giovedì 14 gennaio 2010

In difesa di Nine


Non si può liquidare in poche righe un film come Nine, non foss’altro per l’enorme sforzo produttivo e l’innegabile, eccezionale livello tecnico e artistico del team creativo.
Per quel che mi riguarda, la visione del film ieri mattina non poteva non essere filtrata dall’affetto personale che provo per il musical di Yeston e dalla nostalgia per i miei anni di accademia teatrale. Nel 2004 The Bernstein School of Musical Theater a Bologna mise in scena un pregevole allestimento di Nine con traduzione italiana per la regia di Shawna Farrell ed io facevo parte del cast (Corrado Siddi, mio grande amico, ne era il notevolissimo protagonista). Probabilmente in sala eravamo gli unici a conoscere già i pezzi, non solo quelli tratti dalla versione di Broadway ma anche i tre brani originali composti da Yeston appositamente per il film.

Solo conoscendo già le canzoni è possibile concentrarsi sugli elementi scenico-visivi e sulla profondità del lavoro attoriale, apprezzando i molteplici livelli di un film tanto stratificato e complesso, quanto glamour e patinato. Trovo il musical Nine molto ispirato a livello compositivo, ma anche sofisticato e non di facile presa. Immagino che il pubblico, a parte una manciata di canzoni (Be Italian e Cinema Italiano) lo giudicherà noioso e musicalmente poco orecchiabile e seducente. Invece è brillante e sincero. Naturalmente nel passare dallo stage allo schermo molte cose sono cambiate e non sempre in meglio. Operare delle scelte e dei tagli era comunque inevitabile. Ma andiamo con ordine.


Ambientato a Roma nel 1965, Nine è un film sul fallimento personale del regista Guido Contini (Daniel Day-Lewis, in un personaggio che ricalca Marcello Matroianni in 8 e ½). In piena crisi creativa all’inizio delle riprese del suo nuovo film, Contini non ha ancora scritto una sola riga del copione. Il produttore (Ricky Tognazzi) lo incalza, la costumista Lilly (Judi Dench) cerca di scuoterlo dal torpore ed ha già pronti i nuovi costumi pur non sapendo di cosa tratti il film, la star Claudia Jenssen (Nicole Kidman truccata e vestita come Anita Ekberg) fa i capricci e si lamenta di non aver ancora ricevuto il copione, l’amante Carla (Penelope Cruz) lo raggiunge alla stazione termale dove lui si rifugia lontano dai flash dei paparazzi e porta ulteriore scompiglio nella sua vita. In tutto questo, la moglie Luisa (Marion Cotillard) soffre in silenzio, pur sapendo benissimo di essere costantemente tradita, mentre il fantasma della madre (Sophia Loren) gli appare affettuoso e consolatorio ma non può dargli le risposte di cui avrebbe bisogno. Di scrivere il film proprio non se ne parla: “Sei troppo impegnato ad inventare la tua vita”, gli dice Lilly. Un blocco spaventoso, una crisi esistenziale senza precedenti che lo porta a chiedere udienza al cardinale e gli fa ripercorrere i sentieri della memoria, alla ricerca delle radici della sua educazione sentimentale e sessuale.

Un film che parla di cinema attraverso il continuo riferimento (nei personaggi, nelle situazioni, negli ambienti) ad un altro film che ha fatto la storia del cinema, 8 e ½ appunto, e ad un’epoca, gli anni ‘60 della dolce vita italiana, rievocati con gusto, nostalgia e precisione dei dettagli e non, come serpeggiava fra i colleghi, in modo stereotipato o cartolinesco (molto belli i brani di musica leggera italiana scelti in sottofondo). Al livello diegetico della realtà (la narrazione della storia) si sovrappongono i livelli della fantasia, del sogno e della memoria (quest’ultima fotografata in un bellissimo bianco e nero). Su questi livelli paralleli si colloca la sfera musicale del film, che vede gli attori cantare i rispettivi brani nel teatro di posa allestito per il nuovo film di Contini. Ed ecco che emerge l’altro livello del film, quello propriamente teatrale e coreografico. Nel mettere in scena su un palcoscenico i numeri musicali Marshall ricorre alla stessa soluzione usata in Chicago, cioè evidenzia la natura teatrale dell’opera (ed al tempo stesso l’onirismo del mezzo cinematografico, che consente tali scivolamenti da un mezzo all’altro).

