martedì 29 dicembre 2009

Il bel poster di Brothers


La cosa più riuscita di questo remake americano del film danese Brodre di Susanna Bier è probabilmente il poster. Minimalista, intimo e raffinato nel suo bianco e nero, con i profili dei giovani interpreti e una composizione dell'immagine di rara efficacia. Tobey Mcguire è nudo, smagrito e con lo sguardo basso, Nathalie Portman poggia delicatamente il viso sulla sua schiena (in un atto di affetto che è anche disperato tentativo di contatto) ma una linea verticale scinde la sua figura, Jake Gyllenhaal è un passo indietro, leggermente in disparte, e guarda la coppia davanti a sé.

Sam (McGuire) è il figlio perfetto, il fratello onesto su cui puoi contare, l'amorevole e premuroso padre di famiglia, l'uomo dai saldi principi che serve la patria in guerra. Tommy (Gyllenhaal) è l'altro per eccellenza, il secondo in tutto: il figlio sbandato, il fratello inquieto che bisogna tirare fuori dai guai, l'uomo perduto che non sa dare un senso alla propria vita. Quando Sam parte in missione in Afghanistan e viene dato per morto, Tommy si avvicina a Grace (Portiman) e alle sue nipoti, e nel dar loro coraggio, nell'occuparsi di loro, nel far sorridere quella famiglia si sente per la prima volta a casa e trova finalmente una serenità interiore, uno scopo. Ma Sam non è morto: in Afghanistan conosce l'inferno della prigionia e si trova faccia a faccia con l'orrore della violenza e della morte. Per salvare la pelle si macchia di un crimine atroce. Tornato a casa, non è più la stessa persona. Nulla è più come prima. Con chi condividere la mostruosità della guerra e il peso della colpa? Il malessere diventa ossessione quando vede suo fratello Tommy e sua moglie Grace così vicini...

E' straordinariamente complesso il materiale narrativo che Brothers mette in scena ma l'altrove ispirato Jim Sheridan (Il mio piede sinistro, Nel nome del padre) non va oltre l'illustrazione piatta e didascalica. Il duplice binario narrativo che mostra parallelamente gli eventi in America (l'elaborazione del lutto di Grace e il progressivo avvicinamento di Tommy) e l'inferno afghano vissuto da Sam è la via drammaturgica più semplice e meno misteriosa che la sceneggiatura potesse imboccare. Vedendo tutto da fuori, gli spettatori anticipano qualsiasi sviluppo della storia e non fanno propria la prospettiva di nessun personaggio. La contrapposizione dei caratteri è schematica ed anche i dialoghi sono tagliati con l'accetta. Per un film così intimista, maggiore sottigliezza e gusto per le sfumature avrebbe di certo giovato.

Ma, sceneggiatura rigida e regia fiacca a parte, il problema maggiore risiede nel cast. Sia McGuire che la Portman hanno un'immagine filmica che non li rende credibili come genitori di famiglia. Inoltre il ruolo di Sam richiede una capacità di trasformazione che vada oltre il dimagrimento fisico: quello che McGuire fa per sottolineare il cambiamento tra un prima e un dopo è sorridere nella prima parte e strabuzzare gli occhi come un pazzo nella seconda, ma è così preoccupato della serietà del ruolo che, lavorando di sottrazione, rischia fissità e catatonia. L'esplosione finale è così telefonata che ti chiedi solo come mai non sia avvenuta prima. Un attore più sottile e dotato avrebbe fatto scintille con una parte così. La Portman è sempre intensa ed ha un primo piano incantevole, ma in definitiva non ha nessun carattere da interpretare se non il cliché della moglie in lutto, divisa fra l'amore per un marito che non riconosce più e l'interesse per un altro. Ed è Tommy la vera luce del film, perlomeno l'unico personaggio che ha a che fare con un passato (da dimenticare, da riscattare) e che compie un percorso all'interno del film. Jake Gyllenhaal è il più vero dei tre interpreti, il più sincero e in parte. E' lui che àncora il film.
Le scelte musicali da serial televisivo tradiscono il valore commerciale mainstream di questo finto film d'autore, svelandone la natura di (poco riuscito) star-vehicle.

Voto: 5

Esplode il box office americano

Sono tutti andati al cinema gli americani nel week end di Natale: la somma degli incassi di tutti i film in top ten raggiunge quota 264 milioni di dollari, un record assoluto che supera i 253 milioni registrati lo scorso anno nel week end di uscita de Il Cavaliere oscuro. Davvero un Natale da storia del cinema.

Al primo posto Avatar arriva a quota 212 milioni in appena dieci giorni di programmazione: perde solo il 2% rispetto alla settimana precedente e segna il miglior incasso di tutti i tempi per un secondo week end. L'obiettivo dei 400 milioni di dollari dovrebbe essere facilmente raggiunto. Al secondo posto la miscela di action movie, comedy e thriller di Sherlock Holmes fa il botto e incassa 65 milioni di dollari, mentre Alvin Superstar 2 raggranella altri 50 milioni ed arriva a 77. L'altra attesa nuova uscita natalizia, la commedia It's Complicated parte bene con 22 milioni, ed è il terzo miglior esordio in assoluto per un film con Meryl Streep (dopo Mamma mia! e Il diavolo veste Prada). Al quinto posto Tra le nuvole con George Clooney veleggia verso i 25 milioni, ma crescerà notevolmente con il passaparola e le candidature agli Oscar. The Blind Side, con Sandra Bullock benedetta dagli dei, sta per toccare i 200 milioni e non accenna ad abbandonare la top ten (è al sesto week end!), mentre il bellissimo La principessa e il ranocchio deve accontentarsi del settimo posto e di un incasso piuttosto modesto, appena 63 milioni.

Fanalini di coda sono Nine, con appena 5 milioni (dato deludente, visto che il film ne è costato 80), Che fine hanno fatto i Morgan? con Sarah Jessica Parker e Hugh Grant (15 milioni) e Invictus, che col suo attuale incasso di 23 milioni difficilmente replicherà il successo al botteghini del precedente film di Clint Eastwood Gran Torino.

lunedì 28 dicembre 2009

Intatta magia Disney


Un commovente e nostalgico tuffo nel passato all'insegna del recupero della tradizione questo nuovo (49°) lungometraggio Disney. In controtendenza rispetto al 3D in voga e all'animazione digitale, La principessa e il ranocchio è tutto disegnato a mano con l'inconfondibile tratto di casa Disney, morbido e rotondo. Basterebbe questo per fare del film di John Musker e Ron Clements (gli stessi de La sirenetta e Alladin) un oggetto inclassificabile, alieno e fuori dal tempo che merita rispetto ed attenzione. Sembra ieri eppure sono passati quasi venti anni dagli ultimi veri capolavori Disney, La sirenetta, La Bella e la Bestia e l'inarrivabile Il Re Leone: La principessa e il ranocchio ne ripropone la stessa collaudatissima formula e ne conserva intatta la purezza dei sentimenti, la magia delle immagini, l'inguaribile ottimismo e la complessità narrativa. Elementi che facevano dei vecchi film Disney degli autentici instant classics.

