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martedì 19 marzo 2013

Dove eravamo rimasti



          Some things we lost in the middle (a brief walk through the last three years)

Dal 2010 al 2012 gli Oscar hanno visto trionfare i gradevoli ma normativi The King's Speech, The Artist e Argo, ma scelte decisamente migliori sarebbero state The Social Network, The Tree of Life e Zero Dark Thirty
Annette Bening è rimasta per la quarta volta a bocca asciutta ma almeno la prova di Nathalie Portman  nel turbinoso Black Swan era davvero eccezionale (anche per merito del buon Darren).


L'immarcescibile Meryl Streep si è finalmente portata a casa il tanto sospirato terzo Oscar per una grande performance, certo, ma imprigionata in un film tremendo. E, la povera Glenn Close col suo dolente Albert Nobbs è arrivata ad eguagliare il record di Deborah Kerr e Thelma Ritter: sei nomination e zero statuette.
Ancor peggio è andata a Julianne Moore, adorabile troublemaker in The Kids Are All Right, alla metafisica Tilda Swinton di We Need To Talk About Kevin, a Charlize Theron, affilata e geniale in Young Adult, all'aspra, fiera Marion Cotillard di Rust and Bone e alla sublime Rachel Weisz di The Deep Blue Sea: tutte performance eccezionali, ignobilmente snobbate.
Nel frattempo la divina Cate Blanchett si è rinchiusa nel teatro di Sidney ed ha diradato le sue apparizioni sullo schermo. Ma presto la vedremo nei nuovi film di Woody Allen e George Clooney.


Nicole Kidman, dopo aver inanellato una serie sterminata di flop, è tornata a rifulgere prima in Rabbit Hole e poi nello sfrontato, oltraggioso e dannatamente divertente The Paperboy.
Carey Mulligan ha confermato il suo talento drammatico in Shame e Drive e quest'anno l'attendiamo al varco de Il Grande Gatsby e del nuovo film dei Coen.
Jennifer Lawrence è deflagrata, prima al box office con The Hunger Games e poi agli Oscar col sopravvalutatissimo Silver Linings Playbook, scippando la statuetta alle ben più meritevoli Emmanuelle Riva e Jessica Chastain.


La Chastain è infatti la vera rivelazione degli ultimi due anni ma la più brava tra le nuove leve resta ancora Michelle Williams: da Blue Valentine a Meek's Cutoff, da My Week with Marylin a Take This Waltz, nessuna riesce ad essere così intensa e naturale, senza affettazioni o manierismi.
Blue Valentine è uno dei cult movie del decennio ed ha definitivamente lanciato Ryan Gosling nella stratosfera. Posto che condivide con Michael Fassbender, immenso in Shame e Jane Eyre e unica vera ragione per addentrarsi in Prometheus.


E i film? Bellissime sorprese sono state il delicato Beginners col terzetto McGregor-Laurent-Plummer, l'irriverente Bridesmaids (sorprendente, malinconico film sulla depressione abilmente mascherato da commedia) e, da poco uscito anche in Italia, il bellissimo The Perks Of Being A Wallflower (Noi siamo infinito). E i capolavori assoluti The Tree of Life, A Separation, Amour, Moonrise Kingdom e la prima metà di The Master. Ma il mio cuore ha battuto soprattutto per il crudele ritratto di Young Adult, la discesa agli inferi di Shame e il romanticismo tempestoso di Jane Eyre, il lancinante melo' Rust and Bone con la memorabile coppia Cotillard-Schonaerts e i cromatismi psicologici di Take This Waltz.

Quanto alla tv, la ferale Patty Hewes di Glenn Close ci ha definitivamente lasciati con la chiusura di Damages, le crinoline british di Downton Abbey hanno fatto il pieno di ascolti e gli intrecci psico-fanta-spio-politici di Homeland hanno conquistato tutti i premi possibili. E meritatamente, perché si tratta di una delle serie migliori dello schermo anche grazie alle prove di Claire Danes e Damian Lewis.


Kate Winslet si è tenuta in disparte dopo l'Oscar per The Reader ma non prima di aver fatto i fuochi d'artificio con Mildred Pierce, miniserie capolavoro diretto dal genio di Todd Haynes, in cui dà  ulteriormente prova della sua generosità senza limiti. E Julianne Moore ha finalmente agganciato il ruolo giusto, Sarah Palin in Game Change, per raggranellare i primi premi importanti (Emmy, SAG e Golden Globe) dopo  20 anni di carriera. L'Oscar non dovrebbe essere tanto lontano.


Best Actress Confidential is back.

mercoledì 19 maggio 2010

Retrospettiva Blanchett, closing titles


Della sua nutrita filmografia mi mancano ancora da vedere il dramma bellico Paradise Road, il fallimentare western The Missing (quando si dice "mettersi alla prova in tutti i generi a disposizione") e il pastiche Le avventure acquatiche di Steve Zissou. Titoli – credo – sorvolabili in quanto ad importanza nella carriera della diva. Non sono riuscito a rivedere invece Falso tracciato (se ho buona memoria notevolissima commedia con interpreti affiatati: Thornton, Cusack, Jolie), L’uomo che pianse (irrisolto melo’ che spreca un buon cast: Depp, Ricci, Turturro) e i dimenticabili Charlotte Grey (re-union Armstrong/Blanchett) e The Shipping News (Hallstrom al suo peggio, meramente illustrativo). Dichiaro quindi conclusa la mia retrospettiva sulla Blanchett.
A giochi fatti le mie cinque interpretazioni preferite sono le seguenti. E le vostre?

1. Diario di uno scandalo
2. I'm not there
3. Bandits
4. Heaven
5. The Gift

Alla prossima retrospettiva!

Miscellaneous Cate: Babel, Ripley, The Gift e altri


Babel (2006)
Nel mosaico caleidoscopico di Inarritu il segmento in Marocco con le star hollywoodiane Cate Blanchett e Brad Pitt è il meno incisivo, anche se il regista si sforza di sottrarre ogni allure divistica dalla loro immagine. Cate è comunque in uno stato di grazia (il 2006 è anche l’anno di Intrigo a Berlino e Notes) e la sua dolente figura di moglie occidentale insoddisfatta, infelice e letteralmente ferita a morte vale molto di più dell’espressione contrita e delle rughe (finte?) di Brad Pitt. Prove generali di alchimia pre-Benjamin Button.



Little Fish (2005)
Piccolo thriller australiano dall’atmosfera liquida e sospesa. Cate è una credibilissima ex-tossicodipendente in una trama di complessi rapporti familiari ed affettivi. Interessante e molto ben interpretato, ma il finale delude non poco.


