
mercoledì 28 luglio 2010
Susan regina del Giffoni Film Festival

lunedì 24 maggio 2010
Nora e Max in "Calda Emozione"

"Non c'è niente che odi quanto l'essere ingannata. Preferisco un uomo violento a uno che mente, dalla violenza almeno ci si può difendere. Sai... ogni volta che abbiamo un appuntamento e tu arrivi puntuale è così gratificante che sto male da morire. Perché mi aspetto che tu non arrivi affatto. E invece arrivi... e ogni volta che ti vedo non credo ai miei occhi. E nessuno al mondo è più felice di me perché... perché significa che non ti sei stancato, che ti vedrò ancora. Io ho fiducia in te, perché la prima volta che ti ho incontrato hai detto che non ti ingozzi e che non menti mai. Beh, non me ne frega niente se ti ingozzi, ma non venirmi mai più a raccontare storie. Posso perdonarti una volta ma non posso farlo una seconda".
Nora Baker (Susan Sarandon) a Max Baron (James Spader) in Calda Emozione (White Palace, 1990) di Luis Mandoki
domenica 28 febbraio 2010
Susan Sarandon a Roma!

The Lovely Susan
Mario Sesti la presenta ricordando la celebre descrizione che di lei fece qualche anno fa un giornalista americano: “gli occhi più penetranti e le battute più pungenti di Hollywood dai tempi di Bette Davis”. Lei si presenta sorridente e stupenda in un nero finto-casual (pantaloni, camicia elegante e stivali rigorosamente senza tacco), saluta il pubblico che nel frattempo si spertica per applaudire ed infonderle calore (quello che urla in maniera più forsennata e sconveniente sono ovviamente io) e si siede al centro delle tre poltrone allestite sul palco. Susan Sarandon è il primo ospite di Viaggio nel cinema americano, una serie di incontri all’Auditorium realizzati dalla Fondazione Cinema per Roma.
Per prima cosa Susan saluta la sua famiglia italiana presente in sala (le sue radici sono ragusane). Altro applauso scrosciante. Subito dopo inizia l’intervista e la Sarandon è meravigliosa in tutti i sensi: anti-diva per eccellenza, nessun vezzo da star, naturalissima, brillante, ironica, intelligente e bellissima, nei suoi incredibili, impossibili 63 anni. Risponde alle domande con lo stesso acume e la stessa leggerezza che le hanno permesso di attraversare 40 anni di cinema americano apparendo in una miriade di film e almeno in cinque cult-movie: The Rocky Horror Picture Show, Atlantic City, Bull Duhram, Thelma&Louise e Dead Man Walking.
C’è differenza rispetto all’approccio verso la recitazione tra cineasti americani ed europei?
No. L’unica differenza è che alcuni registi ti rivolgono la parola ed altri no, a prescindere dalla loro provenienza (risate del pubblico). Alcuni sono più interessati al personaggio, altri all’azione ed altri ancora non sono interessati a niente (risate). La vera differenza la fanno i produttori che investono i soldi. I cliché stabiliscono che i film americani abbiano grandi esplosioni e i film europei siano molto dialogati, pieni di nudo e lenti (risate). Ma ci sono anche tantissimi film lenti, con scene di nudo, che vengono realizzati in America e che non trovano una distribuzione. Molti film interessanti oggi vengono realizzati per la HBO o altri canali televisivi che non hanno il problema distributivo di dover raggiungere per forza un vasto pubblico, ma possono rivolgersi a determinate fette di pubblico.
Preferisce quando i registi le parlano molto o quando non le danno alcuna indicazione?
Ad essere onesta sono pochissimi i registi che ti parlano o che danno consigli sulla recitazione. Il 90% del loro lavoro consiste nel fare un buon casting e nel creare la giusta atmosfera che consenta ad un attore di sentirsi sicuro. Louis Malle praticamente non parlava con nessuno. Le cose variano da regista a regista: con Luis Mandoki, ad esempio, comunicavamo molto, con altri quasi per nulla… Io poi sono una a cui piace sentirsi dare dei consigli.
In Thelma & Louise come combaciava la prospettiva femminile della sceneggiatrice e delle protagoniste con quella maschile di Ridley Scott? C’erano delle differenze?
Ridley ha fatto qualcosa di estremamente brillante. Pur non dandoci alcun consiglio sulla recitazione ha girato il film in modo che il racconto acquistasse una valenza molto più grande, ampia ed eroica di quanto noi ci rendessimo conto. Quando mi propose il ruolo ero indecisa se accettare perché non volevo fare un revenge movie alla Charles Bronson. Abbiamo quindi cambiato molte cose della sceneggiatura nel corso delle riprese.