Pur non eguagliando i modelli, l'ultima fatica Disney è un bellissimo film, denso da un punto di vista narrativo e visivamente caleidoscopico. L'ambientazione nella New Orleans inizio secolo scorso, tracimante di vita, animata da jazz e riti voodoo, e circondata da melmose paludi, è originale e graficamente eccellente. Così come azzeccate e coerenti sono le scelte musicali che evitano melodie pop in favore di un jazz trascinante e sincopato. Ma è l'affidare l'immancabile storia d'amore ad una coppia di neri, la cameriera Tiana e il principe Naveen, il vero elemento a passo coi tempi. Anche se a ben guardare la storia è sempre la stessa: lei, emancipata, volitiva ed indipendente, sogna di aprire un ristorante e pensa a tutto meno che all'amore; lui, un principe fannullone e donnaiolo, pensa solo a fare strage di cuori, ma non si è mai veramente innamorato di nessuna. "Devi scavare a fondo per trovare quello di cui hai veramente bisogno", dice mamma Odie, veggente voodoo che vive in mezzo alla palude. E così accadrà: tra trasformazioni e riti magici, inseguimenti rocamboleschi e ricCorsivoonoscimenti, i due giovani si avvicineranno e si scopriranno innamorati. E alla fine, come ogni fiaba che si rispetti, coroneranno il loso sogno d'amore.

Intorno a Tiana e Naveen, la classica, stupefacente galleria di personaggi: il mago Facilier è allampanato e viscido come Jafar e le ombre striscianti dell'aldilà omaggiano gli spiriti de "La notte sul Monte Calvo" in Fantasia; l'alligatore Louis sembra uscire direttamente da Il Libro della Giungla; l'amica Lottie, buffa e viziata, regala più di una sorpresa al di là dello stereotipo della bionda stupida e capricciosa, ma è la lucciola Ray il personaggio geniale, romantico e straziante nel suo amore per la stella Evangeline.

Se c'è qualcosa della vecchia formula Disney che ormai non convince più è la struttura da musical che prevede una canzone per ogni personaggio. Non potendo contare sulla penna ispiratissima di autori come Howard Ashman ed Alan Menken, nessuna canzone resta davvero impressa nella mente e la colonna sonora, pur vitale e trascinante, scorre anonima e senza picchi. Molto bella, comunque, "All that I needed" cantata da Ne-Yo sui titoli di coda.

Voto: 7

domenica 27 dicembre 2009

Sherlock Holmes blockbuster elementare


Tratto dal fumetto di Lionel Wigram a sua volta ispirato ai racconti di Sir Conan Doyle, questo nuovo Sherlock Holmes è quanto di meno accademico e fedele alla figura originaria dell'investigatore londinese ci si possa aspettare. Giovanilistico e fracassone, immerso in una Londra plasticosa graficamente ricostruita al computer, il debutto del talentaccio britannico dell'action movie Guy Ritchie (ex signor Ciccone) nel cinema mainstream ha ritmo da vendere e muscoli in bella mostra ma è fin troppo preoccupato dal suo voler essere cool e alla moda che resta perennemente in superficie, bidimensionale, appunto, come una striscia di fumetti.


I personaggi creati dalla penna di Conan Doyle sono sottoposti ad un'inevitabile modernizzazione che non lascia spazio a qualsiasi riflessione o autentica emozione. Il registro è brillante (anche se ci si aspetterebbe di ridere di più) e l'azione non dà tregua, sebbene la trama (un misterioso caso di magia nera) non sia che un semplice pretesto per motivare le scene d'azione (ma la sequenza d'apertura è travolgente e getta immediatamente lo spettatore nel cuore dell'azione). Montaggio frenetico, fumi e fiumi di stupefacenti ed arti marziali: ecco servito un Holmes postmoderno che non deluderà i più giovani anche per merito dei due protagonisti. Robert Downey Jr, rinato a nuova vita dopo Iron Man, è un ironico, trasgressivo, sfatto e fumatissimo Holmes, impegnato in una performance fisica e stilizzata al tempo stesso, mentre l'inglesissimo Jude Law è il suo fedele socio Watson, medico legale d'ineffabile tempismo nel tirare l'amico fuori dai guai. Entrambi fuori parte, ma così belli e bravi da valere da soli molto di più della regia sovraeccitata di Ritchie. Spiritosi i loro battibecchi coniugali ma è davvero insensato che in due ore di pellicola non si senta pronunciare la celebre battuta "Elementare Watson!".


65 milioni di dollari incassati in America nel primo week end di programmazione: un successo stratosferico previsto su tutti i mercati tale da giustificare un finale aperto al sequel. Come tambureggiante digestivo post-pranzo di Natale il blockbuster funziona a dover, ma se volete approfondire il personaggio dell'investigatore di Scotland Yard, ripassate La vita privata di Sherlock Holmes, malinconico e beffardo capolavoro di Billy Wilder.

Voto: 6

"Quando un mostro incontra un altro mostro...

... uno dei due deve cedere il passo, e non sarò mai io a farlo".



"Un assegno firmato è un pagamento per consegna di merce ed io ho solo un mezzo per scordare le cose che non voglio rammentare. E quel mezzo è fare l'amore. E' la sola positiva distrazione. Io ne sento la necessità, adesso. Vieni qui accanto a me e prova a farmi credere che siamo una coppia di giovani amanti senza alcuna vergogna".

Alexandra Del Lago (Geraldine Page) a Chance Wayne (Paul Newman) in La dolce ala della giovinezza di Richard Brooks

mercoledì 23 dicembre 2009

Big Julia smile as Christmas gift


Julia Roberts gioisce alla notizia dell'inattesa candidatura ai Golden Globes come comedy actress per il film Duplicity. Quale migliore regalo del suo contagioso sorriso per augurare a tutti voi un altrettanto felice, vitale ed euforico Natale? A tutti i miei lettori, Oscar-addicted e non, buone feste!

martedì 22 dicembre 2009

Marion il cuore di Nine


La critica americana non avrà apprezzato il film (recensioni piuttosto freddine), ma tutti sono concordi nel definire la performance di Marion Cotillard nel ruolo di Luisa Contini, moglie del regista in crisi d'ispirazione Guido Contini (Daniel Day-Lewis), la cosa migliore del musical Nine (in Italia dal 15 gennaio), il suo cuore autentico e vibrante.

Lodi (e candidature ai Golden Globes e agli SAG) anche a Penelope Cruz: buca lo schermo con un travolgente sense of humour ed un scintillante sex appeal ma non riesce vocalmente a sollevare da una resa piuttosto piatta l'esibizione di "A call from the Vatican" (perdendo il confronto con l'interprete teatrale, Jane Krakowski, vincitrice del Tony e capace di strappare applausi a scena aperta). Marion Cotillard, invece, sa cantare sul serio e riesce ad esprimere in modo organico il contenuto delle canzoni attraverso una buona padronanza tecnica. "My husband makes movies" e "Take it all" (il brano che sostituisce l'originale "Be on your own") ne sono la prova in termini di performance vocale.


