ultimi vent'anni. L'attrice si spoglia dell'allure hollywoodiana e diventa Isabel Archer, signora dell'ottocento in lotta tra desiderio d'amore (masochistico) ed aspirazione alla libertà. Musica sublime di Wojciek Kilar (lo stesso del Dracula di Coppola, per intenderci). Nessuna scena madre, intensità alle stelle, finale meraviglioso. Per il secondo anno consecutivo è snobbata dalle candidature agli Oscar.


Eyes Wide Shut (1999): dopo il successo in teatro a Londra con The Blue Room diretta da Sam Mendes, è il film della svolta. Nel girotondo imperfetto ma ipnotico e vagamente psicanalitico orchestrato da Kubrick partendo dal Doppio Sogno di Schnitzler la Kidman perfora lo schermo con una performance di erotica, misteriosa complessità. Il monologo in cui confessa al marito il suo sogno di infedeltà vale da solo tutto il film. La profondità visiva di Kubrick e la sua New York notturna e labirintica sono abbaglianti ma è lo sguardo della Kidman che trafigge e resta impresso nella memoria.


The Others (2001): ispirata rivisitazione dell'horror gotico con un turning point alla Sesto Senso. Ma il film di riferimento di Amenabar è Suspence (The Innocents) di Jack Clayton, capolavoro assoluto del 1961. Una casa circondata dalla nebbia, due bambini pallidi e malati, una donna sola ed impressionabile, strane presenze. Cult movie. La Kidman va a scuola di stile da Grace Kelly e Deborah Kerr e sforna la sua performance drammatica per eccellenza. Mirabile.


Moulin Rouge (2001): è il suo anno. Dopo il gotico spagnolo arriva il musical forsennato di Luhrmann e la consacrazione a star del momento. Nel ruolo di Satine la Kidman canta, balla e recita in assoluto stato di grazia, passando con magistrale disinvoltura dal travolgente vaudeville della prima parte al fiammeggiante melo' della seconda. L'obiettivo di Luhrmann la venera come una dea. E forse lo è. I capelli rosso fuoco omaggiano Rita Hayworth in Gilda e la Kidman si conquista un posto al suo fianco fra le grandi seduttrici del cinema. Prima nomination, ma l'Oscar
va ad Halle Berry.


The Hours (2002): l'Oscar riparatorio arriva per il bel film di Stephen Daldry anche se la sua interpretazione è la meno sorprendente e suggestiva delle tre (a parte il trucco ed il consumato trasformismo). La Kidman traduce il genio oscuro della Woolf nel fremito dello sguardo e nella tensione febbrile della mano che percorre il foglio bianco e dà corpo alle visioni. Ammirevole l'asciuttezza drammatica. Ed elettrizzante la scena alla stazione, in cui sembra davvero completamente dentro la parte.


Cold Mountain (2003): classico melo' western di pregevole fattura. Per la prima volta la Kidman sfiora la maniera: l'attrice è troppo avanti con gli anni per essere davvero credibile come oggetto d'amore del giovane disertore Inman e più che il personaggio Ada Monroe vediamo la diva Kidman avvolta da un'aura da star d'altri tempi. Mistcasting a parte, è sempre bellissima ed intensa. Molto bello il momento visionario del presagio funesto in fondo al pozzo e l'incontro dei due amanti nella neve. Ed originale la riflessione sulla natura irreale del desiderio e dell'amore suggerita dal film.


Dogville (2003): la Kidman mette la sua bellezza salvifica nelle mani del folle Von Trier per un impietoso e metaforico pamphlet contro l'America travestito da raffinato studio sul rapporto tra cinema e teatro. Grace è un'altra creatura femminile debole, vessata e sfruttata dalla crudeltà e dall'egoismo degli altri, ma questa volta reagisce in un finale terrificante che capovolge la prospettiva. Prova sublime della Kidman: tecnica eccellente, precisione millimetrica nella gradazione emotiva, cuore pulsante.