La scena dell’omicidio, ad esempio, era descritta come un’esecuzione, con Louise che si mette in posizione con l’intenzione di sparare, distanziando i piedi e tenendo la pistola con tutte e due le mani. Secondo me, anche in base alla battuta finale (“Watch your mouth, buddy!”), Louise vuole solo zittire Arlan, non si rende neanche conto di avere la pistola in mano. E dopo averlo ucciso si sente in colpa e avverte che dovrà pagare un prezzo per quello che ha fatto, un sentimento assente nei revenge movie.
Altri cambiamenti furono inseriti nella scena in cui facciamo saltare il camion. Secondo la sceneggiatura avremmo dovuto danzare intorno al camion dopo l’esplosione, ma io ritenevo che Louise non fosse vendicativa: lei cerca soltanto di capire perché gli uomini si comportano in un determinato modo o parlano in una certa maniera. Per questo motivo abbiamo aggiunto alcune battute (ad esempio quando chiedono al camionista se ha un sorella) che sono atipiche in un revenge movie con protagonisti maschili.
Anche il finale fu modificato. Lo girammo proprio al termine delle riprese. Il sole stava tramontando e non c’era stato praticamente tempo per parlarne. Nella sceneggiatura non era previsto il bacio, ma io ho afferrato Geena Davis e l’ho baciata. Il bacio a quel punto funzionava, mi sembrava giusto. Era l’ultimo giorno di riprese e non potevano più toglierlo (risate).
Cosa succede quando rivedi i tuoi film dopo tanto tempo?
In realtà non li guardo nemmeno la prima volta (risate). La cosa strana è che quando ti capita di vederli ti rendi conto che sono state tagliate tante scene e modificate così tante cose che nella visione sei distratto dal ricordo di ciò che hai effettivamente girato. Per questo cerco di trarre soddisfazione dalla recitazione nel momento in cui sono sul set e non mi preoccupo del risultato finale. E’ questo il motivo per cui il teatro fa molta più paura ma dà molta più soddisfazione, perché tu sei direttamente responsabile di quello che il pubblico vede in quel momento.
The Rocky Horror Picure Show la ha dato una popolarità enorme. Le capita ancora di essere fermata da persone che la riconoscono per quel film?
Il Rocky Horror in realtà era rimasto per due anni senza distribuzione: alla Fox proprio non sapevano cosa farsene, in che modo distribuirlo e a quale pubblico mostrarlo. Il budget era stato così basso che non valeva la pena di investire in una vera distribuzione. Solo ad un certo punto decisero di proiettarlo nei campus, nei cinema gay e nei circuiti d’essay, e divenne un film di culto.
Parte della mia fan mail è nata proprio col Rocky Horror: molte persone mi hanno raccontato di essere rimaste colpite e toccate da questo film. In fondo il messaggio è “Don’t dream it, be it” (Non sognatelo, siatelo), un invito a seguire i propri sogni, chiunque tu sia ed ovunque ti trovi. E Thelma & Louise invita invece a muoversi, ad andare via, a non adagiarsi. Da una parte la necessità di essere, di trasformare il sogno in realtà, e dall’altra un invito all’azione. E’ interessante notare come i messaggi di questi due film possano essere visti in connessione: riguardano persone che si trovano dall’altra parte e ruotano entrambi intorno alla scoperta di sé.
Ci sono dei ruoli che avrebbe voluto interpretare?
Ci sono moltissimi bravi attori a cui non vengono offerti buoni ruoli. Quando hai l’opportunità di recitare in un bel ruolo ed il film funziona, te ne viene offerto subito un altro ed in questo modo continui a lavorare. Ci sono molti ruoli che ho fatto che avrebbero potuto essere interpretati in maniera diversa ma ugualmente bene da altre attrici. Credo che a tutte piacerebbe interpretare qualsiasi ruolo che oggi viene offerto a Meryl Streep. E’ difficile trovare del buon materiale su cui lavorare o addirittura avere l’opportunità di farlo. Una strada alternativa è quella di cercare del materiale da sviluppare in prima persona per potersi ricavare un buon ruolo, come ho fatto per Dead Man Walking.
Ci sono anche molti ruoli maschili interessanti… Non voglio dire che mi piacerebbe interpretare Lawrence D’Arabia o Gandhi, non voglio fare l’uomo (risate). Ma generalmente nel film l’uomo fa tutto e la donna riesce soltanto a dire: “Ma è fantastico!” (risate). Se leggiamo i giornali ci sono tante storie interessanti da narrare e i protagonisti non sono necessariamente sempre e soltanto uomini bianchi eterosessuali. E’ necessario trovare autori che sappiano raccontare storie e registi che abbiano delle idee in proposito. Ron Shelton era al suo primo film con Bull Duhram ma la sceneggiatura che aveva scritto era ottima e lui era molto preparato. Queste cose purtroppo non capitano spesso.