Candidata al Golden Globe nella categoria miglior attrice comedy/musical, la Cotillard non può battere la Meryl Streep di Julie & Julia, e ci vorrebbe un miracolo perché spodesti dalla cinquina delle previsioni per le nomination agli Oscar Helen Mirren (Streep, Mulligan, Sidibe e Bullock sembrano sicure). Scelta migliore sarebbe stata quella di far gareggiare l'attrice francese come non protagonista (essendo in effetti un ruolo di supporto) ma Penelope Cruz sembra avere già in mano la candidatura in questa categoria e i Weinstein hanno preferito non mettere le due star in competizione. Se l'Academy riconoscerà il ruolo di Luisa come supporting turn evitando le strategie promozionali dei Weinstein (come è successo l'anno scorso con Kate Winslet per The Reader: nonostante la campagna pubblicitaria la promuoveva come supporting, è stata giustamente candidata come lead) la Cotillard potrebbe essere nominata assieme a Penelope Cruz. A questo punto nella cinquina non ci sarebbe più spazio per Julianne Moore o Vera Farmiga. Assieme alla gara tra gli ex coniugi Cameron e Bigelow, è al momento il motivo di maggior interesse della corsa agli Oscar.

Blanchett nuova Lady Marian


E' già su Youtube il trailer dell'attesissimo Robin Hood di Ridley Scott con Russell Crowe e Cate Blanchett, in uscita il 14 maggio 2010. Per il ruolo di Lady Marian era in lizza anche la bellissima attrice inglese Sienna Miller, ma alla fine l'ha spuntata la Blanchett, capace di unire con risultati sempre eccellenti qualità artistica e starpower (i suoi ultimi film, Il curioso caso di Benjamin Button e Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, sono stati enormi successi al box office). In più, l'accoppiata tutta australiana Crowe-Blanchett promette faville sulla carte. Aspettiamoci violenza gladiatoria e sequenze di selvaggia e mascolina battaglia (come si evince dal trailer). Ed auguriamoci che Scott non dimentichi il lato romantico, intimista e melo' del racconto. Con due attori così sarebbe un peccato.

lunedì 21 dicembre 2009

I miei Oscar: 1994




Annata seminale il 1994. Due film si divisero in assoluto i favori del pubblico e della critica: l’instant classic Forrest Gump di Robert Zemeckis e la rivelazione destrutturalista Pulp Fiction di Quentin Tarantino. Ovviamente agli Oscar trionfò il classico, ma apparve subito evidente l’importanza seminale del film di Tarantino, che avrebbe influenzato di lì a poco le modalità narrative e la rappresentazione della violenza in tutto il cinema contemporaneo. Non rivedo entrambi i film da troppi anni, ma all’epoca preferii l’epopea gumpiana. Credo che a sorprendermi adesso potrebbe essere solo la follia tarantiniana.
Lacrime a fiumi ancor più che nel 1994 mi ha provocato di recente Il re leone, uno dei più complessi, drammatici ed adulti cartoon che la Disney abbia mai realizzato, mentre non perde un briciolo della sua perfida ironia anche dopo ripetute visioni la commedia Quattro matrimoni e un funerale di Mike Newell. Ancora sul versante commedia, la sorpresa dell’anno fu certamente il delirio en travesti Priscilla La Regina del deserto di Stephen Elliott, ormai un cult movie nei circuiti gay, mentre il bellissimo Ed Wood, omaggio di Tim Burton al peggiore regista della storia del cinema fotografato in un raffinato bianco e nero, confermò il sublime talento del suo autore. Natural Born Killers di Oliver Stone, sovraeccitato, sovraccarico e controverso racconto della fuga attraverso l’America di due giovani amanti criminali, ebbe modo di dividere la critica ma il film maledetto della stagione fu Intervista col vampiro di Neil Jordan, imperfetto e vibrante viaggio nel mondo delle tenebre in bilico tra grottesco, horror e melo’, e interpretato da un cast all star (Cruise, Pitt, Banderas). Molti fuori parte, ma tutti maledettamente affascinanti.


Jessica Lange, dodici anni dopo la vittoria come non protagonista per Tootsie, vinse finalmente come miglior attrice per Blue Sky, un film irrisolto il cui unico motivo di interesse è la performance della diva: nel ruolo della sensuale Carly, instabile e fragile moglie dell’ufficiale Hank Marshall (Tommy Lee-Jones) in piena guerra fredda, la Lange torna in zona Frances (nevrosi e scene madri a raffica, ma gestite con grande carisma) e gioca al meglio tutte le sue carte. Winona Ryder, adorabile Jo March in Piccole Donne di Gillian Armstrong, fu candidata non tanto per l’effettivo valore della performance, quanto perché l’anno precedente non aveva vinto per L’età dell’innocenza. La stessa cosa si può dire, con i dovuti distinguo, per Susan Sarandon, alla quarta nomination per Il Cliente. Il 1994 fu un grande anno per la Sarandon: il film tratto dal bestseller di John Grisham fu un successo al box office e l’attrice era eccezionale nei panni dell’avvocatessa Reggie Love, matura, sexy, avventurosa ed ironica come solo la Sarandon sa essere. Ancora una volta un discreto film di genere sollevato dalla qualità dell’interprete. L’attrice era sugli schermi anche nel dramma Safe Passage e in Piccole Donne: tra le cinque candidate, senza dubbio la migliore. Gli altri due nomi in lizza erano la sempre brava Miranda Richardson per Tom e Viv e Jodie Foster, ragazza selvaggia nel discreto Nell.


Una cinquina piuttosto debole che avrebbe potuto facilmente essere composta da altri nomi, tutti ugualmente meritevoli. Meryl Streep cercava di uscire dall’impasse dei primi anni ’90 e si dimostrò potente e credibile nell’action thriller Il fiume della paura. Sia la deliziosa Andie McDowell di Quattro matrimoni e un funerale che la strepitosa Jamie Lee Curtis di True Lies dovettero accontentarsi solo di una nomination ai Golden Globes. Andò peggio a Juliette Lewis, completamente ignorata per la feroce performance in Natural Born Killers e a Kate Winslet, al debutto in Creature del cielo di Peter Jackson e già bravissima. Sigourney Weaver fu impressionante nel dramma La morte e la fanciulla di Roman Polanski (interpretato a teatro da Glenn Close) ma l’ attrice che nel 1994 avrebbe dovuto vincere l’Oscar era Jennifer Jason Leigh, straordinaria sia in Mrs Parker e il circolo vizioso di Alan Rudolph che nella commedia capriana dei Coen Mr Hula Hoop.


Tra le attrici non protagoniste stupisce l’assenza nella cinquina di Kirsten Dunst, diabolica ed insaziabile bambina vampiro nel film di Neil Jordan, e di Robin Wright Penn per il bel ruolo di Jenny, il grande amore di Forrest Gump. E furono snobbate anche Sally Field (Forrest Gump) e la già citata Susan Sarandon, molto intensa in Piccole Donne. Le cinque candidate furono Dianne Wiest (la vincitrice), esilarante come capricciosa diva in declino (ispirata alla Gloria Swanson di Viale del tramonto) e la perfetta svampita pupa del boss Jennifer Tilly, entrambe interpreti di Pallottole su Broadway di Woody Allen; Rosemary Harris per Tom e Viv; Helen Mirren alla sua prima nomination per La pazzia di Re Giorgio e Uma Thurman, esplosiva Mia Wallace in Pulp Fiction. Ancora una volta l’Academy confermava la propria miopia non riconoscendo il valore iconico di una performance in cui carisma dell’attore, fisicità del personaggio e visione del regista si fondono perfettamente in un mix esaltante.