Birth (2004): affascinante e kubrickiano studio d'ambienti immerso in atmosfere da horror psicologico. Kidman senza paura in una delle sue performance più complesse e rischiose ama il piccolo Cameron Bright, forse la reincarnazione del suo defunto marito. Estenuante primo piano sul volto dell'attrice impossibile da dimenticare. Sospeso, torbido e disturbante.


Il matrimonio di mia sorella (Margot at the wedding, 2007): commedia velenosa su una famiglia che più disfunzionale non potrebbe essere. Scrittrice antipatica e dalla vita affettiva disastrosa, Margot porta la tempesta in casa della sorella Pauline prossima alle nozze. Autentiche Kidman e Jennifer Jason Leigh ma è il ritratto appuntito e sfaccettato di Margot che catalizza il film e conquista gli spettatori pur nella sgradevolezza e nella crudeltà del personaggio.

In attesa di Rabbit Hole e The Danish Girl quali sono secondo voi i ruoli più belli e le migliori performance di Nicole Kidman?

mercoledì 24 marzo 2010

Il monologo finale di Lea de Lonval in "Cheri"


All'ennesima visione Chéri rivela ormai senza paura la sua anima di tragedia del tempo e di rassegnato canto funebre. Chi non se ne è accorto ed è rimasto fermo alla superficie frivola e solare corra ai ripari. Il fulcro drammatico su cui poggia l'ultimo film di Stephen Frears è lo stesso conflitto che assedia e tormenta Lea de Lonval: una dialettica stringente tra l'eterno "assaggio di giovinezza" legato alla sua professione e all'amore per il giovane (corpo di) Chéri e l'inesorabile affacciarsi della morte. Nel monologo finale di Lea ogni illusione d'amore svanisce alla luce crudele del mattino che rivela l'immaturità di lui e i segni sul volto di lei. Lea ha il coraggio di guardarsi in faccia e di vedere chiaramente la realtà per la prima volta: l'unico amore possibile per due cuori votati al piacere non è destinato ad essere semplicemente perché ormai "è troppo tardi".

Michelle Pfeiffer, nel suo ruolo più bello da L'età dell'innocenza ad oggi, soppesa senza fretta ogni parola e lascia lentamente affiorare l'emozione. E' un momento magico perché l'attrice tocca corde profondissime con assoluta semplicità e limpidezza. Ed anche se il tono è rasserenato, sul fondo strisciano morte ed oblio. Un canto funebre della bellezza. Del personaggio e dell'attrice.


Lea: "Sei venuto per vedermi e hai trovato una donna vecchia. Sì, è così. Hai trovato una vecchia. Non piangere. Perché piangi? Sapessi quanto ti sono grata. Eri davvero innamorato di me? Ero così buona ai tuoi begl'occhi? Se fossi stata così buona avrei fatto di te un uomo, invece di pensare soltanto al tuo piacere e alla mia felicità. Non avrei cercato di tenerti tutto per me. Guardami. Hai ragione. Per le qualità che ti mancano suppongo di essere io la colpevole. Ma trent'anni di vita facile mi hanno resa molto vulnerabile. Quindi no, non ti ho mai parlato di un possibile futuro, perdonami. Ti ho amato come se dovessimo morire da un momento all'altro. Ti ho portato nel mio cuore per così tanto tempo. Avevo dimenticato che un giorno avresti dovuto assumerti la tua parte di carico, una giovane moglie e magari anche dei figli. E così finirai per soffrire. Sentirai la mia mancanza e dovrai trovare dentro di te saggezza, equilibrio e tolleranza per non causare sofferenza agli altri. Sì, è così. Hai avuto un assaggio di giovinezza. Non ti appagherà mai, ma vorrai sempre tornare da lei per averne di più. E' meglio che tu vada. Io ti amo, ma è troppo tardi. Quindi ora vestiti ed esci da questa casa".