A volte un blue screen è più facile dell’attore con cui stai recitando (risate). Oggi le tecnologie dell’home video permettono di vedere a casa film in ottima qualità, sul televisore o sul pc. Se si spendono 15 dollari per andare al cinema deve essere per qualche cosa che non può essere visto se non sul grande schermo. Ne deve valere la pena. Quindi prevedo in futuro sempre più 3D e film come Avatar. Ma ci sono anche piccoli film incentrati sui personaggi che non trovano distribuzione perché in America la stragrande maggioranza delle sale è di proprietà delle grosse major e gli esercenti indipendenti sono oramai scomparsi. Per questo motivo i festival sono sempre più importanti: danno visibilità ai piccoli film che in questo modo possono ottenere l’attenzione necessaria e trovare qualcuno che li distribuisca.
Penso poi che un conto sia vedere un film al cinema e un conto sia vederlo sul piccolo schermo. E’ un peccato che venga a mancare l’esperienza collettiva della visione sul grande schermo, l’idea di un gruppo di persone che fa un’esperienza a luci spente nello stesso posto.
Come si prepara per affrontare un personaggio? C’è un film o un personaggio al quale è legata particolarmente?
E’ una domanda stile La scelta di Sophie questa (risate)! Ho trovato interessanti tutti i personaggi che ho fatto anche perché mi permettevano di esprimere sentimenti diversi dai miei. La cosa bella dell’essere attore è potersi calare nei panni di persone diverse da te. Hai la possibilità di vivere e fare cose che non avresti mai sognato di fare e, dovendoti avvicinare al personaggio, sviluppi un grande senso di compassione e comprensione per gli altri.
Il segreto sta nell’abbandonarsi e nell’arrendersi, nell’essere rilassati. In alcuni casi puoi fare riferimento a molti elementi specifici nel costruire un personaggio, soprattutto quando interpreti una persona realmente esistita, anche se in questo caso hai anche una maggiore responsabilità. Altre volte devi ricorrere alla tua immaginazione.
Mi imbarazza dirlo ma non ho mai studiato recitazione, ho imparato lavorando sul campo, ma la linea di fondo è cedere ed arrendersi al personaggio. Poi devi anche concentrarti sul servizio che come attore devi rendere al film nel suo insieme: l’attore è uno strumento e come tale deve essere funzionale. Non c’è una cosa giusta o sbagliata da fare, bisogna solo chiedersi se una determinata cosa funziona o meno in rapporto al quadro generale del film.
Quale è stato il segreto per diventare Susan Sarandon?
Sono qua perché sono falliti tutti i piani che avevo fatto (risate e applausi). Ai miei figli dico spesso che il loro compito è quello di sbagliare. Soprattutto adesso, visto il mondo in cui viviamo, la cosa migliore che si possa fare è adattarsi, essere flessibili e restare svegli. Soltanto facendo degli errori si può imparare e capire.
Le piacerebbe tornare ad interpretare un musical?
E’ strano che io abbia dovuto cantare in così tanti film, dal momento che canto così male (risate)! Anche in Dead Man Walking mi è toccato cantare! E’ la cosa che mi piace meno in assoluto, proprio perché non mi sento affatto preparata. La ragione per cui feci il Rocky Horror aveva a che fare col mio ego, era per dimostrare che anch’io ero in grado di cantare almeno un po’. Pensavo che se qualcuno mentre giravamo mi avesse dato della droga o qualunque cosa per vincere la mia fobia di cantare, cosa che non è avvenuta, avrei potuto farcela (risate)!
Nella sua galleria di personaggi, ce n’è qualcuno dal quale è stato difficile staccarsi alla fine delle riprese?
Quando varchi la soglia di casa ed hai dei figli non c’è più spazio per il personaggio. Ma devo dire che Sister Helen è forse quello che più di ogni altro mi ha esaurita e prosciugata. In genere, però, sono i ruoli per i quali credi di non aver fatto un buon lavoro che continuano a perseguitarti, come dei brutti sogni. E’ difficile uscire da un personaggio quando non sei soddisfatta e pensi che avresti potuto fare di meglio.
Cosa ci dobbiamo aspettare dal futuro del cinema, sempre più film come Avatar?
La cosa importante è che ci siano belle storie da raccontare e persone in grado di farlo al meglio. Non vorrei che si producessero solo film che sfruttino e ripetano il successo di altri film per fare soldi, come funziona l’industria oggi. In fondo dipende da come voi deciderete di spendere i vostri soldi. Dovete chiedere ed osare.
sabato 13 febbraio 2010
Rivisitando i classici