Tra gli uomini Tom Hanks trionfò per il secondo anno consecutivo come miglior attore per Forrest Gump. Gli altri candidati erano il redivivo e travolgente John Travolta, memorabile Vincent Vega in Pulp Fiction, Paul Newman in La vita a modo mio di Robert Benton, Nigel Hawthorne per La pazzia di Re Giorgio e Morgan Freeman, interprete di una delle sorprese dell’anno, Le ali della libertà, dramma carcerario tratto da Stephen King e diretto da Frank Darabont. Per lo stesso film il coprotagonista Tim Robbins (perfetto come moderno Jimmy Stewart anche in Mr Hula Hoop) non venne degnato di alcun riconoscimento (come era avvenuto nel 1992, quando fu snobbato sia per I protagonisti che per Bob Roberts), ma l’Academy ignorò anche Ralph Fiennes (Quiz Show), Woody Harrelson (Natural Born Killers) e Johnny Depp (Ed Wood). Per non parlare di Terence Stamp, divino in Priscilla, Jim Carrey in The Mask, ruolo della consacrazione dopo l’exploit di Ace Ventura e Hugh Grant, di colpo star con Quattro matrimoni e un funerale. A chi avrei dato l’Oscar? John Travolta. Per quel twist con Uma.


Per quanto riguarda i non protagonisti tutti lamentano il fatto che la performance di John Turturro in Quiz Show non abbia ricevuto alcuna candidatura. Quanto ai nominati, notevolissimi erano Samuel L. Jackson (Pulp Fiction), Chazz Palminteri (Pallottole su Broadway), Gary Sinise (Forrest Gump) e Paul Scofield (Quiz Show). L’Oscar andò a Martin Landau, stupefacente incarnazione di Bela Lugosi in Ed Wood.

Beautiful night





11 Settembre 2009, prima mondiale del film A Single Man di Tom Ford con Colin Firth, Julianne Moore, Matthew Good, Nicholas Hoult. Una serata indimenticabile. Un film bellissimo. Nei cinema italiani dal prossimo marzo.

Addio Jennifer e Brittany


Un'altra stella del cinema classico ha smesso di brillare sulla terra e continuerà a farci luce dal cielo. Il 17 dicembre scorso è scomparsa all'età di 90 anni l'attrice americana Jennifer Jones, cinque volte candidata all'Oscar e vincitrice della statuetta nel 1943 per il film Bernadette. Ma la sua interpretazione più appassionata ed incandescente è quella della meticcia Pearl nell'infuocato western-melo' di King Vidor Duello al sole con Gregory Peck e Joseph Cotten.


Brittany Murphy aveva invece solo 32 anni ed era lontana dalle scene dal 2006. All'inizio del decennio era una delle giovani attrici più richieste a Hollywood: Ragazze a Beverly Hills, Ragazze interrotte, 8 Miles, Don't say a word e Sin City sono i suoi titoli più celebri. Ieri mattina è deceduta per arresto cardiaco, pare sia stata la madre a trovare il corpo sotto la doccia. Quest'autunno era stata licenziata dal set del suo ultimo film per motivi che non sono stati resi noti. Ma l'attrice in passato aveva avuto problemi di abuso di sostanze. Il pensiero va alle altre giovani stelle di Hollywood stroncate prematuramente: River Phoenix, Brad Renfro, Heath Ledger.

Avatar conquista il box office US


Era facilmente prevedibile, ma di fronte a numeri del genere c'è sempre da rimanere a bocca aperta. Avatar, l'incredibile sci-fi movie che segna il ritorno di James Cameron a dodici anni di distanza da Titanic, ha incassato 73 milioni di dollari nel primo week end di programmazione nelle sale americane. Si tratta della più alta partenza per un uscita di dicembre dopo Io sono leggenda con Will Smith, che nel 2007 aveva registrato un pazzesco esordio con 77 milioni. Ricordiamo che nel dicembre del 1997 Titanic incassò in proporzione molto meno: solo 28 milioni nel primo week end ma, come tutti sappiamo, ebbe modo di rifarsi e di crescere a dismisura con il passaparola, diventando ad oggi il più grosso successo di tutti i tempi con i suoi 600 milioni incassati sul territorio americano. La stessa cosa dovrebbe accadere con Avatar, anche se, trattandosi di un film di genere, difficilmente potrà avvicinarsi agli incassi stratosferici del film precedente. Nel frattempo, l'ottima accoglienza della critica (il film registra un ragguardevolissimo 83% di recensioni positive) sta spianando la strada per le candidature agli oscar come miglior film e miglior regia (oltre alle più scontate categorie tecniche).

Al secondo posto della classifica americana troviamo il cartoon Disney La principessa e il ranocchio, arrivato a quota 44 milioni, mentre prosegue la marcia trionfale del dramma The Blind Side con Sandra Bullock in odor di nomination: 164 milioni sono una cifra astronomica se si considera che il film ne è costati circa 30. Discreti (almeno finora) i risultati di Invictus di Eastwood (sesto posto, con quasi 16 milioni) e Up in the Air di Reitman (ottavo, con solo 8 milioni, ma il film con Clooney è ancora distribuito in poche copie).

In Italia il primo week end natalizio è stato vinto dal cinepanettone della coppia Parenti-De Sica, mentre la partenza di Pieraccioni è al di sotto delle aspettative (e guarda caso, il film è dignitosissimo). Mentre faticano a conquistarsi fette di pubblico i due film più belli del momento: A Serious Man dei fratelli Coen e Il mio amico Eric di Ken Loach. Viva l'Italia!

"Non lo sai cosa farei, non ne hai idea...

... per vivere."



"Bobo non cerca te, Bobo cerca me!

Lui ci sa fare, ma ci so fare anch'io...

Io sopravvivo sempre Roy e sopravviverò anche stavolta!

E per sopravvivere a modo mio ho bisogno di soldi,

ed io me li prendo."


Lilly Dillon (Anjelica Huston) a Roy Dillon (John Cusack) nel film Rischiose Abitudini (The Grifters) di Stephen Frears

domenica 20 dicembre 2009

Dorian Gray e l'orrido riflesso del sé


Dopo una settimana di visioni pressocché sconfortanti, in cui fra Amelia e Arthur e la vendetta di Maltazard di Luc Besson (in uscita il 30 dicembre) persino l'ultimo Pieraccioni sembrava pregevole, mi sono concesso un tuffo nel cinema di genere ed ho recuperato un film uscito il mese scorso. Terzo adattamento di Oliver Parker da un lavoro di Oscar Wilde dopo le commedie L'importanza di chiamarsi Ernesto e Un marito ideale, Dorian Gray non delude le aspettative (probabilmente perché nel mio caso erano piuttosto basse) e regala due ore di goticissimo, efferato intrattenimento.

Nell'accostarsi ad uno dei capolavori della letteratura inglese, Parker compie da un punto di vista visivo e di editing un'operazione simile a quella dei fratelli Hughes per La vera storia di Jack lo Squartatore con Johnny Depp: affresca una Londra nebbiosa e degradata, spinge il pedale sulla violenza e sul lato orrorifico, accompagna il racconto con un tetrissimo commento musicale e sottopone il materiale narrativo ad una modernizzazione inevitabile, fatta di accelerazioni, frenetici tagli di montaggio e una costante ricerca di effetti sonori e visivi.


