martedì 20 ottobre 2009

The Last Station


Da spettatore attento e smaliziato sono in genere incline a valutare con sufficienza o comunque con sospetto ogni volta che un film mi trova così emozionalmente scoperto e vulnerabile da cadere in tutte le sue trappole patetiche e sentimentali. Nondimeno, per quanto mi abbandoni o meno al flusso emotivo, ritengo che non solo ogni spettatore in sala veda sempre il proprio film, pur vedendo tutti lo stesso film, ma che ogni visione è un’esperienza unica e irripetibile, risultato dell’incontro tra un oggetto immutabile (il film) e un soggetto attivo (lo spettatore) che in base al proprio stato interiore recepisce il film, lo vive e di conseguenza lo trasforma ogni volta.
Detto questo, si vede che ieri sera fossi in un mood particolarmente tempestoso perché di fronte a The last station di Micheal Hoffman presentato al Roma Film Fest, ho pianto a dirotto come non mi capitava da tempo.

Tratto dal romanzo di Jay Parini, il film racconta gli ultimi anni della vita di Lev Tolstoj (Christopher Plummer) e la disputa che lo divise dalla moglie, la contessa Sophja (Helen Mirren), in merito al testamento e ai diritti sulle sue opere letterarie. Il grande scrittore russo aveva da anni abbracciato una nuova etica religiosa che poggiava sull’amore e sull’armonia universale, sul pacifismo e sul rifiuto della proprietà privata e dell’arte come commercio (il tolstoismo). Sostenuto da Vladimir Chertkov (Paul Giamatti) Tolstoj arrivò a rinunciare ai diritti d’autore sui propri lavori per cederli al popolo russo, decisione che causò feroci litigi con la moglie. Contraria alla conversione etica del marito un po’ per amore, un po’ per ragioni economiche (il timore che i consiglieri convincessero Tolstoj a liberarsi di ogni suo bene senza lasciare nulla in eredità alla famiglia), la contessa Sophja si vide tutt’ad un tratto messa da parte dalla nuova ideologia del marito fino ad essere allontanata dai suoi collaboratori.

Il materiale narrativo è quindi piuttosto interessante e succulento ma Micheal Hoffmann (che non è mai stato un grande regista) si limita ad illustrare la vicenda in modo convenzionale, cercando comunque di evitare il rischio di teatralità ed accademismo tanto comune alle confezioni d’epoca. L’afflato di fondo però è potente (belle le musiche di Sergei Yevtushenko), l’ispirazione sembra sincera (Hoffman è anche autore dello script) e il finale strappa (ben) più di una lacrima. Non si può negare che il conflitto tra amore e ideologia sia articolato in modo netto ed efficace, con la figura luciferina di Giamatti da una parte e l’impeto regale della Mirren dall’altra e le scene madri non si contano. La regia è corretta e lascia che il lavoro lo facciano gli attori, preoccupandosi semplicemente di non perdere nessun movimento degli occhi o delle labbra. E gli attori restano il principale motivo di attrazione del film: Plummer torreggia da gigante ed Helen Mirren divora la scena alternando con consumata maestria enfasi teatrale e regale dignità. Ma anche James McAvoy è notevole: poche cose sono così ardue da rendere come la purezza d’animo e la trasparenza, e nel ruolo di Valentin, il giovane segretario di Tolstoj, l’attore di Espiazione è commovente nella sua assoluta limpidezza. Tutti e tre dovrebbero essere in lizza per i prossimi Oscar.

Voto: 7

1 commento:

  1. Ad ogni testa la sua visione. L'equivalenza del mezzo anatomico (ammesso che la correzione dei cosiddetti svariati "difetti" approssimi la perfezione...ma un miope, ad esempio, sa che nessuna lente può omologare la qualità della sua vista a quella di uno normale) non impedisce il miracolo: l'Unicità di ogni singola esperienza di visione, nella stessa persona in momenti diversi, figuriamoci in persone diverse! Ad ogni testa la sua visione dunque, frutto irripetibile di una particolare configurazione neurale. Siamo esseri fitti fitti di misteri..........

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