E' finalmente ufficiale: Todd Haynes dirigirà Kate Winslet in una miniserie televisiva di 4 ore prodotta dalla HBO e tratta dal romanzo di James M. Caine Mildred Pierce. L'opera di Caine aveva già ispirato un adattamento cinematografico diretto da Michael Curtiz nel 1945, Il romanzo di Mildred (Mildred Pierce), mix esplosivo di noir e melo' a tinte fosche con Joan Crawford vincitrice dell'Oscar. Riuscirà la Winslet a confrontarsi col fantasma della grande Joan? Non ne dubito affatto. Haynes è sulla carta l'autore perfetto per questo progetto: in Lontano dal paradiso ha già dimostrato un tocco eccezionale nella rivisitazione del cinema classico. Sono già aperte le scommesse per un probabile Emmy alla Winslet nel 2011. Le riprese iniziano in aprile a New York.

Dopo innumerevoli, gustose partecipazioni in tanti film, sembra che Susan Sarandon abbia afferrato il suo ruolo migliore da molti anni a questa parte: l'adattamento per il grande schermo de La grande vallata, serie televisiva western con la gigantesca Barbara Stanwick andata in onda dal 1965 al 1969. Devo ammettere che sono elettrizzato. L'inizio delle riprese è previsto in maggio. La Sarandon ha in uscita Solitary Man con Michael Douglas, Leaves of grass con Edward Norton , Wall Street 2 e l'attesissimo You don't know Jack, tv movie con Al Pacino diretto da Barry Levinson. La grande vallata potrebbe essere il veicolo giusto per ritornare alla notte degli Oscar.
giovedì 4 febbraio 2010
Hollywood on stage (I): Rush e Sarandon in "Exit the King"

Oggi mi sento Broadway-addicted. Se vivessi a New York e fossi pieno di soldi, Broadway sarebbe la mia seconda casa. Nel senso che dividerei i miei giorni fra cinema e teatro. E il mio blog, naturalmente. L'anno scorso l'allestimento di Exit the King, dramma dell'assurdo di Eugene Ionesco, con Geoffrey Rush e Susan Sarandon per la regia di Neil Armfield, ha fatto segnare il tutto esaurito da marzo a giugno. Recensioni entusiastiche per tutti, Rush in testa, vincitore di un Tony Award come migliore attore. Un po' meno calorosi i giudizi sulla Sarandon, cui i critici hanno rimproverato una naturalezza molto cinematografica e poco conforme al registro grottesco e stilizzato richiesto dalla pièce. Molto più convincente la prova dell'attrice nella parte finale dell'opera, intima e drammatica: il monologo di Queen Marguerite sul corpo morente di King Berenger è stato definito dalla critica "impressionante".

Non vivere a New York e non essere ricco sfondato non mi ha dato la possibilità di vedere Susan Sarandon in palcoscenico, o Cate Blanchett nel recente allestimento di Un tram che si chiama desiderio, o Glenn Close nel leggendario Sunset Boulevard del 1994. Sarà pure un infantile sfogo personale, ma voglio concedermi oggi un cyber-tuffo alla ricerca di altre (perdute?) performance teatrali.
lunedì 21 dicembre 2009
I miei Oscar: 1994