Probabilmente è questo che i detrattori non gli perdonano: non aver inventato nulla di nuovo. Ma se in Chicago l’integrazione dei livelli funzionava a meraviglia anche perché la progressione della storia non era solo appannaggio della sfera narrativa ma anche dei brani musicali, in Nine le canzoni risultano spesso soltanto giustapposte alla narrazione: il fatto che il montaggio intersechi la narrazione (spesso interrompendo una scena dialogata) con i numeri musicali allestiti in teatro (come se fossero sogno/allucinazione/memoria) finisce col sottolineare non la fluidità ma la definitiva separazione della sfera musicale da quella narrativa. Musicalmente parlando, questo è un grave errore, anche perché le canzoni di Nine non portano avanti la storia (a parte forse Take It All e I Can’t Make This Movie cantata da Guido nel finale) e la scaletta dei brani (radicalmente modificata rispetto alla versione on stage) e l’architettura del film che prevede una canzone per ogni personaggio e così via fino alla fine senza alcuna deroga, risulta schematica e, in termini strutturali, molto noiosa.


A compensare il risultato debole ed incerto di queste scelte strutturali abbiamo un montaggio e una fotografia strepitosi che per ogni momento creano rispettivamente la giusta sferzata di ritmo e l’atmosfera adeguata. E c’è l’occhio di Marshall, un regista che in fatto di musical sa decisamente il fatto suo e sa come valorizzare, da grande esteta qual è, la bellezza del cast femminile. E ci sono gli attori. Daniel Day-Lewis è fisicamente ed emotivamente credibile dall’inizio alla fine, tormentato e nevrotico, bugiardo per professione e traditore per natura: è un piacere sentirlo recitare e cantare con accento italiano (ed in modo per giunta niente male, anche se i suoi due pezzi sono piuttosto deboli). Penelope Cruz è sexy, fragile e buffa allo stesso tempo: la sua Carla, gattina svampita ed ingenua completamente annegata nell’amore per Contini, è un piccolo capolavoro a tutto tondo (provocante senza mai sfiorare la volgarità, comica e triste al tempo stesso) e la resa del brano A Call From the Vatican è il trionfo della sua sensualità accogliente. La performance vocale è piuttosto piatta ma visivamente, signori miei, Penelope è l’unica oggi che possa gareggiare con la tenerezza e il calore di Marilyn Monroe.


L’altra performance che merita applausi a scena aperta è quella di Marion Cotillard. Quando la macchina da presa la inquadra il film rallenta il passo e trattiene il respiro, quasi naufragando nella dolcezza e nel dolore della sua interpretazione. My Husband Makes Movies è uno dei momenti più intensi (uno dei pochi in cui non c’è la separazione fra i livelli narrativo/musicale cui accennavo prima): niente lustrini, niente montaggio ipercinetico, solo il suo volto e la bellissima partitura di Yeston. Più problematico il discorso riguardo il secondo brano, Take It All, che sostituisce la canzone originale Be On Your Own e si colloca nel momento in cui Luisa realizza la fine del rapporto con Guido. Ai toni melodrammatici del brano originale è stato preferito il jazz prima sensuale, poi graffiato ed aggressivo della nuova composizione (un “viaggio” musicale perfettamente reso dalla performance vocale della Cotillard). La soluzione scelta da Marshall (un masochistico strip-tease di Luisa di fronte a Guido e ad una platea di uomini urlanti, dai quali si lascia toccare abbandonandosi fra le loro braccia), se drammaticamente ha un certo effetto, risulta straniante e spezza l’intensità del momento narrativo precedente (Luisa che visiona i provini del film ed ha la certezza della falsità di Guido): come fantasia di Guido sembra arrivare direttamente da Chicago (e il gioco scenico di Marshall rivela la corda), e come fantasia di ribellione di Luisa non è affatto conforme al personaggio.

