venerdì 6 novembre 2009

Il nastro dell'oppressione


Il cinema di Micheal Haneke fa male. Provoca ferite, lacerazioni sanguinanti, un dolore fisico che si prolunga ben oltre la durata del film. Ma è un cinema necessario perché rigoroso, coerente e profondamente morale. E crudele, nella sua spietata, inesorabile lucidità.

Ambientato in Germania in un villaggio fortemente segnato dalle divisioni di classe e dal rigido protestantesimo dei padri, il film racconta gli avvenimenti sinistri che iniziarono a sconvolgere la vita apparentemente tranquilla dei contadini nell'estate del 1913. Il dottore del villaggio cade da cavallo a causa di un filo invisibile teso davanti all'entrata di casa (l'inquadratura iniziale, sconvolgente); il figlio del barone scompare e viene ritrovato, percosso e ferito, nella foresta; un granaio prende fuoco; un altro bambino, il figlio down della levatrice, viene brutalmente seviziato. Gli incidenti si susseguono in una catena ininterrotta di crescente brutalità. Nessuno ha visto o sa nulla, gli strani avvenimenti sembrano inspiegabili, mentre i bambini del villaggio si aggirano in gruppo come fantasmi, gettando ovunque l'ombra dei loro silenzi e dei loro sguardi obliqui. Nel frattempo la vita va avanti, legata allo scorrere monotono delle stagioni, fino allo scoppio della prima guerra mondiale.

E' la voce del giovane maestro della comunità, adesso anziano, che ci introduce in questo microcosmo apparentemente perfetto e glaciale, ma segnato dall'oppressione fisica e psicologica di una cultura autoritaria e patriarcale, e di un'educazione religiosa impartita con cieco fanatismo e spietato rigore. Lentamente Haneke fa crollare il muro delle apparenze eppure non mostra nulla, semplicemente suggerisce. Il suo sguardo non salva niente e nessuno a prescindere dalla classe sociale di appartenenza: che sia la famiglia del barone, del pastore protestante, del sovrintendente, del dottore o del bracciante, la violenza si annida ovunque e si manifesta nei rapporti di potere che schiacciano donne e bambini. Una violenza tanto più terribile quanto mai apertamente mostrata o esibita: Haneke si ferma sempre un attimo prima, ad un passo dall'abisso, lasciando gli spettatori al di qua di una porta che resta chiusa. Una violenza indicibile che viene introiettata dagli sguardi innocenti e disperati dei bambini: ed essi rispondono al male assorbito e subito perpetrando il male a loro volta, diffondendo quel terrore che i padri non vogliono riconoscere e tendono a nascondere.

Non importa svelare il mistero che si cela dietro gli oscuri avvenimenti del villaggio: la narrazione fuori campo ha i toni cadenzati di una fiaba per bambini e il fatto che l'enigma resti irrisolto rende l'atmosfera di attesa insostenibile e la potenza del racconto ancora più devastante. Ad Haneke interessa suggerire il clima di soffocante oppressione e di fanatismo religioso che ha partorito i germogli del nazismo: quegli stessi bambini sulle cui braccia padri autoritari legano un nastro bianco come monito di purezza ed innocenza, appunteranno a loro volta la stella di Davide sulle braccia degli ebrei.

Magnifico affresco sulle radici del male assoluto, Il nastro bianco è fotografato in un bianco e nero che lascia davvero senza fiato: la luce bianca taglia senza pietà volti, corpi e ambienti, disegnando paesaggi e quadri di estatica bellezza e allo stesso tempo svelando gli errori e gli orrori degli uomini. Come la luce crudele di un dio che (in realtà) non esiste.
Voto: 9

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