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Lo sguardo di Lea nel primo piano finale è quello di chi non ha più nessuno da amare e più nulla in cui sperare. Lea non deve prepararsi all'incontro con la morte. Lei è già lì. Nei suoi occhi la vediamo lentamente avvicinarsi.
Inarrivabile Michelle Pfeiffer. Incarnazione della bellezza al pari di Catherine Deneuve o Isabelle Adjani. Ed attrice dal talento incomparabile. Il ruolo di Lea de Lonval non può non richiamare alla memoria la Madame Olenska de L'età dell'innocenza. Non una cortigiana, ma una donna ugualmente scandalosa, con un matrimonio sbagliato alle spalle ed il coraggio di lottare contro le convenzioni sociali. Per amore e per la propria libertà.
Di una bellezza sovrumana l'inquadratura in cui, durante il ricevimento in suo onore dai Van der Luydens, Ellen osa sfidare le regole dei salotti newyorchesi ed abbandona la compagnia di un gentiluomo per andare incontro a Newland Archer. Il carrello, il ralenti e lo splendore della Pfeiffer creano un momento di rara magia. Ellen-Lea-Michelle 16 anni fa, nel pieno della sua sensualità e del suo mistero. Sedici anni dopo lei è sempre immensa. E' il cinema che è diventato troppo piccolo. Forse non ci meritiamo tanta incantevole grazia.
Nella Parigi dei primi del '900, Lea de Lonval (Michelle Pfeiffer) è una ricca ed ancora bellissima cortigiana d'alto bordo giunta alla fine della sua gloriosa carriera. La vecchia rivale ed ora amica Madame Peloux (Kathy Bates, petulante e infida) le chiede di occuparsi dell'educazione sentimentale e sessuale del figlio Chéri (Rupert Friend, angelico e irridente), fulgido giovane dalla condotta debosciata e senza freni. Le lezioni d'amore sfociano in una relazione che dura sei anni, fino a quando Madame Peloux non pianifica il matrimonio di Chéri con la giovane Edmée. Costretti a separarsi, Lea e Chéri si scoprono innamorati. Ma è troppo tardi per un futuro di autentica felicità.
Chéri è un film-miniatura (poco più di 80 minuti di durata) in cui la trama scorre rapida e stringata, senza alcuna divagazione, come un racconto popolare d'appendice; una miniatura fitta di dettagli ambientali e psicologici, un piccolo, splendido cameo in cui personaggi e azioni sono congelati in una commedia delle maniere imposta dai ruoli, dalle convenzioni sociali e dal Tempo che passa inesorabile; un teatrino dei sentimenti che nega l'amore rincorrendo il piacere e l'effimera felicità del denaro, ma che verrà spazzato via dalla ferocia della prima guerra mondiale (cui la voce fuori campo accenna seccamente nel gelido finale). Frears sceglie il registro leggero della commedia ed impone al materiale narrativo l'andamento brioso, apparentemente frivolo ed effervescente, di un'operetta. Ma sotto la superficie pulsa l'anima del melo' e del valzer autunnale.
A sottolineare le aperture sentimentali al melodramma interviene la colonna sonora di Alexandre Desplat, autentico gioiello che rievoca magistralmente l'atmosfera dell'epoca ed accompagna gli spettatori nel cuore di questi personaggi che si seducono l'un l'altro ma non sanno (come) essere felici e si amano ma non riescono a dirselo. Ma ancor più della musica e delle aperture paesaggistiche (dal palazzo in stile liberty di Lea e dalla serra lussureggiante di Madame Peloux, si passa ad una corsa in auto lungo un viale alberato, o all'ariosa vista sul mare dalla terrazza dell'Hotel a Biarritz) è il montaggio a dare dinamismo alla storia, mentre la finissima regia di Frears con precisi movimenti di macchina svela l'interiorità dei personaggi al di là delle maschere sociali.
Nella scena della seduzione iniziale, Chéri, lascivamente appoggiato alla vetrata del giardino, chiama a sé Lea: la macchina da presa si muove sinuosamente accompagnando il movimento di Lea che, apparentemente in controllo del proprio potere ma già sedotta dal fascino dell'impetuosa giovinezza di Chéri, gli si avvicina e lo bacia. E una lacrima bagna il volto limpido del giovane amante a sigillare un'unione che non sarà solo contrattuale, ma sincera e dolorosa per entrambi.