Tuttavia riesce a non snaturare lo spirito dell'opera, che rivive sullo schermo in tutta la sua forza simbolica ed immaginifica. Il risvolto demoniaco, la fascinazione omosessuale della figura di Dorian, la riflessione filosofica sulla bellezza, il decadimento fisico come metafora della malattia e della corruzione dell'anima, il perturbante motivo del doppio magistralmente simbolizzato dal ritratto: tutto torna e risuona con efficacia nell'adattamento di Parker.

Ma il film funziona soprattutto nel racconto della progressiva corruzione del giovane Dorian. Guidato da Henry Wotton (un sopraffino Colin Firth), mellifluo Virgilio che lo accompagna in un'autentica discesa agli inferi insegnandogli il piacere della dissolutezza, Dorian si concede con puro, totale abbandono ai vizi della carne e alle depravazioni più efferate. Parallelamente il suo ritratto inizia ad invecchiare e come uno specchio si macchia dei segni tangibili di tutto il male che Dorian commette. Ed intanto il giovane continua a mantenere un aspetto di intaccabile, sempiterna beltà.


Con grande intuito, Parker non mostra (almeno fino all'epilogo) i mutamenti del ritratto se non attraverso piccoli dettagli (i sussurri rantolanti, il fondo che goggiola materiale organico in putrefazione), e tanto più numerose sono le cattive azioni di Dorian tanto più immaginiamo che il suo ritratto diventi orrido e mostruoso. La scelta di non mostrare l'accumularsi dei segni del male sul ritratto è così efficace che crea un vuoto spaziale spaventoso che ogni spettatore colma con la propria immaginazione. Di conseguenza, il finale facilmente delude perché mostra in un delirio di effetti speciali quello che prima era giustamente inguardabile e, per sua natura, perturbante: la propria anima marcia e malata.

Se avesse avuto più coraggio, Parker non avrebbe mai dovuto mostrare il ritratto nemmeno nel finale, o perlomeno avrebbe dovuto andarci meno pesante con gli effetti visivi. Gratuite anche un paio di inquadrature "soggettive" dalla prospettiva del ritratto: che sia vivo è chiaro, ma che abbia una specie di videocamera nascosta con cui guarda i personaggi (è quello l'effetto!) sembra davvero una forzatura.

Grande Colin Firth, ma è Ben Barnes, già principe Caspian, a dominare lo schermo, bellissimo soggetto del proprio desiderio ed enigmatico oggetto sessuale per l'obiettivo desiderante della macchina da presa. Assolutamente perfetto quando si abbandona al male con innocenza e lascivia.

Voto: 7

giovedì 17 dicembre 2009

Screen Actors Guild candidature


Annunciate oggi le nominations per gli Screen Actors Guild Awards, i premi dell'associazione degli attori americani. Tutto noiosamente secondo le previsioni, a parte due piccole sorprese.

Miglior attore
George Clooney (Up in the Air) / Jeff Bridges (Crazy Heart) / Colin Firth (A Single Man) / Morgan Freeman (Invictus) / Jeremy Renner (The Hurt Locker)

Miglior attrice
Sandra Bullock (The Blind Side) / Helen Mirren (The Last Station) / Carey Mulligan (An Education) / Gabourey Sidibe (Precious) / Meryl Streep (Julie & Julia)

Miglior attore non protagonista
Matt Damon (Invictus) / Woody Harrelson (The Messanger) / Christopher Plummer (The Last Station) / Stanley Tucci (The Lovely Bones) / Christoph Waltz (Bastardi senza gloria)

Miglior attrice non protagonista
Penelope Cruz (Nine) / Vera Farmiga (Up in the Air) / Diane Kruger (Bastardi senza gloria) / Anna Kendrick (Up in the Air) / Mo'Nique (Precious)

Miglior cast
An Education / The Hurt Locker / Nine / Bastardi senza gloria / Precious

Matt Damon tra i non protagonisti ripete l'exploit dei Golden Globes e sembra assicurarsi un posto nella cinquina a discapito di Alfred Molina (An Education). A Julianne Moore gli SAG preferiscono Diane Kruger, efficace femme fatale nel film di Quentin Tarantino. Questo potrebbe minare le (mie?) speranze di una candidatura agli Oscar per la Moore.

It's Meryl again


Meryl Streep ed Alec Baldwin campeggiano maturi e sorridenti dalla copertina di Entertainment Weekly pronti a conquistare il box office americano: sono i protagonisti, assieme a Steve Martin, di It's Complicated, il nuovo film di Nancy Meyers in uscita a Natale negli States e già candidato ai Golden Globe come miglior commedia dell'anno e miglior sceneggiatura. Baldwin sta vivendo una nuova giovinezza professionale con la serie televisiva di successo 30 Rocks, mentre per la Streep si conferma un finale di decennio trionfale. Sarà pure Nicole Kidman l'attrice più importante d'inizio millennio (anche se, a parte Il matrimonio di mia sorella del 2007, le sue ultime grandi prove risalgono al 2003 con Birth e Dogville, mentre sia Cate Blanchett che Kate Winslet hanno avuto un output creativo eccezionale fino al 2008), ma la Streep, sulla cresta dell'onda dal 1977 (!) si è definitivamente ripresa il trono di regina di Hollywood ed ormai gareggia con le leggendarie Katherine Hepburn e Bette Davis per il titolo di attrice più grande di tutti i tempi.
Fresca di una doppia candidatura ai Golden Globes (per il film della Meyers e Julie & Julia di Nora Ephron), la Streep bissa lo strepitoso successo di critica e pubblico dello scorso anno (Mamma mia! e Doubt) e si prepara il discorso per la notte degli Oscar.

Vagonate di retorica sul biopic della Earhart


Le prime note solenni e cerimoniose della colonna sonora di Gabriel Yared promettono già malissimo. Ma non ti aspetteresti mai che un cast tecnico ed artistico di così alto livello possa essere sprecato fino a questo punto. Amelia è il peggio che Hollywood possa offrire al giorno d'oggi: un film già concluso e morto sin dalle primissime scene. E non perché tutti conoscono la tragica sorte della grande aviatrice americana, ma perché non c'è nessuna idea di scrittura a reggere l'operazione, solo vagonate di gonfia, pomposa retorica: personaggi privi di spessore psicologico, dialoghi da melo' di terz'ordine, immagini da cartolina ed una voce fuori campo che si vorrebbe poetica ma è soltanto di una banalità sconcertante.

Nemmeno gli attori possono far molto per salvare la baracca: il pur bravo Ewan McGregor sembra un bambolotto di porcellana che va e viene dalla scena senza alcun rilievo effettivo sulla storia, mentre la spaesata e mascolina Hilary Swank non riesce a trovare di meglio che sorridere in continuazione per esprimere l'entusiasmo e il desiderio di libertà del personaggio, ma non è a suo agio in abiti d'epoca (per quanto la somiglianza con la Earhart sia notevole). Se la scena poi lo richiede, cambia (addirittura) espressione e mette su il muso lungo o piange a comando in un paio di momenti che sembrano fatti apposta per le clip degli Oscar (ma agli Oscar questo film non lo vedremo, grazie a Dio). E' desolante vedere come a volte gli attori si affannino a giustificare una densità emotiva che il film costantemente e quasi deliberatamente nega. Quanto a Richard Gere, sembra ormai l'equivalente maschile di Cher: liftatissimo e congelato in un eterno sorrisetto sornione e malandrino, è troppo vecchio per la parte e sembra ancora in zona Billy Flynn di Chicago. Ma il problema più evidente è che insieme alla Swank forma la coppia meno credibile e peggio assortita della storia da che ho memoria.