The Gift (2000)
E’ il primo titolo in cui ho davvero apprezzato il talento dell’attrice australiana. Horror psicologico senza effettismi e colpi bassi, ambientato nel torrido e sonnolento sud e con una bella galleria di personaggi (su tutti il disturbatissimo Giovanni Ribisi, che tornerà a far splendida coppia con la Blanchett in Heaven). Nel ruolo della sensitiva Annie, Cate vibra di (in)credibile terrore per il suo dono esoterico e per il crudele maschilismo di una comunità che la taccia di stregoneria ma ricorre a lei per curare i suoi mali. Annie è strumento della verità, interpreta i segnali dei sogni e dei tarocchi senza reagire ai soprusi, affronta l’orrore e la cattiveria degli altri a testa bassa ed è l’unico baluardo dell’amore per gli altri e dell’importanza dell’ascolto e della comprensione in un mondo dominato dalla violenza.


Il talento di Mr Ripley (1999)
Noir d’annata con cast da capogiro: Matt Damon luciferino e dannato, Jude Law irresistibile e magnetico, Philip Seymour Hoffman strepitoso, Gwyneth Paltrow dolce e patetica. La Meredith di Cate Blanchett, frivola e spensierata ragazza americana di buona famiglia in libera uscita nel belpaese, è il comic relief di questo soleggiato e cartolinesco incubo italiano diretto da Anthony Minghella. In poche sequenze l’attrice schizza un bellissimo ritratto e ruba la scena alla Paltrow, costretta nel tragico (e scontato) ruolo della fidanzata abbandonata. Pagine di grande cinema: l’inizio con la ninna nanna per Caino intonata da Sinead O’ Connor; l’omicidio di Dickie in mezzo al mare sotto la luce accecante del sole; il tesissimo dialogo tra il sospettoso Freddie Miles e Tom Ripley nell’appartamento di Dickie a Roma; il finale senza speranza.


Oscar e Lucinda (1997)
In perfetta sintonia con l’altrettanto pallido ed intenso Ralph Fiennes, Cate è Lucinda, un’indipendente e scandalosa ereditiera con la mania del gioco d’azzardo, il gusto per gli affari e il sogno di costruire una chiesa di vetro. Primo ruolo da protagonista: Cate è radiosa ed attrice già matura. Bei paesaggi e una sensibilità tutta femminile dietro la macchina da presa (Gillian Armstrong, autrice del delicato Piccole donne con Winona Ryder)

lunedì 17 maggio 2010

Ascesa e regno di Elizabeth


Nascita e consacrazione di una star. Il primo Elizabeth è, tutto sommato, uno spettacolo decoroso: la grandeur di Shekhar Kapur è ancora piuttosto a freno e la performance di Cate Blanchett ha una luminosa freschezza e una regale dignità. Allora semi-sconosciuta, ma con all'attivo titoli come Paradise Road e Oscar e Lucinda, la Blanchett rivela la stoffa dell'interprete consumata già pienamente consapevole dei propri mezzi. Il suo nobile pallore e il primo piano che chiude il film sono memorabili. Il senso del dramma di Kapur è smisurato (e non è un bene) ma l'intreccio di cupezza, ferocia shakespeariana, rielaborazione romanzesca e aspirazioni artistiche ha un che di decadente cui si cede volentieri (e alcune soluzioni visive sono molto belle: l'annunciazione ai piedi del grande albero e l'incoronazione vibrano di un ispirato pittoricismo). Purtroppo i cattivi sono troppo "cattivi": la tormentata Mary Tudor di Kathy Burke è francamente terribile e Christopher Eccleston non è da meno.


Altro problema è Joseph Fiennes, sempre in zona Shakespeare in Love: con i suoi occhioni dolci è facile in alcuni momenti fare confusione col film di John Madden. Nell'articolazione della storia d'amore il film fa acqua da tutte le parti, e la stessa scarsa credibilità si riscontra anche nel rapporto con l'avventuriero Clive Owen in Elizabeth - The Golden Age (rapporto reso ancora più romanzato dal triangolo con la dama di corte Abbie Cornish). Un'alchimia poco convincente dovuta alla freddezza regale dell'immagine proiettata dall'attrice e all'eccessivo spazio riservato all'elemento sentimentale e melodrammatico rispetto alla ricostruzione storiografica.


Nel secondo Elizabeth, nove anni dopo, la Blanchett troneggia da vera regina della scena, tratteggiando un ritratto a tutto tondo in cui le è permesso di cavalcare tutte le emozioni umane possibili ed immaginabili. Fin troppo, verrebbe da dire. Nel corso dello stesso film è sovrana, amante infelice, guerriera e altro ancora. I poveri comprimari Rush e Owen sono praticamente soffocati dallo spazio concesso alla star. La scena in cui Cate urla contro l'ambasciatore spagnolo "Io posso anche comandare il vento! C'è un uragano dentro di me che raderà al suolo la Spagna se solo oserete sfidarmi!" è davvero potente, degna di Bette Davis o Katharine Hepburn, una clip destinata a comparire in tutti i futuri slideshow celebrativi dell'attrice. Ma nel complesso il ritratto della regina è così variegato e multiforme da risultare, per assurdo, poco incisivo. Nel piccolissimo ruolo di Maria Stuarda Samantha Morton è molto più convincente e finisce con rubare la scena praticamente senza fare nulla. Il momento della decapitazione è il più bello e drammatico del film: l'immobile intensità della Morton, la sua sottiile perversione sono elettrizzanti e funzionano molto di più del dimenarsi della Blanchett richiesto dalle innumerevoli trasformazioni dello script.


Ma non è l'unica nota dolente del film. Shekhar Kapur non andava per il sottile nemmeno nel primo Elizabeth, ma qui si lascia davvero prendere la mano dai toni cupi e foschi, dalla musica roboante, dall'insistenza con cui rotea con la macchina da presa intorno alla diva (troppo attento a registrare ogni suo cambiamento di espressione), da un pittoricismo stucchevole, da un gusto discutibile per le inquadrature bizzarre, gli estenuanti fuori fuoco ed altri effetti che fanno tanto "film artistico". Ma ancor di più il film fallisce nella rappresentazione dei due aspetti della vita della regina, quello pubblico e quello privato, che restano giustapposti senza mai fondersi in modo organico. Ne esce un fumettone cinquecentesco, sfarzoso, volgare, gratuitamente truculento. Una soap opera hollywoodiana imparruccata, in cui ogni inquadratura, ogni momento di sfrenato barocchismo è una glorificazione dell'attrice protagonista.


E forse è proprio questa la giusta modalità di approccio ad un (brutto) film come Elizabeth 2 (La vendetta?): più che un film, uno showcase per la Blanchett, un'occasione per lei di risplendere e per noi spettatori di vedere il suo ormai riconosciuto e universalmente consacrato mestiere all'opera.