La macchina da presa insegue, rincorre, inquadra Lea in piena adorazione della sua figura e della sua dignità, ma soprattutto scruta nel privato della sua stanza ed indaga sul suo volto alla ricerca dei momenti in cui il controllo delle emozioni nei duelli verbali cede il passo alla verità interiore: ed ecco che la maschera cade e lo sguardo di Frears coglie per un istante sul volto di Lea il turbamento, la delusione, il dolore, l'abbandono, la malinconia per l'Età che inesorabilmente la separa da Chéri. Sublime la scena in cui annusa una rosa ed un istante dopo i petali si sfaldano fra le sue mani, simbolo di una bellezza che sta svanendo.
Tra le altre attrici snobbate dalle nominations ricordiamo almeno la meravigliosa Tilda Swinton di Orlando, Whoopie Goldberg per Sister Act, Geena Davis per Ragazze vincenti e soprattutto l’efficace e notevole Sharon Stone di Basic Instinct, catapultata dall’anonimato al ruolo di diva assoluta e nuovo, chiacchieratissimo sex symbol del decennio. Lo scandalo ed il rumore sollevato del film non permise di valutare pienamente la grande prova della Stone in quello che, assieme alla Ginger di Casino, resta il suo ruolo migliore, Catherine Tramell.
La sconosciuta e bravissima Marisa Tomei si portò a casa l’Oscar come non protagonista per la commedia Mio cugino Vincenzo, battendo contro ogni pronostico Judy Davis (Mariti e mogli), Joan Plowright (Un incantevole aprile), la potente Miranda Richardson (Il danno) e perfino un mostro sacro come Vanessa Redgrave (Casa Howard). Personalmente avrei preferito veder vincere la Tomei in anni più recenti per prove più mature e complesse (In the Bedroom o The Wrestler) e avrei dato senza dubbio la statuetta alla Richardson (impressionante anche come perfida dark lady ne La moglie del soldato).
Per quanto riguarda gli uomini, l’Oscar ad Al Pacino per Scent of a woman valeva più come premio alla carriera che per l’interpretazione istrionica nel film di Martin Brest. Ma l’attore italoamericano avrebbe prima o poi dovuto vincere ed era anche candidato fra i non protagonisti per Americani. Gli altri candidati Clint Eastwood (Gli spietati), Robert Downey Jr (Chaplin), Denzel Washington (Malcom X) e Stephen Rea (La moglie del soldato) dovettero passare la mano. Ma la cinquina per il miglior attore avrebbe facilmente potuto essere costituita da altri nomi, tanti furono gli snobbati eccellenti: Tom Cruise (Codice d’onore), Jack Nicholson (Hoffa), Tim Robbins nominato ai Golden Globes sia per I protagonisti che per Bob Roberts e ignorato dall’Academy, il selvaggio e bellissimo Daniel Day-Lewis de L’ultimo dei Mohicani. Ma il mio cuore nel 1992 batteva solo per Gary Oldman, romantico, tragico e spaventevole principe Vlad nel Bram Stoker’s Dracula.
Tra gli attori non protagonisti il vecchio leone Gene Hackman (Gli spietati) tornò a vincere a venti anni di distanza dall’Oscar come protagonista per Il braccio violento della legge e si impose su Jack Nicholson (Codice d’onore), Al Pacino (Americani), David Paymer (Mr Saturday Night) e l’incredibile Jaye Davidson de La moglie del soldato.
Film dell'anno Il Silenzio degli Innocenti di Jonathan Demme
Il trionfo del film di Demme fu superiore ad ogni aspettativa, non solo in termini di incassi, ma anche di riconoscimento da parte dell'Academy. Per la prima volta un thriller vinceva i cinque Oscar maggiori: film, regia, sceneggiatura ed interpreti principali. E non stiamo parlando di un thriller qualsiasi, ma di un'opera controversa, coraggiosa, lucida e devastante, lontana anni luce dalla classiche pellicole da Oscar. Un film alternativo e maledetto, sporco e crudele, sceneggiato alla perfezione e diretto con mano ispiratissima da un Jonathan Demme capace di creare incubi veri con una forza espressiva straordinaria. Bugsy, JFK e Il principe delle maree al confronto sembrano film per neonati. Thelma & Louise di Ridley Scott avrebbe invece meritato maggiore considerazione, a parte l'Oscar per la sceneggiatura originale e le candidature per regista e le due eccezionali attrici.
Harvey Keitel avrebbe infatti dovuto vincere fra i non protagonisti proprio per il film di Scott, invece era candidato per Bugsy insieme a Ben Kingsley (Bugsy), Tommy Lee Jones (JFK), Micheal Lerner (Barton Fink) e Jack Palance, cui andò l'Oscar per Scappo dalla città.
Tutto sommato, un'annata straordinaria. Cosa ne pensate?