La regista Mira Nair sembrava la scelta perfetta per una storia del genere, ma bisognava affidarsi ad una sceneggiatura meno vacua e convenzionale. Un'occasione tragicamente sprecata per ricordare con dignità un'eroina del secolo scorso: peccato non essere riusciti ad accendere la benché minima scintilla di un autentico conflitto drammatico.
Voto: 2

martedì 15 dicembre 2009

Golden Globes nominations!


Dopo The Boston Film Critics Society (miglior film The Hurt Locker; regia Kathryn Bigelow per The Hurt Locker; attrice Meryl Streep per Julie&Julia; attore Jeremy Renner per The Hurt Locker; attrice non protagonista Mo'Nique per Precious; attore non protagonista Christoph Waltz per Bastardi senza gloria); The Los Angeles Film Critics Association (miglior film e regia The Hurt Locker; attrice Yolande Moreau per Seraphine; attore Jeff Bridges per Crazy Heart; non protagonisti Mo'Nique e Waltz) e The New York Film Critics Association (film e regia The Hurt Locker; attrice Meryl Streep; attore George Clooney per Up in the Air; non protagonisti Mo'Nique e Waltz), oggi sono state finalmente annunciate le candidature per i Golden Globes, i premi della stampa estera ad Hollywood, da sempre considerati anticamera degli Oscar.


Miglior film drammatico
Avatar / The Hurt Locker / Bastardi senza gloria / Precious / Up in the Air

Miglior commedia/musical
(500) giorni insieme / The Hangover / Nine / It's Complicated / Julie & Julia

Miglior regia
Kathryn Bigelow (The Hurt Locker) / James Cameron (Avatar) / Clint Eastwood (Invictus) / Jason Reitman (Up in the Air) / Quentin Tarantino (Bastardi senza gloria)

Probabilmente saranno questi i nomi dei registi candidati all'Oscar. Lee Daniels, regista di Precious, qui escluso, potrebbe spuntarla alla fine su Eastwood o, più probabilmente, su Tarantino. Ma la gara è tutta tra Bigelow e Cameron, ex-marito e moglie l'un contro l'altro armati!
Snobbati sia come miglior film che come miglior regia An Education e soprattutto Bright Star di Jane Campion.

Miglior attrice in un film drammatico
Emily Blunt (The Young Victoria) / Sandra Bullock (The Blind Side) / Helen Mirren (The Last Station) / Carey Mulligan (An Education) / Gabourey Sidibe (Precious)

Miglior attrice in una commedia/musical
Sandra Bullock (Ricatto d'amore) / Marion Cotillard (Nine) / Julia Roberts (Duplicity) / Meryl Streep (Julie & Julia) / Meryl Streep (It's Complicated)

Incredibile riconoscimento (ma era tragicamente nell'aria) per Sandra Bullock in entrambe le categorie. Non stupisce anche la doppia nomination come attrice comica per Meryl Streep (arrivata a quota 25 candidature!): probabilmente è arrivato l'anno in cui Meryl riuscirà a mettere la mani sul terzo meritatissimo Oscar. Inattesa la candidatura per Julia Roberts, ma i GG la adorano (l'avevano candidata anche due anni fa per il supporting turn di Charlie Wilson War) ed è sempre una grande star (mille volte meglio lei della Bullock). Possibile che non c'era posto per la favolosa Michelle Pfeiffer di Chéri? La sua stella è ormai definitivamente in declino? Immensa tristezza. Quanto alla lista delle attrici drammatiche, Emily Blunt ottiene a sorpresa la candidatura al posto di Abbie Cornish, apprezzata protagonista di Bright Star e, come previsto, Tilda Swinton è stata completamente ignorata per il film Julia.

Miglior attore in un film drammatico
Jeff Bridges (Crazy Heart) / George Clooney (Up in the Air) / Colin Firth (A Single Man) / Morgan Freeman (Invictus) / Tobey McGuire (Brothers)

La vera sorpresa è Tobey McGuire per il dramma di Jim Sheridan (recensioni freddine): i GG lo hanno preferito ai più quotati Jeremy Renner per Hurt Locker e Viggo Mortensen per The Road. Credo che gli Oscar voteranno per Renner, visto lo straordinario supporto che il film della Bigelow sta ricevendo dalle associazioni dei critici.

Miglior attore in una commedia/ musical
Matt Damon (The Informant) / Daniel Day-Lewis (Nine) / Robert Downey Jr (Sherlock Holmes) / Joseph Gordon-Levitt (500 giorni insieme) / Michael Stuhlbarg (A Serious Man)

Credo che nessuno di questi attori a parte Matt Damon abbia chance effettive di una candidatura agli Oscar (nemmeno Daniel Day-Lewis, data l'accoglienza non entusiatica che la critica sta riservando a Nine), ma fa immensamente piacere vedere candidato Michael Stuhlbarg, eccellente interprete del film dei fratelli Coen.

Miglior attrice non protagonista
Penelope Cruz (Nine) / Vera Farmiga (Up in the Air) / Anna Kendrick (Up in the Air) / Mo'Nique (Precious) / Julianne Moore (A Single Man)

Lasciatemi gioire per Julianne Moore. Probabile cinquina degli Oscar, ma credo che alla fine Marion Cotillard sarà candidata come non protagonista al posto della Cruz. Saldissima Mo'Nique, che sta vincendo tutti i premi della critica, ed in ascesa le ragazze di Up in the Air. Ignorata Samantha Morton per The Messanger.

Miglior attore non protagonista
Matt Damon (Invictus) / Christoph Waltz (Bastardi senza gloria) / Woody Harrelson (The Messanger) / Christopher Plummer (The Last Station) / Stanley Tucci (The Lovely Bones)

Doppia nomination anche per Matt Damon: difficile immaginare che gli Oscar si dimentichino di entrambe le sue performance. In questa categoria i GG lo hanno preferito al celebratissimo Alfred Molina di An Education, film che peraltro ha raccolto solo un'altra candidatura per la migliore attrice.

Miglior film straniero
Baaria / Gli abbracci spezzati / Il nastro bianco / A Prophet / The Maid

Giuseppe Tornatore ce la fa, ma anche Matteo Garrone per Gomorra era stato riconosciuto dalla stampa estera americana e poi escluso dalla cinquina degli Oscar. Impossibile però che Baaria sia preferito al film di Haneke o a The Prophet di Audiard.

Miglior film d'animazione
Cloudy with a Chance of Meatballs / Coraline / The Fantastic Mr Fox / Up / La principessa e il ranocchio

Grande cinquina. Coraline è un capolavoro e si parla un gran bene di The Fantastic Mr Fox di Wes Anderson. Up è stato un successo mondiale e il nuovo Disney promette bene.