Lo sguardo di Lea nel primo piano finale è quello di chi non ha più nessuno da amare e più nulla in cui sperare. Lea non deve prepararsi all'incontro con la morte. Lei è già lì. Nei suoi occhi la vediamo lentamente avvicinarsi.
Inarrivabile Michelle Pfeiffer. Incarnazione della bellezza al pari di Catherine Deneuve o Isabelle Adjani. Ed attrice dal talento incomparabile. Il ruolo di Lea de Lonval non può non richiamare alla memoria la Madame Olenska de L'età dell'innocenza. Non una cortigiana, ma una donna ugualmente scandalosa, con un matrimonio sbagliato alle spalle ed il coraggio di lottare contro le convenzioni sociali. Per amore e per la propria libertà.

Di una bellezza sovrumana l'inquadratura in cui, durante il ricevimento in suo onore dai Van der Luydens, Ellen osa sfidare le regole dei salotti newyorchesi ed abbandona la compagnia di un gentiluomo per andare incontro a Newland Archer. Il carrello, il ralenti e lo splendore della Pfeiffer creano un momento di rara magia. Ellen-Lea-Michelle 16 anni fa, nel pieno della sua sensualità e del suo mistero. Sedici anni dopo lei è sempre immensa. E' il cinema che è diventato troppo piccolo. Forse non ci meritiamo tanta incantevole grazia.

"Shame on you!" - Julianne Moore in Magnolia


"Figlio di puttana...! Maledetto stronzo brutto pezzo di merda... ma chi cazzo sei? Ma chi cazzo ti credi di essere? Io vengo nel tuo negozio, tu che ne sai di me? Non sai chi cazzo sono, come sia la mia vita ed hai la faccia di culo di ficcare il tuo naso sporco di merda nel mio inferno privato? E levati dal cazzo anche tu e non chiamarmi signora! Io arrivo qui, vi dò le mie ricette, voi controllate, fate... fate le vostre telefonate, mi guardate con sospetto, mi chiedete... senza sapere che io sono malata! Tutto ciò che ho di più caro al mondo è malato! E voi mi fate domande sulla mia vita... Stronzi, che cos'ho che non va? Avete mai avuto la morte nel letto? Nella vostra casa? Ma non ce l'avete un po' di decenza? Voi e le vostre domande del cazzo! Che cosa c'è... che non vaaaaaa!!! Stronzo succhiami il cazzo! Ecco che cosa c'è che non va! E tu hai l'ipocrisia di chiamarmi signora? Dovreste vergognarvi! Dovreste vergognarvi! Dovreste vergognarvi tutti e due!"

Linda Partridge (Julianne Moore) in Magnolia di Paul Thomas Anderson

La scena della farmacia è il cuore del torrenziale affresco di dolori, miserie e solitudini losangeline tratteggiato da Anderson in Magnolia e uno dei momenti più alti della carriera di Julianne Moore. L'attrice modella la sua performance sullo stile vigoroso, eccessivo e debordante che il regista imprime al materiale narrativo e si abbandona al dolore (e al turpiloquio) del suo personaggio come non ha mai fatto prima. E' come se la sofferenza trattenuta, la rabbia inespressa e la frustrazione latente di tutti gli altri suoi personaggi rompessero gli argini e trovassero finalmente una via d'uscita in questa performance.

Sublime quando lavora sulle sfumature, sulla negazione del sé e sui conflitti interiori, in Magnolia la Moore cambia registro ed abbraccia il dramma nel senso più totale/teatrale del termine, rischiando patetismo ed over-acting. Mantenere una tensione ed un livello emotivo esterno così alto per due ore di pellicola è impossibile (ci proverà in Freedomland-Il colore del crimine, nel quale senza alcuna direzione registica sbanda come un cavallo di razza lasciato allo sbaraglio). Ed infatti il ritratto di Linda funziona proprio perché schizzato in poche scene che vanno ad incastrarsi in quel mosaico musicale di vite distrutte orchestrato da Anderson con tanta generosità e acume drammaturgico.