Voto: 5 (6 Elizabeth e 4 Elizabeth - The Golden Age)

sabato 15 maggio 2010

Giorno di riposo con Kate e Patrick


Giorno di riposo. Domani in arrivo news dal Festival di Cannes sui film di Oliver Stone, Woody Allen e Mike Leigh. La rassegna su Cate Blanchett prosegue con gli ultimi post sul ruolo che l'ha resa famosa e consacrata star, Elizabeth, e sulla miriade di altri film che non ho finora affrontato: Little Fish, Mr Ripley, The Gift, Oscar & Lucinda, Babel...
In programma nei prossimi giorni anche Correndo con le forbici in mano, rivisto di recente, con una favolosa Annette Bening (nelle prossime settimane salirà la febbre per The Kids Are All Right) e Il mondo secondo Garp, esordio al cinema della mia amata Glenn Close.
Finalmente oggi ho visto Little Children, con l'altra grande Kate (Winslet, nella foto con Patrick Wilson). Bel film, grandi interpretazioni, regia eccellente. Devo solo decidere se dedicare un post al film di Todd Field o inaugurare al più presto una rassegna dedicata alla Winslet, non appena quella della Blanchett sarà terminata. Voi cosa ne pensate?

venerdì 14 maggio 2010

Robin Hood, un prologo noioso e frustrante


Fastidio e noia. Non c'è nulla che funzioni davvero in questa nuova versione delle avventure di Robin di Longstride nei 140 minuti inutilmente accumulati da Ridley Scott. Nulla, a parte i bellissimi titoli di coda, la puntuale, accurata ricostruzione storico/scenografica (ma trovandoci di fronte ad un film ad alto budget, è il minimo) e l'atmosfera grigia cupa ed opprimente da dramma shakespeariano d'annata. Quest'ultima forse fin troppo accentuata, al limite dell'enfasi tronfia e pesante. Ma l'accoppiata Scott-Crowe non ha mai avuto la mano leggera.

Tra battaglie e saccheggi, intrighi a palazzo, corteggiamenti svogliati, flashback che si vorrebbero rivelatori ma suonano posticci e una marea di attori impegnati (si fa per dire) quel tanto che basta per portare a casa lo stipendio milionario, i 140 minuti scorrono senza divertimento e senza emozione per i poveri spettatori. La trovata del film è quella di narrare (anzi, inventare)l'antefatto storico che precede la nascita della leggenda di Robin Hood. Un prequel in piena regola quindi, che finisce proprio dove gli altri film (e, ahimè, anche l'interesse del pubblico) cominciano e si apre la strada ad un probabile sequel. Che, data la gelida accoglienza della critica (45% di recensioni positive su rottentomatoes), è quanto mai incerto. Vedremo come risponderà il pubblico. Ma credo che preferirà di gran lunga l'action a colori di Iron Man 2.


Trovarsi di fronte ad un interminabile prologo è a dir poco frustrante. Che senso ha un film fatto senza urgenza e senza ispirazione? Capisco la necessità di raccontare qualcosa di diverso e di nuovo rispetto a quanto detto (e visto) in passato, ma almeno bisognava sforzarsi un po' di più per rendere il racconto interessante e suggestivo. Invece tutto è stereotipato, già visto, finto e senza passione. Nemmeno gli attori funzionano e salvano il film dal disastro: troppi personaggi e uno script che non dà a nessuno il materiale sufficiente su cui lavorare. Dirò una banalità ma sin dall'inizio è evidente quanto Russell Crowe sia troppo maturo e fuori parte per interpretare Robin Hood. Ed è insopportabile con la sua unica espressione corrugata e pensosa. E ridicolo nella variante animalesca e selvaggia (tipo quando esce urlante dall'acqua nella scena della battaglia sulla spiaggia, una sequenza fin troppo ricalcata sullo sbarco in Normandia di Salvate il soldato Ryan).

Quanto a Cate Blanchett, è sempre bellissima e l'aggiornamento del personaggio di Lady Marion da damsel in distress a signora fiera ed indipendente è interessante. Ma lo sviluppo della love story con Robin Hood è prevedibile (e soltanto abbozzato), la chimica tra le due star assolutamente inesistente e l'apparizione nelle vesti di guerriera simil-Giovanna d'Arco nella sequenza della battaglia finale è a dir poco fuori luogo ed imbarazzante.

Voto: 4

mercoledì 12 maggio 2010

Stelle d'Australia sulla croisette


Ai nastri di partenza oggi la 63esima edizione del Festival del Cinema di Cannes. Si apre con l'anteprima mondiale di Robin Hood, con le star australiane Cate Blanchett e Russell Crowe attese stasera sulla Croisette.Il film di Ridley Scott, già molto discusso per la sua rilettura revisionista della leggenda dell'arciere di Sherwood, esce oggi in Italia e il 14 in tutto il mondo. Dovrei riuscire a vederlo domani e già fremo per la Lady Marion della Blanchett, trasformata da damigella romantica in risoluta guerriera.


Rispetto al programma reso noto a metà aprile, si è aggiunto in concorso Abbas Kiarostami con il suo Copia Conforme interpretato da Juliette Binoche. Ma il mio interesse pre-festivaliero, come già ho accennato nel mio primo post su Cannes il mese scorso, è tutto per Stephen Frears, Oliver Stone e Woody Allen (fuori concorso), e per Biutiful di Inarritu con Bardem e Fair Game con Naomi Watts e Sean Penn (in competizione). Ebbene sì, tutti film divistici. Almeno sulla carta. Che ci volete fare... ad ognuno le proprie dipendenze.

Blue Valentine con la coppia Williams-Gosling dovrebbe infiammare la sezione Un Certain Regard. Quanto all'Italia, il 20 maggio passerà in concorso La nostra vita di Daniele Luchetti. L'ho già visto in anteprima la settimana scorsa ma non se ne può parlare fino alla presentazione al Festival. Non me ne vorrà nessuno se dico che il film merita tutta la stima e il supporto del mondo. Se non altro per l'intensissima, straziante prova di Elio Germano.

martedì 11 maggio 2010

Biopic Cate


Nella rubrica Modern Divas dedicata a Cate Blanchett da oggi online su Loudvision.it al link
http://www.loudvision.it/rubriche-modern-divas-cate-blanchett-l-arte-del-trasformismo--775.html abbozzo un'analisi dell'arte e del carisma dell'attrice australiana riprendendo argomenti e film già affrontati su queste pagine. La Blanchett è diva e grande attrice allo stesso tempo: "porta a nuovi traguardi il mistero della recitazione" affrontando (e vincendo) sempre nuove sfide, e "infonde nuova linfa al concetto di divismo", mantenendo una stimata riconoscibilità tra blockbuster commerciali e film d'autore indipendenti.