Le altre star fanno egregiamente il loro dovere: Judi Dench è brillante e pungente, proprio come ti aspetteresti che sia, e Folies Bergere è un pezzo da rivista nostalgico e spumeggiante. Nicole Kidman è divina da par suo: praticamente interpreta sé stessa, una star assoluta nel ruolo della musa di Contini, in un corto circuito di senso che i toni intimi della Kidman (cui lo script regala qualche bella battuta sulla persona reale che si nasconde dietro la figura della diva) rendono quasi commovente. La grandezza di Unusual Way, brano cantato dal personaggio di Claudia, è tuttavia inevitabilmente compromessa dai limiti vocali dell’attrice australiana e, nonostante gli sforzi, il blocco narrativo legato al suo personaggio si segnala come uno dei meno riusciti.


Infine le due sequenze più esaltanti. Cinema Italiano è stato ampiamente criticato su tutti i fronti ma è un brano trascinante che la vitale performance di Kate Hudson e le meraviglie del montaggio rendono assolutamente irresistibile. Ma è Fergie a divorare la scena nel ruolo della Saraghina, la prostituta che insegna il sesso e l’amore al piccolo Guido: Be Italian ha lo stesso effetto elettrizzante di Cell Block Tango in Chicago, ed è il pezzo più bello di Nine. La genialità della coreografia e la perfezione del montaggio, uniti alla forza animalesca e alla voce devastante di Fergie sollevano per cinque minuti Nine ad un livello altissimo. Chi ama il musical sa di cosa sto parlando.

Nel passare dallo stage allo schermo Grand Canal, Simple, Only With You e addirittura la canzone Nine sono state tagliate: non credo che il pubblico potrà cogliere il vero significato del titolo al di là del riferimento numerico al film di Fellini. La sceneggiatura accenna infatti solo una volta all’età del piccolo Guido, nove anni. Al posto di Nine, Sophia Loren intona la ninna nanna Guarda la luna, una composizione dall’estensione limitatissima che la nostra star rende come può. Ma la sua mitica presenza vale molto di più di qualunque cosa dica o faccia sulla scena.

Appassionati di musical di tutto il mondo, unitevi! Non lasciate che questo film affondi e non credete alle recensioni che leggerete sui giornali. Nine non è Chicago, né Moulin Rouge né tantomeno Hairspray: ma è divertente, è fatto con passione e talento e, nonostante i difetti, ha un fascino nostalgico e quasi decadente cui è impossibile resistere.

voto: 7

3 commenti:

  1. Ebbene personalmente non ho intenzione di farmelo scappare e domando:
    per caso qualcuno ha una registrazione video del musical originale messo in scena dalla BSMT con Corrado Siddi come protaginista?

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  2. Io lo aspetto da quando ho saputo che la sceneggiatura era in fase di valutazione. Adoro quel musical, adoro il cast che è stato raggruppato (una mandria dei migliori cavalli di razza di Hollywood). Tuttavia ho ascoltato sul web ""Unusual way" cantata dalla Kidman... non mi è piaciuta affatto.

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  3. oooops, l'avevi già recensito e non avevo visto..chiedo venia :)

    Avevo grandi aspettative da questo film e in parte sono state soddisfatte. Mi era piaciuto molto Chicago (tanto da comprami il cd della colonna sonora)e quindi sapevo che Marshall è una garanzia. Dico 'in parte' perchè ovviamente sono stata molto soddisfatta dal ritmo incalzante di alcune parti del film, ma allo stesso tempo un pochino di noia è subentrata nelle parti meno movimentate e introspettive.Rischio di essere banale ma ovviamente i numeri che mi sono piaciuti di più sono quelli della solarissima Kate Hudson e della esplosiva -a dir poco- Fergie (anche a me Be Italian ha ricordato molto Cell Block Tango). Una sopresa è stata la Cotillard, che non conosco bene cinematograficamente parlando, e la sua eleganza che riempie lo schermo. Molto brave anche l'ironica Dench e la 'svampitamente' sensuale Cruz. Non mi è piaciuta tanto la Kidman, forse perchè non mi è mai piaciuta e non sopporto la sua faccia al botox :)
    Molto convincente Day Lewis, cupo e ingobbito quanto basta per far emergere la vera crisi dell'artista.
    Ad ogni modo oltre alla bellissima colonna sonora ho apprezzato davvero tanto le scenografie e soprattutto le luci, sapientemente puntate o oscurate al momento giusto, che riescono a portare questa o quella scena al culmine.

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