Se il personaggio è una scheggia impazzita, l'attrice non perde mai (davvero) il controllo. Con quello sguardo obliquo e quella tensione nervosa che esplode in modo deflagrante e definitivo, Julianne Moore vampirizza l'obiettivo della macchina da presa. E conquista gli spettatori. Il risultato è memorabile: una performance irripetibile e straziante.

martedì 23 marzo 2010

Delizioso Petit Nicolas


Tratto dai racconti illustrati Le Petit Nicolas apparsi per la prima volta nel 1959 e diventati un classico della letteratura francese per ragazzi al pari del nostro Gianburrasca, Il piccolo Nicolas e i suoi genitori esce nei cinema italiani il 2 aprile dopo lo straordinario successo in Francia.

Si ride, si sogna e si respira una bella boccata di aria fresca in questo piccolo film. Il merito è tutto del regista e sceneggiatore Laurent Tirard che con acume e sensibilità è riuscito a trasferire sullo schermo la poesia e l'umorismo delle vignette originali (nate dalla fantasie dell'autore René Goscinny e dell'illustratore Jean-Jacques Sempé) ed ha guidato un cast di attori-bambini irresistibili. Con le sue atmosfere retrò, i suoi buffi personaggi (la banda di amici del piccolo Nicolas è impagabile, soprattutto il secchione Agnan e il miliardario Geoffroy con un debole per i travestimenti) e le non poche trovate originali sia narrative che visive, Il Piccolo Nicolas non può che conquistare gli spettatori di ogni età.

La nostalgia per un tempo in cui tutto è bello e possibile è dietro l'angolo. Ed è questa la carta vincente del film: la rappresentazione di un mondo visto ad altezza di bambino. Un mondo fiabesco, illusorio e perfetto, dove non c'è posto per il realismo. "La mia vita è così bella che non voglio assolutamente che cambi", dice Nicolas all'inizio del film. Ed è così che tutti ricordiamo la nostra infanzia. Film garbato e gentile che non esita ad affrontare anche temi oscuri ma lo fa senza traumi e scossoni, Il piccolo Nicolas dà vita a (belle) immagini che ci raccontano e ci ricordano il senso del gioco, la fantasia sfrenata, il gusto dell'avventura e la cattiveria dell'infanzia. Come eravamo o come avremmo voluto che sia? Non importa, ma sfido chiunque, grande o piccolo, a non riconoscersi almeno in uno di questi adorabili personaggi.
Voto: 7

domenica 21 marzo 2010

Mikado distribuisce "Agorà"


Il più grande sforzo produttivo nella storia del cinema spagnolo (50 milioni di euro di budget) e campione d'incasso in patria nel 2009 con oltre 20 milioni di euro al botteghino. Dopo la presentazione a Cannes lo scorso maggio e le pressioni per impedirne l'uscita in Italia da parte dell'Osservatorio Religioso secondo cui il film rafforzerebbe "falsi cliché sulla chiesa cattolica" e promuoverebbe "l'odio verso i cristiani", Agorà di Alejandro Amenabar è stato avventurosamente acquistato da Mikado e sarà distribuito da venerdì 30 aprile.


La ragione per cui Agorà faccia tanta paura alla chiesa è facile intuirla: la storia di Ipazia di Alessandria (Rachel Weisz), astronoma e filosofa trucidata dai cristiani nel 415 d.c., è uno dei capitoli più oscuri ed ignobili della storia del cristianesimo nella sua folle rincorsa a consolidare il potere (politico). Il fatto che questo film abbia finalmente trovato una strada per circolare anche in Italia è di per sé una vittoria.