Come scrivo in Cate Blanchett, l'arte del trasformismo, "la sua arte non sta solo nel saper oscillare con astuzia tra l’immagine della star e quella della raffinata interprete capace di qualsiasi volo con estrema naturalezza. Il suo carisma ha a che fare soprattutto con la capacità di adattare immagine ed acting style alle esigenze di ogni film. Come accadeva alla Streep negli anni ‘80, lo spettacolo del cinema coincide con lo spettacolo dell’attrice che scompare nel personaggio, modificando aspetto, fisicità, accento, timbro vocale e persino ritmo interiore

Se il corpo/volto dell’attrice si offre come pagina bianca e materia informe pronta ad accogliere tutte le emozioni del mondo, il trasformismo della Blanchett è il terreno su cui si misura il grado di spettacolarità offerto dai suoi film. Il biopic diventa allora la scena primaria dove assistere alla magia di queste mimetizzazioni".

E quale magia più grande e traguardo più incredibile della sua interpretazione di Bob Dylan in Io non sono qui di Todd Haynes (vincitrice della Coppa Volpi a Venezia 2007)? L'Oscar come attrice non protagonista andò a Tilda Swinton per Micheal Clayton ma, signori, il valore di questa prova della Blanchett è insuperabile ed incalcolabile. Tra tutte le sue performance è quella che ammiro di più dal punto di vista tecnico mentre, sentimentalmente parlando, sono più legato (nell'ordine) a Diario di uno scandalo, Bandits, Heaven e The Gift. Io non sono qui è un puzzle suggestivo e cerebrale in cui Haynes decostruisce la figura poliedrica ed inavvicinabile di Bob Dylan attraverso le interpretazioni di sei attori: Heath Ledger, Christian Bale, Richard Gere, Ben Whishaw, Marcus Carl Franklin e Cate Blanchett. Fra tutte queste diverse incarnazioni il tocco di genio di Haynes sta nell'affidare quella più fedele e somigliante all'originale ad una donna, per l'appunto Cate Blanchett. L'effetto è vertiginoso, una performance elettrizzante in magico equilibrio tra impeccabile mimetismo e (affascinante, provocatoria) rilettura del personaggio in chiave trasgender. La donna/attrice Blanchett sparisce completamente in un altro corpo/volto, re-inventandosi uomo con una naturalezza che ha dell'inaudito ed evitando in qualsiasi momento il pericolo dell'imitazione. Soltanto nell'ultima inquadratura ritroviamo l'attrice che guarda in camera e sorride direttamente agli spettatori, consapevole di essersi prestata ad un sofisticato gioco intellettuale. Un gioco che mette in campo questioni profonde riguardanti il mestiere stesso dell'attore, oltre ad un sottile discorso sulle politiche sessuali.


Il fatto che non abbia vinto il suo secondo Oscar per Io non sono qui è un mistero insondabile, di dimensioni pari solo alla grandezza stessa della performance. Anche l'anno precedente avrebbe meritato l'Oscar per Diario di uno scandalo (vinse Jennifer Hudson per Dreamgirls), ma era praticamente impensabile premiare solo lei e non Judi Dench (che si scontrava con Meryl Prada Streep e Helen The Queen Mirren). Il primo Oscar avrebbe già dovuto arrivare agli inizi della carriera per la prima Elizabeth nel 1998, ma anche in quel caso l'Academy confermò la sua cecità ricoprendo di allori Gwyneth Paltrow per Shakespeare in Love.

Mancate le nominations per Bandits e Veronica Guerin, ruoli che ricevettero comunque candidature ai Golden Globes, l'Oscar arrivò nel 2004 per The Aviator di Martin Scorsese, una statuetta che può essere ugualmente considerata la prima vinta da Cate Blanchett o la quinta conquistata da Katharine Hepburn. Tanto eccellente è la resa mimetica della Blanchett che sembra davvero di rivedere sullo schermo l'altra grandissima Kate. Il biopic è tutto focalizzato sull'ascesa e declino di Howard Hughes (un incisivo DiCaprio), ma la Blanchett riesce come sempre a catalizzare l'interesse del pubblico e non è un caso che il film smarrisca parte della sua fiamma nel momento in cui l'attrice esce di scena a metà pellicola. A differenza della performance nel film di Haynes tuttavia, in The Aviator la Blanchett è sì splendida, ma è fin troppo perfetta nel ricalcare movenze, gesti e vezzi della Hepburn da sfiorare il tecnicismo e l'accademismo. Troppo brava, troppo controllata: il risultato è un ritratto bellissimo da vedere ed assolutamente (quasi) identico all'originale ma, proprio per questo, troppo vicino ad una fredda e calcolata imitazione. Il problema riguarda però anche la sceneggiatura ed il modo in cui il personaggio è articolato. Lo sguardo di Scorsese sul mondo del cinema classico e sulle sue star resta glamour e di facciata, interessato soprattutto allo sfavillio dei flash dei fotografi piuttosto che ad una profonda rilettura dei personaggi. Ed il discorso vale sopratutto per il carattere della Hepburn, che probabilmente avrebbe bisogno di un biopic tutto suo, se non di una miniserie.


Restando in tema di personaggi realmente esistiti, l'altra grande interpretazione della Blanchett è quella della combattiva giornalista irlandese Veronica Guerin uccisa nel 1996 per il suo impegno nella lotta al narcotraffico. Il film diretto da Joel Schumacher nel 2003 è un classico biopic di denuncia senza infamia e senza lode, ma la performance dell'attrice è appassionata ed impeccabile come sempre e, prima dei film di Scorsese e Haynes, rivela le stupefacenti doti trasformistiche dell'attrice. Oltre al suo coraggio nel cimentarsi in ruoli difficili e all'inesauribile fiamma del suo dono.

martedì 4 maggio 2010

Popular Cate


Per gli spettatori più vigili ed attenti ai volti nuovi da cui lasciarsi abbagliare, in principio fu Elizabeth, ed ancor prima Lucinda. Ma per il grande pubblico che affolla le multisala e divora pop-corn di fronte a blockbuster e filmoni superomistici, in principio fu soltanto Galadriel. Nel ruolo dell'eterea Dama della luce e Signora degli Elfi, Cate Blanchett mette la sua regale bellezza al servizio della fantasmagoria di Peter Jackson ed appare in tutti e tre i film della saga de Il Signore degli Anelli: La compagnia dell'Anello (2001), Le due torri (2002) e Il ritorno del re (2003). I film incassano uno sproposito, collezionano Oscar e rinnovano il genere fantasy. Per la Blanchett è una piccola, iconica partecipazione ma di fondamentale importanza per la sua carriera e la sua crescente popolarità. Nel 2012 tornerà a vestire i panni luminosi di Galadriel nel prequel de Il Signore degli Anelli, Lo Hobbit - Parte prima per la regia di Guillermo del Toro e la sceneggiatura di Jackson e Philippa Boyens.