Jessica Lange, dodici anni dopo la vittoria come non protagonista per Tootsie, vinse finalmente come miglior attrice per Blue Sky, un film irrisolto il cui unico motivo di interesse è la performance della diva: nel ruolo della sensuale Carly, instabile e fragile moglie dell’ufficiale Hank Marshall (Tommy Lee-Jones) in piena guerra fredda, la Lange torna in zona Frances (nevrosi e scene madri a raffica, ma gestite con grande carisma) e gioca al meglio tutte le sue carte. Winona Ryder, adorabile Jo March in Piccole Donne di Gillian Armstrong, fu candidata non tanto per l’effettivo valore della performance, quanto perché l’anno precedente non aveva vinto per L’età dell’innocenza. La stessa cosa si può dire, con i dovuti distinguo, per Susan Sarandon, alla quarta nomination per Il Cliente. Il 1994 fu un grande anno per la Sarandon: il film tratto dal bestseller di John Grisham fu un successo al box office e l’attrice era eccezionale nei panni dell’avvocatessa Reggie Love, matura, sexy, avventurosa ed ironica come solo la Sarandon sa essere. Ancora una volta un discreto film di genere sollevato dalla qualità dell’interprete. L’attrice era sugli schermi anche nel dramma Safe Passage e in Piccole Donne: tra le cinque candidate, senza dubbio la migliore. Gli altri due nomi in lizza erano la sempre brava Miranda Richardson per Tom e Viv e Jodie Foster, ragazza selvaggia nel discreto Nell.

Una cinquina piuttosto debole che avrebbe potuto facilmente essere composta da altri nomi, tutti ugualmente meritevoli. Meryl Streep cercava di uscire dall’impasse dei primi anni ’90 e si dimostrò potente e credibile nell’action thriller Il fiume della paura. Sia la deliziosa Andie McDowell di Quattro matrimoni e un funerale che la strepitosa Jamie Lee Curtis di True Lies dovettero accontentarsi solo di una nomination ai Golden Globes. Andò peggio a Juliette Lewis, completamente ignorata per la feroce performance in Natural Born Killers e a Kate Winslet, al debutto in Creature del cielo di Peter Jackson e già bravissima. Sigourney Weaver fu impressionante nel dramma La morte e la fanciulla di Roman Polanski (interpretato a teatro da Glenn Close) ma l’ attrice che nel 1994 avrebbe dovuto vincere l’Oscar era Jennifer Jason Leigh, straordinaria sia in Mrs Parker e il circolo vizioso di Alan Rudolph che nella commedia capriana dei Coen Mr Hula Hoop.

Tra le attrici non protagoniste stupisce l’assenza nella cinquina di Kirsten Dunst, diabolica ed insaziabile bambina vampiro nel film di Neil Jordan, e di Robin Wright Penn per il bel ruolo di Jenny, il grande amore di Forrest Gump. E furono snobbate anche Sally Field (Forrest Gump) e la già citata Susan Sarandon, molto intensa in Piccole Donne. Le cinque candidate furono Dianne Wiest (la vincitrice), esilarante come capricciosa diva in declino (ispirata alla Gloria Swanson di Viale del tramonto) e la perfetta svampita pupa del boss Jennifer Tilly, entrambe interpreti di Pallottole su Broadway di Woody Allen; Rosemary Harris per Tom e Viv; Helen Mirren alla sua prima nomination per La pazzia di Re Giorgio e Uma Thurman, esplosiva Mia Wallace in Pulp Fiction. Ancora una volta l’Academy confermava la propria miopia non riconoscendo il valore iconico di una performance in cui carisma dell’attore, fisicità del personaggio e visione del regista si fondono perfettamente in un mix esaltante.

Tra gli uomini Tom Hanks trionfò per il secondo anno consecutivo come miglior attore per Forrest Gump. Gli altri candidati erano il redivivo e travolgente John Travolta, memorabile Vincent Vega in Pulp Fiction, Paul Newman in La vita a modo mio di Robert Benton, Nigel Hawthorne per La pazzia di Re Giorgio e Morgan Freeman, interprete di una delle sorprese dell’anno, Le ali della libertà, dramma carcerario tratto da Stephen King e diretto da Frank Darabont. Per lo stesso film il coprotagonista Tim Robbins (perfetto come moderno Jimmy Stewart anche in Mr Hula Hoop) non venne degnato di alcun riconoscimento (come era avvenuto nel 1992, quando fu snobbato sia per I protagonisti che per Bob Roberts), ma l’Academy ignorò anche Ralph Fiennes (Quiz Show), Woody Harrelson (Natural Born Killers) e Johnny Depp (Ed Wood). Per non parlare di Terence Stamp, divino in Priscilla, Jim Carrey in The Mask, ruolo della consacrazione dopo l’exploit di Ace Ventura e Hugh Grant, di colpo star con Quattro matrimoni e un funerale. A chi avrei dato l’Oscar? John Travolta. Per quel twist con Uma.