Nominata anche la magnifica colonna sonora del film A Single Man: se esce sul mercato italiano prima delle feste, sarà il mio regalo di Natale. Per me stesso.

lunedì 14 dicembre 2009

Inside my heart is breaking...


... my make-up may be flaking
but my smile still stays on"

"The show must go on / The show must go on/

I'll top the bill / I' ll learn the kill /

I have to find the will

to carry on with the

on with the

on with the show"

Satine (Nicole Kidman) in Moulin Rouge di Baz Luhrmann

domenica 13 dicembre 2009

I miei Oscar: 1993

Film dell'anno L'età dell'innocenza di Martin Scorsese



2° posto Lezioni di piano di Jane Campion


Il 1993 è l'anno del film che più di ogni altro ha sconvolto il mio mondo adolescente e posto le radici del mio amore per il melodramma, rimanendo da solo al vertice della mia classifica per quasi un decennio. Si tratta de L'età dell'innocenza di Martin Scorsese, raffinatissima e crudele storia d'amore tratta dal romanzo di Edith Wharton, un film talmente perfetto in ogni suo elemento (forma e contenuto, visione e narrazione, attori e colonna sonora di Elmer Bernstein, malinconica e struggente) da toccare le vette del sublime cinematografico (il tramonto infuocato sul molo, il bacio in carrozza, il finale a Parigi, solo per citare alcuni momenti memorabili). Ma il 1993 fu un anno ricco di gemme rare: la tempestosa fantasia femminile di Lezioni di piano, diretto da Jane Campion e saldamente al secondo posto tra i film dell'anno (magnifica la partitura di Michael Nyman, diventata un classico); l'epica nazista di Schindler's List di Steven Spielberg, trionfatore agli Oscar; l'opera in assoluto più bella di James Ivory, Quel che resta del giorno, l'emozionante Nel nome del padre di Jim Sheridan e l'importante Philadelphia di Jonathan Demme, prima ricognizione hollywoodiana sul dramma dell'aids. E come dimenticare Nightmare Before Christmas di Henry Selick e Tim Burton autentico cult movie in stop-motion?


Tra le attrici l'Oscar non poteva non andare alla meravigliosa Holly Hunter di Lezioni di piano: la sua Ada, fiera, ostinata, scontrosa e fragile al tempo stesso, è una delle performance del decennio e il modo in cui la Hunter si esprime solo attraverso lo sguardo, il linguaggio del corpo e la musica del pianoforte è stupefacente. Scandaloso, tuttavia ,che le altre due grandi interpretazioni dell'anno siano state ignorate dagli Oscar: Juliette Binoche in Film Blu e la divina Michelle Pfeiffer de L'età dell'innocenza. Nel difficile ruolo di Madame Olenska la Pfeiffer va ancora più a fondo nella sua ricerca (dimostrando ancora una volta la sua incredibile versatilità), emergendo con una prova di grande naturalezza ed (apparente) semplicità, trattenuta, sfumata, intensa e contemporaneamente sfolgorante (nelle pose e nelle stupende inquadrature che Scorsese le regala). Ancora una volta troppo (bella, brava ed autentica) per essere riconosciuta.


Le altre candidate erano la bravissima Emma Thompson (sebbene Quel che resta del giorno sia dominato soprattutto da un monumentale Anthony Hopkins) e Stockard Channing nella sorprendente commedia drammatica Sei gradi di separazione. Sopravvalutate invece Angela Bassett nella biografia di Tina Turner What's love got to do with it? e Debra Winger nel dramma Shadowland. La Winger era anche l'acclamata interprete di Una donna pericolosa e, con due titoli in competizione, era inevitabile che ottenesse una nomination.


Tra le non protagoniste, l'ambigua e sotterranea Winona Ryder de L'età dell'innocenza si vide sottrarre il premio dalla giovanissima Anna Paquin di Lezioni di piano. Notevoli le altre candidate: Holly Hunter ed Emma Thmpson fecero il bis e vennero nominate anche come supporting character rispettivamente per Il socio e Nel nome del padre. Ma la May Welland di Winona Ryder, con il suo "doppio" candore e la sua apparente ingenuità, è un personaggio difficile da dimenticare.

Eccezionali gli interpreti maschili. Tom Hanks vinse per Philadelphia nel ruolo dell'avvocato gay Andrew Beckett ammalato di aids. Tuttavia il 1993 era l'anno di Daniel Day-Lewis con le prove magnifiche (quanto di più opposto e lontano si possa chiedere ad uno stesso attore) de L'età dell'innocenza e Nel nome del padre (per cui fu candidato).

Se nel 1989 avesse vinto Jeremy Irons per Inseparabili (come avrebbe dovuto essere, e non Day-Lewis per Il mio piede sinistro), l'Oscar 1993 avrebbe dovuto essere suo. Grandi anche Hopkins nel film di Ivory e Liam Neeson in Schindler's List. Al posto di Lawrence Fishbourne (What's love got to do with it?), avrei candidato senza dubbio l'emozionante Al Pacino di Carlito's Way. Ignorati Harrison Ford per Il fuggitivo, Robin Williams per Mrs Doubtfire e Denzel Washington per Philadelphia.

Carlito's way, memorabile mix di thriller, romance, noir e ganster's movie tra le vette del cinema di Brian de Palma, avrebbe meritato anche la candidatura tra i non protagonisti per Sean Penn. Il vincitore della categoria fu Tommy Lee Jones per Il fuggitivo, ma ugualmente straordinari erano anche il giovanissimo Leonardo di Caprio per Buon compleanno Mr Grape e l'allora poco conosciuto Ralph Fiennes, gelido ufficiale nazista in Schindler's List. Gli altri candidati erano il grande John Malkovich (Nel centro del mirino) e Pete Postlethwaite (Nel nome del padre).

sabato 12 dicembre 2009

Un tram che si chiama capolavoro


L'eco del trionfo sulle scene newyorkesi della nuova produzione australiana di Un tram che si chiama desiderio mi ha sottilmente persuaso a rivedere la trasposizione cinematografica dell'opera di Tennessee Williams. Avevo visto il film di Elia Kazan (regista anche dell'allestimento originale) negli anni dell'Università e ricordo che mi aveva commosso, emozionato e turbato per la torbida sensualità delle atmosfere, per il linguaggio al tempo stesso lirico e realistico e, ovviamente, per la potenza delle performance. Sarà che sono passati circa una decina d'anni (sono così invecchiato?) e che all'epoca non potevo cogliere tutte le sfumature di un dramma tanto stratificato, complesso ed allusivo, ma la visione del film ieri sera mi ha letteralmente devastato.

Da un punto di vista espressivo e stilistico, il film è puro cinema pur conservando un impianto dichiaratamente teatrale. Il set claustrofobico di casa Kowalski (con alcune aperture all'esterno: la stazione, dai cui fumi emerge come un fantasma la spaesata figura di Blanche; la sala da gioco; il cortile) è gestito attraverso una precisa definizione dei piani che crea movimento in base alle relazioni fra i personaggi. E tutto ruota intorno agli attori, guidati da un maestro come Kazan a una recitazione di rara eccellenza. Kazan era un sostenitore del metodo Stanislavski: conosceva benissimo i suoi attori ed il materiale umano di esperienza ed emozioni che ciascuno poteva esprimere. Di conseguenza sapeva su cosa puntare per poter ottenere un determinato risultato. Il livello di complessità psicologica e naturalismo della recitazione è infatti impressionante.


