lunedì 23 novembre 2009

La sofferenza auto-inflitta di Erika


Il doloroso e necessario viaggio alla scoperta delle radici del male condotto da Micheal Haneke ne Il nastro bianco mi ha spinto a rivedere La pianista, assieme a Funny Games sicuramente il suo film più celebre (non ho ancora visto Cachet, faccio pubblica ammenda). All'origine di questo riaccostarmi al film c'era probabilmente una inconscia volontà sadomasochistica, anche perché ricordavo benissimo quanto la prima visione fosse stata tutt'altro che una passeggiata in termini di coinvolgimento e sofferenza.

Haneke è un autore rigoroso e coerente, sceglie una strada e la porta fino in fondo senza nessuna concessione e nessun cedimento. Nulla lo scalfisce e sa bene come affondare la lama. Anche a costo di risultare programmatico nella sua sgradevolezza. Alla luce de Il nastro bianco, La pianista è ancora più scarno, essenziale, gelido e devastante. Lunghissime sequenze, primi piani estenuanti, un montaggio ridotto all'osso, una storia (terribile) che si dipana lentamente e banalmente attraverso piccoli gesti e fatti quotidiani ripresi senza stacchi, tra sguardi silenziosi e pause interminabili in cui sembra non avvenire nulla ma nelle quali c'è già tutto il senso del dramma. Perché La pianista è soprattutto la tragedia muta di una donna che non sa amare e che si è costruita una modalità di rapportarsi all'altro basata sulla negazione del sentimento e del sesso, sul potere, sulla sopraffazione, sulla violenza auto-inflitta, sul distanziamento del rapporto sadomasochisto (si veda la lettera con le richieste e le istruzioni che Erika scrive al giovane Walter pretendendo che lui la legga ad alta voce).

Ciò che disturba ne La pianista è la sensazione di assoluta normalità ed estremo realismo con cui la storia e la vita di Erika si sviluppano sullo schermo, come se il film fosse un documentario. Senza morbosità e sospendendo qualsiasi giudizio morale, la macchina da presa segue questa donna nel suo peregrinare ostinato e premeditato tra sexy shop, dark rooms e parcheggi, resta incollata sul suo volto impenetrabile per interi minuti o semplicemente osserva le azioni mostruose che commette e verso le quali dimostra di non avere alcun ripensamento, alcun senso di colpa. Una normalità della perversione in cui Erika stessa è immersa fino ad esserne compenetrata: la violenza (fisica e psicologica) che fa prima di tutto a sé stessa e poi agli altri si esprime in atteggiamenti ed azioni che per lei, in qualche modo, da qualche parte nella sua mente, sono diventati normali. Un modo di vivere metodico, cadenzato, strutturato e completamente diviso che per Erika è assolutamente normale, proprio perché quotidiano (l'ingombrante rapporto con la madre meriterebbe una trattazione a parte: ma anche qui Haneke intende soltanto suggerire cosa possa esserci dietro il comportamente di Erika piuttosto che spiegarlo chiaramente. Tutto questo è assolutamente destabilizzante).



L'incontro col giovane allievo spezza questo equilibrio e rompe questa insana normalità: Walter chiede di essere ascoltato imponendo ad Erika di confrontarsi con un'altra persona, di uscire da sé stessa. Erika non ne è assolutamente in grado, proprio perché chiusa in un universo auto-sufficiente in cui nega a sé stessa ogni possibilità di amore: "Io non ho sentimenti Walter, mettitelo bene in testa, ed anche se ne ho per un giorno non prevarranno mai sulla mia intelligenza". Il giovane si esprime attraverso un linguaggio d'amore che Erika non può comprendere, semplicemente perché non lo conosce. Quando lui legge la lettera ed Erika estrae ad uno ad uno, con lentezza quasi sacrale, gli strumenti con cui vorrebbe essere legata e torturata, Walter comprende l'inferno nel quale vive la donna, ma piuttosto che allontanarsi diventa sprezzante e beffardo, decidendo di stare al gioco proprio nel momento in cui realizza il suo disgusto e il suo totale rifiuto. Come a voler riaffermare una superiorità, una mascolinità che l'atteggiamento fino ad allora autoritario di Erika aveva scalfito o in qualche modo messo in dubbio.

La sopraffazione si realizza quindi in modalità che Erika aveva immaginato diverse. "Dovresti sapere quello che si può fare ad un uomo e quello che non si può fare" le dice Walter. L'umiliazione che Erika gli ha inflitto è troppo grande da tollerare: a questo punto la crudeltà del giovane si rivela addirittura superiore a quella di Erika, proprio perché direttamente rivolta contro di lei, verso l'esterno quindi, mentre quella di Erika è chiaramente direzionata contro sé stessa. Quando Erika si trova a sentire sulla propria pelle l'insanabile scollamento tra la fantasia (la richiesta dettagliata nella lettera di essere oggetto di violenza) e la realtà, quell'equilibrio non può più ricomporsi. Rifiutata, ignorata, abusata, Erika non è più solo vittima di sé stessa. Adesso può finalmente compiersi il gesto estremo di auto-flagellazione.

Il primo piano finale sul suo volto è agghiacciante: Isabelle Huppert attraversa il film con una forza ed una presenza micidiali perseguendo l'ostinazione al male di Erika con monumentale fermezza, e riuscendo a far trasparire tutta la miseria umana dietro una maschera di gelido, spietato controllo. Ma quella smorfia di muto dolore sul suo volto fisso mentre affonda il coltello nella spalla sinistra, appena sopra al cuore, è uno di quei momenti che ti si attaccano addosso e non si dimenticano più.

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