Dopo due stagioni acclamatissime dalla critica, nel 2008 la Blanchett vince di nuovo alla lotteria di Hollywood e mette a segno altri due titoli di enorme appeal commerciale: il ritorno di Indiana Jones e un progetto che sulla carta profuma di Oscar (re-union con Brad Pitt dopo Babel, regia stimata, fonte letteraria). Più che un film, Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo è una vacanza, una scorribanda tra amici, tanto leggero e disimpegnato è il tono del racconto e volutamente retro' l'atmosfera da avventura postbellica resuscitata da Spielberg. Continuando l'altalena tra ruoli principali e secondari, la Blanchett stupisce in un personaggio against the type: l'antagonista di Indy Jones Irina Spalko, gelida e scattante comandante delle truppe sovietiche disposta a tutto pur di recuperare il teschio di cristallo e controllare, con i suoi poteri, la mente degli avversari. Caschetto nero, divisa militare ed occhi di ghiaccio, Cate si adegua allo stile fumettistico del film e disegna una cattiva bidimensionale che, anche se avrebbe potuto essere più incisiva e sottile (magari supportata da uno script migliore), comunque le fornisce l'occasione per sfoderare un divertente accento russo. Incassi da capogiro. Recensioni non entusiastiche ma tutte benevole nei confronti della Blanchett, autoironica ed in grado di plasmare ancora una volta immagine e stile in base alle esigenze del film.




Diretto da un David Fincher in barbosa vena pseudo-artistica e poetica, Il curioso caso di Benjamin Button è invece un furbo blockbuster acchiappasoldi, lacrime e nomination. Per i primi 80 minuti il film è una noia mortale nella sua successione di freddi quadretti patinati: la cornice con figlia e madre terminale in ospedale è patetica, Brad Pitt, reso vecchio (o giovane) dal trucco digitale, ha una sola espressione (piuttosto inespressiva in verità) e gli unici picchi di attenzione riguardano la presenza di Tilda Swinton, sempre splendida. Quando a metà film il personaggio della piccola Daisy fiorisce con il volto e il corpo da ballerina di Cate Blanchett le cose cambiano. La scena in cui Daisy balla davanti a Benjamin è un classico della seduzione che dovrebbe presto finire nelle enciclopedie del cinema. E il film mette finalmente a fuoco il suo nodo centrale: l'impossibile storia d'amore tra i due protagonisti, destinati ad incontrarsi a metà strada intorno ai 40 anni e poi a perdersi. Lei invecchia, come tutti, lui va a ritroso e ringiovanisce. Se tutta la seconda parte del film è drammaticamente più efficace delle prima (descrittiva e fiaccamente elegiaca), il merito va alla Blanchett che accentra su di sé il racconto con la sua calda intensità e il suo quieto dolore. E quando Benjamin, diventato un neonato, riconosce nell'anziana signora che lo culla la donna che ha amato e muore tra le sue braccia, sfido chiunque a non allagare la stanza.
Pioggia di nomination agli Oscar per tutti tranne che per Cate. Che a questo punto, dopo aver ricevuto la sua stella sull'Hollywood Boulevard nel dicembre del 2008, sparisce dalle scene per dirigere la Sydney Theatre Company ed intepretare a teatro Blanche Dubois.

Popular Cate si arricchisce di un nuovo paragrafo con l'uscita questo mese dell'ultimo blockbuster dell'eclettica, multiforme diva australiana: il Robin Hood di Scott, in cui sarà una fiera e combattiva Lady Marian.

Comedy Cate



Se qualcuno nutrisse (ancora) dei dubbi sul trasformismo di Cate Blanchett si guardi l'episodio Cousins contenuto in Coffee and Cigarettes di Jim Jarmush (2004). Nella stessa inquadratura la Blanchett si sdoppia con totale naturalezza interpretando due personaggi: se stessa, Cate, e sua cugina Shelly. L'episodio è una vera e propria chicca di raffinata perfidia e sottile umorismo, oltre che una conferma dello scintillante talento comico della diva. E' davvero incredibile come anche nella commedia Cate non vada mai sopra le righe e trovi la stessa calda verità dei suoi dramatic turns.

In Cousins Jarmush immagina che la Blanchett, durante una pausa tra un'intervista televisiva ed un'altra, incontri in hotel sua cugina Shelly dopo tanto tempo. Fisicamente agli antipodi (bionda e raffinata l'una, mora e volgare l'altra) i due personaggi incarnano alla perfezione due mondi lontani anni luce l'uno dall'altro: il mondo di chi è arrivato al successo e può permettersi tutto, persino slanci di (falsa) generosità, ed il mondo di chi non ha nulla se non la propria frustrazione ed invidia per i traguardi raggiunti dagli altri. Nella fisicità, negli sguardi, nel modo di dare le battute, sembra di trovarsi davvero di fronte a due attrici diverse. Jarmush non risparmia acide frecciate al mondo dello show business e si mantiene tatticamente a distanza da entrambe. Ma, sotto sotto, parteggia per la maleducata, irresistibile Shelly, piuttosto che per l'eleganza tirata a lucido di Cate. La vera Cate, naturalmente, non è qui: gioca con la sua immagine e si costruisce due doppi adorabili.

Sul coraggio e sulla libertà di una stella del cinema che, all'apice del successo, sceglie di apparire in piccoli film indipendenti come questo, non si discute. Semplicemente ci si inchina.


La più travolgente performance comica della Blanchett è, ad oggi, la Kate Wheeler di Bandits (2001, di Barry Levinson), casalinga e moglie infelice che trova nell'avventura e nell'amore per i due "banditi della buonanotte" Terry (grandissimo Billy Bob Thornton) e Joe (sornione Bruce Willis) una nuova ragione di vita. Il film è ben scritto e molto divertente, il risvolto del menage a trois è originale e condotto con finezza, e Thornton e la Blanchett sfornano due formidabili comic turns. Dopo gli sfarzi di Elizabeth, le arguzie wildiane di Un marito ideale e gli orrori sudisti di The Gift, Cate rivela la stoffa della star a tutto tondo. Qui è nevrotica e sexy, svitata ed autoironica, buffa e romantica. Da vera leading lady entra in perfetta sintonia con i co-protagonisti maschili e riesce anche a ritagliarsi uno spazio tutto suo, dimostrando di possedere un'energia, un'inventiva e una grazia pari a quella di Michelle Pfeiffer ai tempi d'oro.