Questi sono solo alcuni dei bellissimi poster realizzati per il lancio promozionale.
Ancora incerta la distribuzione americana. L'accoglienza a Cannes è stata positiva ma non entusiastica ma, al di là del coté da kolossal hollywoodiano, onore ad Amenabar per aver avuto il coraggio di portare sullo schermo la vita di questa misconosciuta paladina della libertà del pensiero scientifico contro l'oscurantismo religioso. Senza contare che la presenza di Rachel Weisz dovrebbe assicurare al dramma storico un fulcro umano di palpitante intensità.

Gekko a Cannes?


In attesa che Solitary Man sia distribuito il 7 maggio in America (le voci a Toronto parlavano di un vero tour de force recitativo), Michael Douglas torna a vestire i panni dello spietato broker Gordon Gekko nel seguito di Wall Street, film del 1987 sugli squali del mondo della finanza che gli valse l'Oscar come attore protagonista. Davanti alla macchina da presa di Oliver Stone un cast all star, formato dagli astri nascenti Shia LaBeouf e Carey Mullgan, e dai veterani Susan Sarandon, Josh Brolin, Frank Langella, Charlie Sheen. Si annuncia un grande anno per Douglas, dopo un periodo di appannamento (dovuto all'ingombrante ambizione della moglie Zeta-Jones?): Wall Street 2 - Money Never Sleeps sarebbe dovuto uscire ad aprile in tutto il mondo, ma la Fox ha pensato bene di rimandare l'uscita al 24 settembre e di puntare su un passaggio al prossimo Festival di Cannes. Speriamo che Stone abbia rinunciato alla pomposa grandeur di Alexander e World Trade Center ed abbia ritrovato lo smalto, la cattiveria e l'asciuttezza degli anni '80.

L'arrischiato e vacuo estetismo di "Io sono l'amore"


Ambiziosissimo ritratto di una famiglia dell'alta borghesia industriale milanese, Io sono l'amore è stupefacente dal punto di vista stilistico ma inconsistente nella scrittura dei caratteri e nello sviluppo narrativo. La disparità tra la vacuità del racconto e lo spessore della componente visiva è tanto stridente che lascia il dubbio di una scelta precisa, ma l'estrema ricercatezza stilistica non sorretta da un'adeguata struttura diegetica rischia lo sfoggio fine a se stesso.

L'approccio estetizzante di Luca Guadagnino, autore anche della sceneggiatura, parte sin dai titoli di testa che ricalcano il cinema degli anni '50 e '60 (alla Lontano dal paradiso, per intenderci), con le splendide immagini di una Milano innevata e sospesa e la colonna sonora operistica di John Adams. Subito dopo il regista inizia a muovere la macchina da presa con eleganza consumata e un'arrischiata varietà di soluzioni stilistiche (sinuosi carrelli, fuori fuoco, angolazioni dall'alto, dettagli, montaggio poetico) all'interno dell'immensa casa dei Recchi, riuniti intorno ad una gelida e lussuosa tavolata in occasione del compleanno del nonno-patriarca . Nel riprendere con estrema perizia l'andirivieni di domestici e portate e gli intrecci di sguardi fra gli astanti, Guadagnino cita Visconti (Gruppo di famiglia in un interno) e Scorsese (L'età dell'innocenza) e ci restituisce un microcosmo socio-familiare credibile ed inquietante.


A poco a poco però lo stile sfolgorante si rivela eccessivo rispetto al materiale narrativo e alle motivazioni psicologiche dei personaggi e il film mostra presto la corda di un gioco superficiale, decadente e affascinante, ma anche piuttosto irritante. Poco o niente ci è dato di sapere di questi personaggi, piatte ed ingessate figure su sfondi architettonici (gli esterni a Milano e Sanremo, inquadrati con un fin troppo esibito gusto artistico). Guadagnino punta altissimo, gira come se aspirasse all'opera lirica, al melodramma o al thriller dei sentimenti, e in alcune sequenze fa centro: nella bellissima scena d'amore tra Emma ed Antonio immersi nel paradisiaco rifugio montano lo spettatore si trova di fronte ad un film muto non-narrativo, quasi un'opera d'arte sperimentale. Viene il dubbio che senza dialoghi ed opportunamente accorciato Io sono l'amore potrebbe essere un capolavoro. Così, è invece il debordante ed ingenuo esercizio di un autore che sperimenta e mette in campo tutte le proprie carte con malcelata presunzione.