Per quanto riguarda i non protagonisti tutti lamentano il fatto che la performance di John Turturro in Quiz Show non abbia ricevuto alcuna candidatura. Quanto ai nominati, notevolissimi erano Samuel L. Jackson (Pulp Fiction), Chazz Palminteri (Pallottole su Broadway), Gary Sinise (Forrest Gump) e Paul Scofield (Quiz Show). L’Oscar andò a Martin Landau, stupefacente incarnazione di Bela Lugosi in Ed Wood.
giovedì 3 dicembre 2009
I miei Oscar: 1992


Il premio Oscar come migliore attrice andò alla poco conosciuta Emma Thompson, all’epoca moglie di Kenneth Branagh ed interprete di film come L’altro delitto ed Henry V. Bravissima in Casa Howard nel ruolo della borghese Margaret Schleghel: fascino atipico, sguardo acuto ed intelligente, fisicità nervosa, grande intensità. Per qualche anno la Thompson fu indubbiamente l’attrice inglese preferita dall’Academy. Le altre candidate erano Catherine Deneuve per Indocina, Mary McDonnell per Passion Fish, Michelle Pfeiffer per Love Field e Susan Sarandon per L’olio di Lorenzo. Entrambe alla terza candidatura, la Pfeiffer e la Sarandon erano ai vertici della loro carriera ma videro sfumare ancora una volta le possibilità di vittoria (la Sarandon avrà comunque modo di rifarsi qualche anno dopo, Michelle chissà … ).

Nel docu-drama L’olio di Lorenzo la Sarandon abbandona i panni avventurosi e sexy dei film precedenti e si immerge nel ruolo dimesso di Micaela Odone, madre coraggio che non si arrende alla diagnosi dei medici ed insieme al marito scopre un farmaco naturale alternativo per curare la terribile malattia del figlio, l’adrenoleucodistrofia. Ispirato alla storia vera dei coniugi Odone, il film di George Miller fu un autentico caso: in coppia con Nick Nolte la Sarandon è così intensa, fiera, ossessiva e totalizzante nell’amore per il figlio che supera ogni cliché e conferisce al personaggio un’imponente statura tragica. In assoluto una delle sue migliori interpretazioni.
Ma il 1992 fu indubbiamente l’anno di Michelle Pfeiffer. Due sconosciuti un destino (Love Field) fu un fallimento in termini economici, ma la Pfeiffer era perfetta nel ruolo di Lurene Hallett, casalinga disperata nell’America ferita dall’assassinio di Kennedy.

Tuttavia l’Academy avrebbe dovuto avere il coraggio di candidarla per la fenomenale Catwoman di Batman Returns: uno star turn micidiale in cui la diva shakera al massimo tutti gli ingredienti del suo carisma unico: magnetismo, autoironia, sex appeal, inventiva, una presenza che buca lo schermo, una padronanza espressiva unita ad un gusto per la stilizzazione formidabili. Selina Kyle/Catwoman è una ninfomane dissociata e schizofrenica e la Pfeiffer stratifica il personaggio in modo geniale, infondendo disperazione e rabbia autentica allo splendore simbolico del cartoon. Il risultato è una performance complessa che trasuda elettricità, animalità e brivido in ogni passaggio. La scena della trasformazione è un capolavoro gotico assoluto. E nei combattimenti sui gelidi tetti di Gotham City la Pfeiffer è una meraviglia da guardare. L’Oscar sarebbe stato troppo poco. Un’interpretazione che è già leggenda. Icona. Mito.
Tra le altre attrici snobbate dalle nominations ricordiamo almeno la meravigliosa Tilda Swinton di Orlando, Whoopie Goldberg per Sister Act, Geena Davis per Ragazze vincenti e soprattutto l’efficace e notevole Sharon Stone di Basic Instinct, catapultata dall’anonimato al ruolo di diva assoluta e nuovo, chiacchieratissimo sex symbol del decennio. Lo scandalo ed il rumore sollevato del film non permise di valutare pienamente la grande prova della Stone in quello che, assieme alla Ginger di Casino, resta il suo ruolo migliore, Catherine Tramell.
La sconosciuta e bravissima Marisa Tomei si portò a casa l’Oscar come non protagonista per la commedia Mio cugino Vincenzo, battendo contro ogni pronostico Judy Davis (Mariti e mogli), Joan Plowright (Un incantevole aprile), la potente Miranda Richardson (Il danno) e perfino un mostro sacro come Vanessa Redgrave (Casa Howard). Personalmente avrei preferito veder vincere la Tomei in anni più recenti per prove più mature e complesse (In the Bedroom o The Wrestler) e avrei dato senza dubbio la statuetta alla Richardson (impressionante anche come perfida dark lady ne La moglie del soldato).
Per quanto riguarda gli uomini, l’Oscar ad Al Pacino per Scent of a woman valeva più come premio alla carriera che per l’interpretazione istrionica nel film di Martin Brest. Ma l’attore italoamericano avrebbe prima o poi dovuto vincere ed era anche candidato fra i non protagonisti per Americani. Gli altri candidati Clint Eastwood (Gli spietati), Robert Downey Jr (Chaplin), Denzel Washington (Malcom X) e Stephen Rea (La moglie del soldato) dovettero passare la mano. Ma la cinquina per il miglior attore avrebbe facilmente potuto essere costituita da altri nomi, tanti furono gli snobbati eccellenti: Tom Cruise (Codice d’onore), Jack Nicholson (Hoffa), Tim Robbins nominato ai Golden Globes sia per I protagonisti che per Bob Roberts e ignorato dall’Academy, il selvaggio e bellissimo Daniel Day-Lewis de L’ultimo dei Mohicani. Ma il mio cuore nel 1992 batteva solo per Gary Oldman, romantico, tragico e spaventevole principe Vlad nel Bram Stoker’s Dracula.
Tra gli attori non protagonisti il vecchio leone Gene Hackman (Gli spietati) tornò a vincere a venti anni di distanza dall’Oscar come protagonista per Il braccio violento della legge e si impose su Jack Nicholson (Codice d’onore), Al Pacino (Americani), David Paymer (Mr Saturday Night) e l’incredibile Jaye Davidson de La moglie del soldato.