Compare a film inoltrato, dopo quasi 30 minuti, e il racconto ne trae subito immenso giovamento. La scena in cui prepara la cena per il marito dimenandosi sulle note di Hero di Bonnie Tyler è esilarante. Quale migliore ingresso di questo? Una forza della natura. Quando il marito mortifica i suoi sforzi culinari avvisandola in ritardo di essere a cena fuori, lei fugge in auto in lacrime ed in piena auto-commiserazione trova nuovamente sostegno nella voce arrochita di Bonnie Tyler che canta "... I really need you tonight!.." (da Total eclipse of the heart, celeberrimo brano anni '80, che ritorna in un'altra buffissima scena con Bruce Willis). Basterebbero questi due momenti per innamorarsi di lei.


Tutto il dialogo in auto tra Terry che le punta una pistola contro e lei che sminuisce la situazione senza rendersi conto di avere a che fare con un vero criminale è geniale. Piuttosto che tornare al suo orribile matrimonio, Kate si offre di condurre Terry senza problemi al luogo dell'incontro con i suoi soci e, da ostaggio, diventerà presto una complice insostituibile delle loro rapine, il perfetto anello mancante nella vita sgangherata dei due criminali gentiluomini.
Bandits valse alla Blanchett una candidatura ai Golden Globe come miglior attrice di commedia nel 2002 (ma vinse Nicole Kidman per Moulin Rouge). Se non l'avete visto, recuperatelo. Please.


Un'altra gemma comica nella galleria di personaggi della diva australiana è Gertrud, l'irreprensibile moglie di Sir Robert Chiltern nel frizzante Un marito ideale Oliver Parker. In un cast a cinque stelle dominato per 3/4 di film da una Julianne Moore inarrivabile, la Blanchett ha una scena strepitosa nell'epilogo, quando confessa di aver mentito anche lei e si trova costretta ad ammettere di non essere così moralmente ineccepibile come pensava. Messa di fronte alla verità, Gertrud ha una reazione sorprendente: ride e piange in modo compulsivo, isterico e liberatorio. E' una reazione geniale, teatralmente perfetta e al tempo stesso realistica e naturale. Ed è forse il momento che resta maggiormente impresso alla fine del film: il rigore di Gertrud che si scioglie con effetti comici esilaranti.
Tecnica per garantire l'efficacia del gesto teatrale e sentimento per assicurarne l'autenticità: la Blanchett possiede entrambe queste qualità e le sa calibrare con matematica bravura.

lunedì 3 maggio 2010

Dench vs Blanchett: scontro di regine in "Diario di uno scandalo"


E' un grande film Diario di uno scandalo e non solo per le incredibili performance di Judi Dench e Cate Blanchett. Richard Eyre realizza un thriller d'autore di notevole complessità psicologica, stringato e senza sbavature nei suoi 90 minuti di durata, immerso in un'atmosfera livida e claustrofobica (gli esterni grigi e piovosi, il seminterrato) ed impreziosito dalla colonna sonora liquida di Philip Glass. Il film non inizia: scorre come un fiume e lo spettatore ci finisce immediatamente dentro, travolto dal vortice manipolatorio di Barbara. Dall'alto della sua facoltà di controllare il racconto attraverso la scrittura del suo diario, la protagonista impone immediatamente la sua prospettiva interiore come focalizzazione narrativa principale:

"Tutti mi hanno sempre affidato i loro segreti. Ma io a chi posso affidare i miei? A te. Soltanto a te"

Così dichiara in apertura la voce fuori campo di Barbara mentre sfoglia le pagine di un diario ancora immacolato. Ma ci vuole poco per intuire che si tratta di una prospettiva instabile, parziale, non condivisibile fino in fondo. Barbara non è solo una vecchia insegnante cinica e severa: è molto di più ed anche molto peggio. Dalle pagine del suo diario emerge la sua natura sprezzante e presuntuosa. Una presunzione che ha profonde radici nel suo isolamento, nella sua solitudine e nell'assenza d'amore. Si difende Barbara. Si trincera dietro una glaciale rigidità. Si sente respinta, rifiutata, sessualmente ignorata e questo la trasforma in un essere spregevole e pericoloso. La sua idea di superiorità rispetto agli altri si traduce in parole di disprezzo per chiunque e sfocia in una pericolosa ansia di controllo e possesso attraverso metodiche, puntigliose strategie manipolatorie.


Nei primi 10 minuti il regista pone le basi della fascinazione di Barbara per Sheba Hart, la nuova insegnante di arte. Pochi sono gli accenni all'omosessualità di Barbara: la dolce impertinenza della sorella, che le chiede se "c'è qualcun'altra", o il ricordo costante di una vecchia amica del cuore di cui si sono perse le tracce. Nelle parole di Barbara, Sheba potrebbe essere la "fatina" giunta a rimpiazzare quel posto rimasto vacante per tanto tempo. E' sincera nel suo diario, Barbara. E' davvero felice quando Sheba la invita a pranzo dalla sua famiglia e lei si lustra a festa per fare bella figura: "Oh beatitudine! Una bandiera gioiosa sventola sul deserto artico del mio calendario". Ma è ipocrita e doppia: davanti è tutta sorrisi, disponibilità ed affetto. Ascolta le confessioni dell'incauta Sheba e si compiace di esserne la confidente.

"E' una caratteristica tipica dei privilegiati, abbandonarsi a confidenze immediate ed incaute [...] Sheba fu di una sincerità assoluta. Una novizia che si confessa alla madre superiora".

Ma alle spalle (sul diario ed in voce fuori campo) non lesina in commenti terribili sul marito e sui figli. E' falsa Barbara, forse soltanto poco più di tutti quanti noi. Finiamo col provare vergogna, persino imbarazzo per la sua spietata sincerità. "Non si leggono i diari degli altri", dirà alla fine.


Dal canto suo, Sheba è inquieta e confusa, insoddisfatta della vita di madre ed incerta sulla sua vocazione di insegnante. Crede fondamentalmente di essere "una buona a nulla", e forse è così. Di certo è un'istintiva, se si abbandona alla passione per l'alunno quindicenne Steven Connolly con tale leggerezza e noncuranza delle conseguenze.

"Mio padre diceva sempre - Ricordati Sheba, non devi perderti !- Non lo so. E' che c'è una distanza tra la vita che uno sogna di avere e la vita che ha".

Mentre dà queste battute lo sguardo di Cate Blanchett si perde chissà dove e le labbra accennano un lieve sorriso. A differenza del personaggio di Barbara, non abbiamo accesso all'interiorità di Sheba. Questo rende il suo carattere arduo da interpretare e da raccontare al pubblico, soprattutto attraverso il filtro della voce di Barbara, ma la Blanchett riesce a rendere miracolosamente credibili le scelte di Sheba senza imporre nessun giudizio.