All'inizio apparentemente integrata nell'algido universo dei Recchi, Emma, moglie e madre perfetta ma dallo sguardo inquieto e dall'identità vaga, è risvegliata nei sensi dal fascino selvaggio del cuoco Antonio e ritrova se stessa e l'amore nella fuga dalla cattedrale di famiglia. L'assunto di fondo (la scoperta di sé nella natura e nella rinuncia alle sovrastrutture) fa molto vecchio cinema anni '70, ed anche il ricalco postmoderno di stilemi retro' risulta gratuito proprio perché non sostenuto da alcuna intenzione di parlarci della contemporaneità. Il risultato è un affresco impressionista bellissimo da vedere ma assolutamente privo di una qualsiasi urgenza.

Impegnata a recitare in italiano con accento russo e a dare spessore ad un ruolo che lo script liquida in poche righe, Tilda Swinton è al solito sublime: anche se usata soltanto a livello iconico, tra primi piani, pose e carrelli che le volteggiano intorno al limite del vampirismo e della pornografia, riesce a suggerire e a convogliare tutta una tavolozza di emozioni soltanto con lo sguardo.
voto: 5

sabato 20 marzo 2010

La fiction più pazza della tv


Il battage pubblicitario è iniziato un mese fa a Sanremo sul palco dell'Ariston, con il cast al completo impegnato in una travolgente coreografia in stile Bollywood. L'attesa termina domenica sera quando verranno trasmesse su Rai 1 le prime due puntate della nuova serie di Tutti Pazzi Per Amore. State certi che sarà una partenza col botto. Alla proiezione in anteprima dei primi episodi al cinema Warner a Roma giovedi sera mancavano solo Neri Marcorè ed Alessio Boni. Gli altri c'erano tutti, da Emilio Solfrizzi ad Antonia Liskova, la strepitosa Carlotta Natoli, Sonia Bergamasco, Francesca Inaudi, Irene Ferri, Piera degli Esposti, Nicole Murgia, il regista Riccardo Milani e il geniale sceneggiatore Ivan Cotroneo. Su loudvision i miei primi commenti sulla travolgente apertura della nuova stagione. Ma non preoccupatevi: nessuno spoiler, per non rovinare la sorpresa.
http://www.loudvision.it/rubriche-tutti-pazzi-per-amore-2-comicita-e-musica--708.html

mercoledì 17 marzo 2010

Meryl regina della commedia


Infallibile Meryl Streep. Ormai non sbaglia più un colpo. Anche se le capita di finire in un film mediocre (vedi Mamma Mia!) riesce comunque a risollevarlo con la sua carismatica presenza e la sua incontenibile energia. Non possiamo che augurarci che questa stagione divina continui ancora a lungo. Dopo il successo in America (108 milioni di dollari d'incasso), arriva finalmente sui nostri schermi la deliziosa commedia di Nancy Meyers E' complicato, con un Alec Baldwin in forma smagliante ed un tenerissimo Steve Martin.


La mia recensione è su Loudvision al link:
http://www.loudvision.it/cinema-film-e-complicato--983.html

Venerdì 19 escono anche il capolavoro di Jacques Audiard Il Profeta e l'affascinante Io sono l'amore di Luca Guadagnino con Tilda Swinton. Tre film da non perdere.

martedì 16 marzo 2010

Getting Closer

Corsivo
"Can't take my eyes off of you"

Natalie Portman in Closer (2004) di Mike Nichols