Nel ruolo di Dil, il cuore nero del film di Jordan, Davidson non ha bisogno di recitare: gli basta quel volto e quel corpo carico di mistero per aprire una voragine in cui sprofondare. Ancora una volta troppo perfetto per vincere un Oscar.
mercoledì 25 novembre 2009
I miei Oscar: 1991

Film dell'anno Il Silenzio degli Innocenti di Jonathan Demme



Le altre attrici candidate erano Laura Dern per Rosa Scompiglio e i suoi amanti e Bette Midler per la commedia musicale For the Boys. Ignorate l'iper-glamour Annette Bening di Bugsy, la Kathy Bates post-Misery di Pomodori verdi fritti, la strepitosa Anjelica Huston de La famiglia Addams e soprattutto l'altro grande star-turn dell'anno, la splendida Michelle Pfeiffer di Frankie & Johnny-Paura d'amare (per un'analisi della performance della Pfeiffer nel film di Marshall vedi post precedente).
Fra le attrici non protagoniste Mercedes Ruehl per La leggenda del Re Pescatore trionfò su Diane Ladd (Rosa Scompiglio), Kate Nelligan (Il principe delle maree), Jessica Tandy (Pomodori verdi fritti) e sulla giovanissima e sconvolgente Juliette Lewis di Cape Fear, il thriller ad altissimo voltaggio di Martin Scorsese. La scena della seduzione tra lei e Max Cady (Robert de Niro) nel teatro della scuola è un trionfo di perversione assolutamente paralizzante. La Lewis meritava la statuetta.
I candidati come miglior attore erano Warren Beatty (Bugsy), Nick Nolte (Il principe delle maree), Robin Williams (La leggenda del Re Pescatore), Robert de Niro (Cape Fear) e sir Anthony Hopkins (Il silenzio degli innocenti). Forse solo De Niro avrebbe potuto insidiare la vittoria di Hopkins: ma la geniale, epocale ed ontologica interpretazione di Hannibal Lecter non poteva avere rivali. Raramente gli Oscar centrano in pieno il migliore dell'anno. In questo caso, forse, del decennio.

Il trionfo del film di Demme fu superiore ad ogni aspettativa, non solo in termini di incassi, ma anche di riconoscimento da parte dell'Academy. Per la prima volta un thriller vinceva i cinque Oscar maggiori: film, regia, sceneggiatura ed interpreti principali. E non stiamo parlando di un thriller qualsiasi, ma di un'opera controversa, coraggiosa, lucida e devastante, lontana anni luce dalla classiche pellicole da Oscar. Un film alternativo e maledetto, sporco e crudele, sceneggiato alla perfezione e diretto con mano ispiratissima da un Jonathan Demme capace di creare incubi veri con una forza espressiva straordinaria. Bugsy, JFK e Il principe delle maree al confronto sembrano film per neonati. Thelma & Louise di Ridley Scott avrebbe invece meritato maggiore considerazione, a parte l'Oscar per la sceneggiatura originale e le candidature per regista e le due eccezionali attrici.
Harvey Keitel avrebbe infatti dovuto vincere fra i non protagonisti proprio per il film di Scott, invece era candidato per Bugsy insieme a Ben Kingsley (Bugsy), Tommy Lee Jones (JFK), Micheal Lerner (Barton Fink) e Jack Palance, cui andò l'Oscar per Scappo dalla città.
Tutto sommato, un'annata straordinaria. Cosa ne pensate?
giovedì 19 novembre 2009
I have a dream