La grandezza della piece, la poesia della parola di Williams prende così vita in tutta la sua densità e ricchezza: si veda la scena in cui Blanche seduce il giovane entrato in casa e gli sussurra "Non adora questi lunghi pomeriggi piovosi a New Orleans? ... quando un'ora non è solo un'ora... ma un piccolo pezzo di eternità gettato nelle nostre mani... e chissà cosa bisogna farci"; o quando, nel confronto con Mitch, ormai venuto a conoscenza del passato burrascoso e poco lusinghiero della donna, Blanche confessa di aver avuto molti incontri con uomini sconosciuti alla ricerca di protezione e conforto, ed urla disperata, feroce e ferita le sue celebri battute: "I don't want realism! I want magic!". "Pensavo rigassi dritto (I thought you were straight)" le dice Mitch. E Blanche commenta: "Dritto? Cos'è dritto? Una riga può essere dritta, o una strada... ma il cuore di un essere umano...". Tennessee Williams, attraverso il personaggio di Blanche e l'uso del termine straight, allude in questo scambio alla condizione omosessuale, difendendo le scelte del cuore a spada tratta con una potenza immaginifica ed un uso accorto e multistratificato del filtro dell'affabulazione drammaturgica che lascia ammirati. Kazan sapeva benissimo che c'era molto di Williams nel personaggio di Blanche.


Nel passare dallo stage allo schermo, tuttavia, la piece dovette subire alcuni cambiamenti, soprattutto nei riferimenti omosessuali. Nell'allestimento originale, il marito di Blanche si uccide perché incapace di superare la vergogna di essere stato scoperto con un altro uomo. Nella sceneggiatura del film, l'allusione è più sottile ed avviene attraverso il riferimento al carattere tenero, gentile e debole dell'uomo: è Blanche con i suoi insulti ed il suo disprezzo a spingere il marito al suicidio. Una serie di scene e battute vennero eliminate nella versione definitiva del montaggio, ma sono state reinserite in una recente edizione del film in dvd. Tra queste, la battuta di Stanley a Blanche "Forse non sarebbe male interferire con te" nel loro confronto finale, rende più esplicite le intenzioni dell'uomo, appena prima della violenza carnale (bellissima l'inquadratura dello specchio in frantumi) che segna il momento di non ritorno per la stabilità mentale della protagonista. E anche il finale fu modificato: nel film, Stella è sconvolta dalla partenza della sorella (che viene ricoverata in un ospedale psichiatrico) e decide di non tornare più dal selvaggio marito. Con la bambina stretta tra le braccia, sale le scale e si rifugia nell'appartamento della vicina di casa, mentre Stanley urla disperato il suo nome. Questo finale fu scelto per motivi di censura: Stanley viene così punito per la sua "crudeltà intenzionale" con l'abbandono da parte di Stella. Ma è evidente che la decisione di Stella di lasciarlo sembra non venire da nessun posto, tanto è affrettata e non in linea con il personaggio, totalmente (e credibilmente) affascinato e soggiogato dal potere fisico di Stanley (si veda la magnifica scena in cui Stella scende le scale verso Stanley come se fosse in trance: lui, maglietta strappata, volto supplichevole, implora il suo perdono per averla maltrattata. Come due magneti che si attraggono Stella non può stare lontana da lui e il momento dell'abbraccio, violento, appassionato ed animalesco, è una della scene più forti e sexy di tutto il cinema americano). A teatro il finale era molto più ambiguo: Stella rientrava in casa e riprendeva la sua vita, come era sempre stato e come avrebbe sempre dovuto essere.


Attori magnifici, si diceva. Vivien Leigh è civetta, fragile, ironica, intelligente, nevrotica e disperata, e ci accompagna passo dopo passo attraverso il progressivo scivolare nell'oblio di quest'anima confusa e sola con una passione per l'arte e un'adesione al carattere stupenda. Kim Hunter (Stella) e Karl Malden (Mitch) sono perfetti, ma la performance esplosiva (e l'unica che non solo non ottenne l'Oscar, ma non fu nemmeno candidata) è quella di Marlon Brando, in uno di quegli star-turn epocali che lasciano un segno indelebile. Pare che Elia Kazan avesse accettato di girare la trasposizione cinematografica della piece proprio per riequilibrare i rapporti fra i personaggi: a teatro Brando era talmente forte da oscurare gli altri attori col rischio che l'opera sembrasse incentrata su di sé piuttosto che su Blanche. Kazan sapeva che poteva ricorrere al cinema per rifocalizzare tutto sulla protagonista (anche per rispetto e fedeltà a Williams, che comunque era pazzo di Brando) attraverso l'uso del montaggio e delle inquadrature. Tuttavia se molte altre attrici hanno potuto calarsi nella parte di Blanche con risultati eccellenti (vedi post precedente), nessuno attore è mai riuscito a far dimenticare nè tantomeno ad avvicinarsi allo spessore e alla potenza della performance di Marlon Brando.

Voto: 9

Cate Blanchett trionfa a New York in Un tram che si chiama desiderio




Esauriti da settimane i biglietti per assistere ad un evento teatrale epocale. Fino al 20 dicembre si replica all'Harvey Theatre a New York la nuova produzione realizzata dalla Sydney Theatre Company dell'immensa piece di Tennessee Williams Un tram che si chiama desiderio, per la regia di Liv Ulmann e l'interpretazione della divina Cate Blanchett. Il ruolo di Blanche Dubois è diventato per le grandi attrici l'equivalente di Amleto per gli attori: tutte primo o poi desiderano mettersi alla prova in quella che è probabilmente la parte più bella che sia mai stata scritta per un'attrice nel teatro contemporaneo. Da Jessica Tandy, interprete dell'allestimento originale a Broadway dal 1947 al 1949, a Vivien Leigh, che aveva interpretato Blanche a Londra diretta dal marito Laurence Olivier e divenne la protagonista dell'adattamento cinematografico del 1951, fino in tempi più recenti a Jessica Lange, Glenn Close, Patricia Clarkson e Natasha Richardson: tutte hanno di volta in volta sottolineato la fragilità o la forza di Blanche, la bellezza appassita, il lirismo, la stupidità, la sensualità, le contraddizioni, il coraggio, l'abissale, umana complessità.


Questo nuovo allestimento, osannato in Australia e adesso celebrato anche in America, sembra un autentico trionfo. Soprattutto per Cate Blanchett, ancora una volta in grado di superare sé stessa. Dalla regina Elisabetta alla Katharine Hepburn in The Aviator, fino all'incredibile Bon Dylan di Io non sono qui, sembrano non esserci limiti all'arte e al range dell'attrice australiana. Nel ruolo di Blanche, la Blanchett pare già mettere una seria ipoteca sul prossimo Tony Award come miglior attrice drammatica. I critici americani stanno inventando nuovi superlativi per definire la sua performance. Secondo il New York Times l'interpretazione della Blanchett evidenzia non tanto la poesia del personaggio quanto il suo istinto alla sopravvivenza, rendendo Blanche Dubois più umana e vera che mai. Lontani dalla luci di New York, accontentiamoci di queste splendide foto.