giovedì 29 aprile 2010

Blanchett sfinge enigmatica in "Intrigo a Berlino"

Subito dopo l'Oscar come miglior attrice non protagonista per The Aviator, Cate Blanchett ha continuato a macinare generi e ruoli diversissimi tra loro con la costanza di una macchina da guerra infaticabile. Le sue interpretazioni tra il 2006 e il 2007 danno un'ulteriore prova della sua versatilità e della sua capacità di scomparire nei personaggi, modificando aspetto, fisicità, timbro della voce, accento e persino (la cosa più difficile) ritmo e tempi interiori. Se il punto più alto della sua arte è finora rappresentato dalla performance di Bob Dylan in Io non sono qui (grado massimo di perfezione tecnica) e dall'appassionata Sheba Hart di Diario di uno scandalo (grado massimo di abbandono emotivo), nel 2006 la Blanchett è apparsa anche in Babel e nel curioso The Good German - Intrigo a Berlino di Steven Soderbergh.

Ed è su questo film che vorrei soffermarmi, a prescindere dal suo risultato semi-fallimentare. Nel ruolo della misteriosa Lena Brandt, ebrea sposata al matematico nazista Emil Brandt in fuga nella Berlino post bellica, la Blanchett trascende il film stesso con la sua magnetica bellezza, risollevando l'attenzione dello spettatore in ogni fotogramma in cui appare. Ed anche se Soderbergh, in pieno mood da gelido studente di cinema tutto cervello e niente cuore, usa il personaggio (e di conseguenza l'interprete) come una mera funzione narrativa ed iconografica attraverso cui ricalcare gli stilemi del noir classico, Cate è l'unica a salvarsi dal naufragio del film, assieme alla strepitosa fotografia in bianco e nero.


Tratto dal romanzo di Joseph Kanon, Intrigo a Berlino offre a Soderbergh l'occasione per sfoderare la sua cinefilia rivisitando il cinema noir; operazione sulla carta molto affascinante, ma che sullo schermo si risolve in uno sterile esercizio di stile. Soderbergh non gira un semplice omaggio, ma un vero e proprio calco, recuperando, anzi, imitando stilemi ed inquadrature degli anni '40. La fotografia contrastata di taglio espressionista è assolutamente magnifica ed a volte si ha davvero l'impressione di vedere un film di quel periodo. Ma se l'involucro abbaglia, il contenuto non ha un briciolo della profondità, del simbolismo e della visionarietà del noir classico. La trama è inutilmente involuta, gli aggiornamenti riguardo alla rappresentazione della sessualità e della violenza non stabiliscono nessun ponte con la contemporaneità e persino il finale alla Casablanca suona finto e forzato. Tra l'enciclopedia del cinema che fu e l'esperimento fine a se stesso di un regista che si crede il primo della classe ma è incapace di infondere vita alle sue marionette, Intrigo a Berlino è irritante e pretenzioso, e non va oltre il fascino decadente di un vecchio giocattolo restaurato.


E gli attori? Clooney, anche quando gioca apertamente a fare il moderno Cary Grant, è sempre e soltanto Clooney, mentre Tobey McGuire si cimenta in un ruolo negativo ben oltre le sue possibilità. La Blanchett merita un discorso a parte, essendo l'unica completamente a proprio agio nell'universo cinematografico di modelli e riferimenti evocati da Soderbergh con tanta maniacale perizia. Nel momento in cui appare sullo schermo Cate Blanchett/Lena Brandt sembra davvero emergere da un film degli anni '40, vestita, pettinata, illuminata ed inquadrata come un vera dark lady del passato.


Da un punto di vista narrativo e visivo il personaggio di Lena è una fotocopia letterale dello stereotipo della donna fatale: infida, ingannevole, incredibilmente bella e pericolosa. Soprattutto inconoscibile: quali sono i suoi segreti? Quali i suoi scopi? Quando mente e quando è sincera?
Mora e tentatrice, volto immobile e sguardo da sfinge, voce calda e sensuale ed un inconfondibile accento tedesco, la Lena di Cate Blanchett è chiaramente costruita sul fascino enigmatico di Marlene Dietrich e sulla Ilsa di Ingrid Bergman in Casablanca, ed è un altro perfetto esempio del trasformismo dell'attice. Questa volta non è chiamata a mimetizzarsi nei panni di un personaggio realmente esistito, come Katherine Hepburn o Bob Dylan, ma ad incarnare un'idea stessa di femminilità, uno stereotipo portato sullo schermo migliaia di volte. Come tale deve essere immediatamente riconoscibile e, trattandosi di un film che ne omaggia mille altri, anche il suo calco deve essere la summa di tutte le dark lady possibili.



L'attrice fa ancora una volta centro: modella look e tempi recitativi sull'aplomb glaciale della Dietrich, ed arriva a fondersi perfettamente non solo con l'ambiente storico ma con il tessuto stesso del film. Diventa pura materia di cinema sulla cui superficie traslucida convivono passato e presente in un vertiginoso corto circuito postmoderno. Così facendo Cate mette a fuoco l'obiettivo finale del regista: resuscitare fantasmi. Ed è la sola che ci riesce.

Voto: 5 (al film, ma 8 alla Blanchett)

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