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Tra meno di un mese, il prossimo 15 dicembre, saranno annunciate le candidature ai Golden Globes, seguite il 17 dicembre dalle nominations per gli Screen Actors Guild Awards. Le cerimonie di premiazione avverranno rispettivamente il 17 e il 23 gennaio 2010, pochi giorni prima delle candidature agli Academy Awards previste per il 2 febbraio. La febbre sale. Sarebbe meraviglioso vedere concorrere agli Oscar le mie quattro attrici preferite in assoluto. Manca solo Glenn Close e la cinquina sarebbe completa. Per Meryl Streep non c'è pericolo, la candidatura è assicurata, mentre più incerta (ma non del tutto sfavorevole) è la situazione di Julianne Moore (A Single Man) e Susan Sarandon (The Lovely Bones): dovranno vedersela con la spietata concorrenza delle attrici di Nine (Cruz e Dench), Up in The Air (Kendrick e Farmiga) e Precious (Mo'nique). Nine potrebbe travolgere come un uragano, ma in base alle preview solo Penelope Cruz ha scatenato isterici entusiasmi e sembrerebbe avere chance effettive (Judi Dench è leggermente meno quotata, mentre Marion Cotillard sarà probabilmente candidata come lead). Quanto al film di Jason Reitman, difficile che Anna Kendrick e Vera Farmiga siano candidate entrambe: questo lascerebbe spazio alla Sarandon, ma nessuno ha ancora visto The Lovely Bones (esce l'11 dicembre) e il film potrebbe non essere all'altezza delle aspettative.
mercoledì 11 novembre 2009
I miei Oscar: 1990

L'inizio degli anni '90 rappresentò per gli Oscar un felicissimo momento di apertura verso pellicole non convenzionali e tematiche quantomeno controverse: basti pensare alle pluricandidature assegnate a film come Il Silenzio degli Innocenti nel 1991, Philadelphia nel 1993 e Pulp Fiction nel 1994. Il western tornò prepotentemente di moda con Balla coi lupi, tendenza confermata due anni dopo con Gli Spietati di Clint Eastwood. Regista ed interprete dell'epopea filo-indiana che commosse le platee di mezzo mondo, il bel Kevin Costner era già famoso per Gli Intoccabili e Bull Durham, ma con Balla coi lupi divenne una star assoluta e avrebbe dominato tabloid e box office per circa un lustro. Se gli attori del decennio furono probabilmente Tom Hanks e Tom Cruise, sul versante femminile le dive degli anni '80 iniziarono ad accusare segni di appannamento, lasciando il posto a nuovi ingressi: Julia Roberts nella commedia romantica, Susan Sarandon nel dramma, Michelle Pfeiffer in tutti i generi possibili ed immaginabili, Meg Ryan, Jodie Foster, in misura minore Winona Ryder, infine Sharon Stone e Demi Moore come star da copertina. La ventata di rinnovamento investiva anche i ruoli assegnati alle donne: ruoli finalmente forti, a tutto tondo, senza sconti per nessuno.
Kathy Bates: Misery




Whoopi Goldberg: Ghost

Per gli uomini non c'era storia: Jeremy Irons vinse per Il Mistero Von Bulow, performance eccellente, ma nulla a che vedere col tour de force fornito l'anno precedente nell'incredibile Inseparabili di David Cronenberg, film per il quale non era nemmeno stato candidato. Nel ruolo dei due gemelli ginecologi Irons fu memorabile e l'Academy non poteva non sentirsi in colpa.


Quanto ai non protagonisti, onore a Joe Pesci per Quei Bravi Ragazzi. Il capolavoro di Martin Scorsese avrebbe meritato maggiori riconoscimenti ma il regista italoamericano avrebbe dovuto aspettare altri sedici anni per vincere. Altri candidati furono Al Pacino per Dick Tracy e Andy Garcia per Il Padrino Parte III.