"Mi sono sempre comportata bene. Sono stata una buona moglie, una discreta madre. Questa voce dentro di me continuava a ripetere - Perché non potresti essere cattiva almeno una volta, perché non dovresti trasgredire? Te lo sei guadagnata".

Sheba è una debole, e come tale si lascia travolgere dagli eventi. E si fida degli altri. La Blanchett è strepitosa nel rendere la sua incoscienza, e disarmante quando si sforza di trovare una giustificazione al suo comportamento (ma attenzione: se si giustifica, è solo per le orecchie di Barbara). Finita nella trappola dell'anziana collega, che dopo aver scoperto la tresca compra l'amicizia della giovane in cambio del suo silenzio, Sheba commette un altro errore, ancora più grave della pedofilia (il giovane, sfrontato e bugiardo Steven è tutt'altro che innocente e lo sguardo del regista sulla questione è brillantemente scevro da qualsiasi moralismo). Anche Sheba, in fondo, crede di poter manipolare Barbara, fingendosi sua amica soltanto per tenerla al suo posto. Praticamente si mentono a vicenda. Qui ruota il centro nevralgico delle tensioni del film: un'autentica tragedia dei sentimenti, una fotografia della loro svalutazione e mercificazione.


"Avevo davanti un'occasione superba: se agivo con astuzia potevo assicurarmi la preda rendendola mia debitrice in eterno. Potevo ottenere tutto... senza fare nulla".

Barbara ha dalla sua parte anni ed anni di reclusione interiore che l'hanno trasformata in un vampiro. Quando scopre che Sheba sta ancora frequentando lo studente nonostante il suo veto di porre fine alla liason, la situazione precipita. Barbara ancora una volta è persino sincera nel voler mettere in guardia Sheba dai rischi che sta correndo.

"Credi che lui ricambi le tue attenzioni sdolcinate? Oh certo! Sarà affascinato dagli squallidi appetiti di una matura signora borghese con problemi coniugali! Non sai quanto siano crudeli gli adolescenti. Io li conosco. Quando sarà sazio ti butterà come uno straccio vecchio! Non sei più una ragazzina."

A partire da questo momento la donna si autoconvince che il suo rapporto con Sheba sia una specie di platonica storia d'amore. Una visione completamente distorta della realtà, un'enorme menzogna che non può non ritorcersi contro con effetti catastrofici. Quando la giovane si trova costretta a scegliere tra l'amica e la sua famiglia, la vendetta scatta subdola ed inesorabile. La scena in cui Barbara circuisce il collega ed accende la miccia dello scandalo semplicemente insinuando il sospetto della relazione illegale, è un trionfo attoriale. Judi Dench è micidiale ed implacabile, un cervello astuto che afferra immediatamente la possibilità di una vendetta e porta il suo interlocutore lì dove lei vuole che arrivi. Nel passaggio successivo c'è tutto il dolore e il rancore del personaggio.

"Le persone come Sheba sono convinte di sapere cosa significhi essere soli. Ma della tortura del lento sgocciolio della vera, infinita solitudine non sanno niente".


E Cate? Quando la verità sulla manipolazione viene a galla, le due donne si affrontano in una stupefacente scena madre e noi spettatori assistiamo con la bava alla bocca ad uno dei duelli più intensi degli ultimi anni. Sheba finalmente sputa il rospo e vomita addosso alla sua carnefice tutto quello che pensa veramente di lei. Poi si dà in pasto ai giornalisti urlando con tutta la rabbia e la disperazione che ha in corpo. Di solito controllatissima, Cate Blanchett qui molla le redini e si lascia andare. Il momento dell'urlo è di una potenza dilaniante ed è probabilmente la scena più toccante del film.

voto: 8

giovedì 29 aprile 2010

Blanchett sfinge enigmatica in "Intrigo a Berlino"

Subito dopo l'Oscar come miglior attrice non protagonista per The Aviator, Cate Blanchett ha continuato a macinare generi e ruoli diversissimi tra loro con la costanza di una macchina da guerra infaticabile. Le sue interpretazioni tra il 2006 e il 2007 danno un'ulteriore prova della sua versatilità e della sua capacità di scomparire nei personaggi, modificando aspetto, fisicità, timbro della voce, accento e persino (la cosa più difficile) ritmo e tempi interiori. Se il punto più alto della sua arte è finora rappresentato dalla performance di Bob Dylan in Io non sono qui (grado massimo di perfezione tecnica) e dall'appassionata Sheba Hart di Diario di uno scandalo (grado massimo di abbandono emotivo), nel 2006 la Blanchett è apparsa anche in Babel e nel curioso The Good German - Intrigo a Berlino di Steven Soderbergh.

Ed è su questo film che vorrei soffermarmi, a prescindere dal suo risultato semi-fallimentare. Nel ruolo della misteriosa Lena Brandt, ebrea sposata al matematico nazista Emil Brandt in fuga nella Berlino post bellica, la Blanchett trascende il film stesso con la sua magnetica bellezza, risollevando l'attenzione dello spettatore in ogni fotogramma in cui appare. Ed anche se Soderbergh, in pieno mood da gelido studente di cinema tutto cervello e niente cuore, usa il personaggio (e di conseguenza l'interprete) come una mera funzione narrativa ed iconografica attraverso cui ricalcare gli stilemi del noir classico, Cate è l'unica a salvarsi dal naufragio del film, assieme alla strepitosa fotografia in bianco e nero.


Tratto dal romanzo di Joseph Kanon, Intrigo a Berlino offre a Soderbergh l'occasione per sfoderare la sua cinefilia rivisitando il cinema noir; operazione sulla carta molto affascinante, ma che sullo schermo si risolve in uno sterile esercizio di stile. Soderbergh non gira un semplice omaggio, ma un vero e proprio calco, recuperando, anzi, imitando stilemi ed inquadrature degli anni '40. La fotografia contrastata di taglio espressionista è assolutamente magnifica ed a volte si ha davvero l'impressione di vedere un film di quel periodo. Ma se l'involucro abbaglia, il contenuto non ha un briciolo della profondità, del simbolismo e della visionarietà del noir classico. La trama è inutilmente involuta, gli aggiornamenti riguardo alla rappresentazione della sessualità e della violenza non stabiliscono nessun ponte con la contemporaneità e persino il finale alla Casablanca suona finto e forzato. Tra l'enciclopedia del cinema che fu e l'esperimento fine a se stesso di un regista che si crede il primo della classe ma è incapace di infondere vita alle sue marionette, Intrigo a Berlino è irritante e pretenzioso, e non va oltre il fascino decadente di un vecchio giocattolo restaurato.


