lunedì 2 novembre 2009

Julianne Moore e la cultura gay


Nell'estate del 2008, Savage Grace fu distribuito in Italia dopo essere rimasto per un anno nei cassetti polverosi della Bim. Andai a vederlo al cinema due volte: fui talmente folgorato dalla feroce e disperata performance di Julianne Moore, che ammetto di non aver degnato il film di uno sguardo. Di una cosa ero certo: tornata finalmente ad un ruolo degno del suo talento dopo cinque anni under the radar, Julianne si confermava ai miei occhi (e al mio cuore) non solo l'attrice più audace del nostro tempo (insieme ad Isabelle Huppert), ma una sublime e sofisticata icona del cinema queer.

In Savage Grace Julianne Moore interpreta Barbara Bakeland, una donna profondamente disturbata che, letteralmente, non si ferma dinanzi a nulla: adulterio, menage a trois, suicidio, incesto. Qualsiasi attrice avrebbe rifiutato un materiale talmente incandescente ma Julianne, da sempre attratta dai lati oscuri dell'anima e dai risvolti psicosessuali delle personalità (si pensi ad Amber Waves in Boogie Nights), interpreta il ruolo con tale compassione, da suggerire soltanto con una risata o uno sguardo tutto il male di vivere e la disperazione del suo personaggio. Nella scena all'aereoporto, elettrizzante quanto quella dell'esaurimento nervoso in farmacia in Magnolia, l'attrice divora tutto e tutti e sanguina lei stessa (come suggerisce il vestito rosso); o quando chiede al figlio di medicarle i polsi, i suoi sguardi dolci e perversi hanno un che di spaventoso e non-detto da trafiggere in modo assolutamente disturbante.

Peccato che Tom Kalin alla regia non abbia altrettanta forza : la divisione in capitoli e la morbidezza del suo sguardo distanziano lo spettatore, situazioni e personaggi scivolano via in modo sfocato ed irrisolto, e quel che rimane è una sensazione di freddezza insieme al sospetto di vacuo ed inerte esercizio calligrafico.

Tuttavia il modo in cui la cinepresa insegue ed inquadra Julianne Moore è assolutamente queer: pura adorazione della femminilità, senza alcun meccanismo di controllo o assoggettamento dell'immagine. Non c'è desiderio sessuale nello sguardo registico ma venerazione ed emulazione, oltre che vicinanza nel sentimento del dolore da una prospettiva tutta femminile.
La cultura queer è da sempre attratta da figure femminili aggressive e, se vogliamo, mostruose: Bette Davis e Joan Crawford sono adorate dai gay per aver interpretato ruoli di donne terribili, eccessive e "falliche", così come in parte anche Glenn Close. Per non parlare di Madonna. Si tratta di un meccanismo identificatorio che parte dall'esigenza di accogliere il femminile in sé, avvicinandolo nelle sue incarnazioni più forti e "attive". Una volta che si è riconosciuto il proprio mondo interiore come definito da una compresenza di maschile e femminile, si cercano dei riferimenti nel mondo esterno, nell'arte, nella musica, nel cinema. In questo modo si costruiscono le identità individuali queer anche e soprattutto sulle figure culturali circostanti, che diventano così dei modelli, delle icone. Bette Davis, Joan Crawford e le altre terribili virago del cinema funzionano perfettamente come figure interlocutorie in questa ricerca di riferimenti, di una corrispondenza tra interno ed esterno. Sono immagini di donna talmente potenti da risultare mascoline, figure di travestiti che, riconosciute come modelli "forti" trascendono la definizione di femminile come "mancanza" e vanno a colmare perfettamente il vuoto identitario gay.

Accanto a loro, ci sono le figure tragiche come Judy Garland, assurte al grado di icone per altre ragioni: nella loro tragica esperienza di vita, lo spettatore gay proietta la propria solitudine e vede riflessa la propria sofferenza. Credo che l'immagine cinematografica di Julianne Moore abbia in qualche modo a che fare con questo aspetto: una rappresentazione della miseria e dell'angoscia esistenziale, del conflitto interiore in cui lo spettatore gay si riconosce e si identifica in modo immediato. Per questo tanti autori gay sono attratti da Julianne Moore e dalle sue qualità: primo fra tutti Todd Haynes che l'ha diretta in Safe e Far From Heaven, ma anche Tom Kalin e, ultimo in ordine di tempo, Tom Ford (A Single Man).

Nel corso di un intervista in occasione della presentazione del suo ultimo film Chloe diretto da Atom Egoyan al London Film Festival, Julianne Moore ha espresso personalmente una sua teoria riguardo al suo status di icona gay e al suo frequente partecipare a progetti diretti da registi omosessuali. Al giornalista che la intervistava ed ironizzava sul fatto che i registi gay con cui aveva lavorato si chiamassero tutti Tom o Todd, Julianne ha commentato sorridendo: "O Stephen!" (Daldry, il regista di The Hours). Parafrasando il pensiero dell'attrice, la ragione per cui è tanto amata da autori e pubblico gay sarebbe perché in molti dei suoi film c'è "un elemento molto drammatico ed umano", quel "senso di non appartenenza dei suoi personaggi, di inadeguatezza". Essi sentono di "voler venire a galla". In termini di esperienza omosessuale "molte persone crescono sentendosi invisibili" e, di conseguenza, "si riconoscono in quell'attore o in quel personaggio che esprime sulla scena quello che loro sentono".

Come aveva già espresso, quindi, "gli spettatori non vengono per vedere te, vengono per vedere loro stessi". Il cinema è quindi una finestra, uno specchio sul mondo e su sé stessi. In Julianne Moore il pubblico gay veda appagato il proprio urgente bisogno di identificazione riguardo a quel groviglio inestricabile di sentimenti ed emozioni che, sepolti, trattenuti o negati, non hanno modo di uscire e di esprimersi. E questo conflitto interiore, spesso perso in partenza, si trasforma in quel senso di non-essere, vuoto e mancanza così finemente espresso in Carol, Laura, Cathy, Linda, Amber e nelle altre dolenti creazioni dell'attrice americana.

1 commento:

  1. ...non solo "il cinema è una finestra sul mondo e su se stessi", ma forse per essere ancora più precisi e spaesanti il sé, parafrasando Calvino, non può essere altro che una finestra tra il mondo di dentro e il mondo di fuori, una finestra attraverso cui il mondo vede se stesso...

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