E gli attori? Clooney, anche quando gioca apertamente a fare il moderno Cary Grant, è sempre e soltanto Clooney, mentre Tobey McGuire si cimenta in un ruolo negativo ben oltre le sue possibilità. La Blanchett merita un discorso a parte, essendo l'unica completamente a proprio agio nell'universo cinematografico di modelli e riferimenti evocati da Soderbergh con tanta maniacale perizia. Nel momento in cui appare sullo schermo Cate Blanchett/Lena Brandt sembra davvero emergere da un film degli anni '40, vestita, pettinata, illuminata ed inquadrata come un vera dark lady del passato.


Da un punto di vista narrativo e visivo il personaggio di Lena è una fotocopia letterale dello stereotipo della donna fatale: infida, ingannevole, incredibilmente bella e pericolosa. Soprattutto inconoscibile: quali sono i suoi segreti? Quali i suoi scopi? Quando mente e quando è sincera?
Mora e tentatrice, volto immobile e sguardo da sfinge, voce calda e sensuale ed un inconfondibile accento tedesco, la Lena di Cate Blanchett è chiaramente costruita sul fascino enigmatico di Marlene Dietrich e sulla Ilsa di Ingrid Bergman in Casablanca, ed è un altro perfetto esempio del trasformismo dell'attice. Questa volta non è chiamata a mimetizzarsi nei panni di un personaggio realmente esistito, come Katherine Hepburn o Bob Dylan, ma ad incarnare un'idea stessa di femminilità, uno stereotipo portato sullo schermo migliaia di volte. Come tale deve essere immediatamente riconoscibile e, trattandosi di un film che ne omaggia mille altri, anche il suo calco deve essere la summa di tutte le dark lady possibili.



L'attrice fa ancora una volta centro: modella look e tempi recitativi sull'aplomb glaciale della Dietrich, ed arriva a fondersi perfettamente non solo con l'ambiente storico ma con il tessuto stesso del film. Diventa pura materia di cinema sulla cui superficie traslucida convivono passato e presente in un vertiginoso corto circuito postmoderno. Così facendo Cate mette a fuoco l'obiettivo finale del regista: resuscitare fantasmi. Ed è la sola che ci riesce.

Voto: 5 (al film, ma 8 alla Blanchett)

mercoledì 28 aprile 2010

In "Heaven" con Cate e Ribisi


Diretto da Tom Tykwer dopo il successo internazionale di Run, Lola, Run, e basato su una sceneggiatura di Kieslowki (primo capitolo di una trilogia che avrebbe dovuto comprendere anche Hell e Purgatory), Heaven è un film irrisolto e misconosciuto, ma assolutamente affascinante. E, dato non trascurabile, si avvale di una delle più sensazionali performance di Cate Blanchett, qui al suo massimo grado di purezza, accompagnata da un Giovanni Ribisi meraviglioso per intensità e candore. Il plot è quantomeno bizzarro ed insolito, e mescola crime story, thriller, dramma e romance con tale leggerezza (se non ingenuità) e sprezzo della verosimiglianza che risulta subito chiaro quanto la trama sia metaforica, un semplice pretesto per riflettere su qualcos'altro: la natura umana e temi universali quali la vendetta, la colpa, la redenzione e l'amore. In questo senso Heaven è un film filosofico, coraggioso, forse addirittura sbagliato (all'uscita fu un fiasco clamoroso), ma unico nel suo genere. Merito dell'abbagliante stile visivo di Tykwer, che disegna spazi ed inquadrature di una limpidezza straniante ed imprime all'azione un ritmo lento, sospeso, carico di tensione non solo psicologica, ma addirittura metafisica, grazie al supporto della stupenda fotografia di Frank Griebe.


Interamente girato in Italia tra Torino e Montepulciano, con attori impegnati a recitare sia in inglese che in italiano, Heaven racconta la storia di Philippa, un'insegnante inglese che, dopo aver inutilmente segnalato alla polizia il coinvolgimento di un uomo nella morte per overdose di suo marito, decide di farsi giustizia da sola. Il suo piano però fallisce miseramente: nello scoppio della bomba da lei stessa fabbricata perdono la vita quattro persone innocenti e Philippa viene accusata di associazione terroristica. Filippo, il giovane, silenzioso carabiniere che fa da traduttore nel corso dell'interrogatorio, si innamora di lei e l'aiuta ad evadere. Insieme attraverseranno l'Italia e troveranno rifugio nelle campagne toscane. Ma sarà quasi impossibile sfuggire alle ricerche dei carabinieri...


Dimenticate la trama e lasciatevi incantare dalla magia delle immagini e dalle atmosfere ovattate e celestiali; celestiali, però, non in senso iconografico (a parte il magnifico finale, con la corsa sulla collina, l'amore ai piedi del grande albero e la fuga verso il cielo... da brivido), ma in termini di dilatazione spazio-temporale, con effetti di irrealtà avvolgente. Tykwer trasforma un'assurda storia thriller in un poetico inno alla vita e alla libertà, ma il risultato non sarebbe lo stesso senza Blanchett e Ribisi: la loro alchimia è semplicemente commovente, il loro progressivo avvicinamento psicologico e fisico sconvolgente e naturalissimo. Nell'ultima parte, in cerca di riparo e redenzione nell'abbraccio della natura, i due protagonisti indossano lo stesso costume neutro (jeans e maglietta bianca), si rasano a zero i capelli, adottando un look che annulla ogni differenza e li rende identici, quasi fratelli (non a caso hanno lo stesso nome). A poco a poco, diventano, per amore, una cosa sola: esseri umani liberi e puri. Così umani, senza maschere, senza trucchi, senza orpelli, da rappresentare l'umanità al grado zero, primordiale. Così umani... da sembrare alieni: indifesi, innocenti nonostante la colpa, ma felici.


Rasata eppur bellissima, Cate Blanchett sfodera nella tenuta del primo piano e nella luminosità dello sguardo un'intensità ed un abbandono lontani dai tecnicismi e dagli istrionismi mimetici di cui è assoluta maestra. L'essere umano primordiale al quale Philippa e Filippo ritornano nel finale è anche l'Attore al grado massimo di neutralità e disponibilità di fronte al personaggio, all'azione e alle emozioni: nudo, naturale, aperto. Una pagina bianca pronta ad accogliere qualsiasi sentimento e psicologia. I personaggi/attori si annullano per poter essere universali ed esprimere tutta l'unicità e la molteplicità della vita nel loro corpo/sguardo. Guidati dalla mano ispirata di Tykwer, Blanchett e Ribisi accettano la sfida e volano verso il cielo. Quasi impossibile separare le due prove attoriali: sono un'unica, miracolosa performance.

Voto: 7