domenica 7 marzo 2010

Shutter Island: le ferite creano mostri


Probabilmente al box office italiano Shutter Island perderà il confronto con Alice in Wonderland questo week end, ma in America, uscito il 19 febbraio scorso, veleggia ormai verso i 100 milioni di dollari di incasso (The Departed chiuse a quota 127 milioni): un risultato molto positivo per uno dei film più angoscianti, complessi e sofisticati degli ultimi anni.

La mia recensione la trovate su Loudvision al link: http://www.loudvision.it/cinema-film-shutter-island--944.html. Devo ammettere che, all'indomani della proiezione stampa all'inizio di febbraio, ho assegnato 9 cercando di contenere l'entusiasmo, altrimenti avrei dato 10. L'accoglienza piuttosto fredda della stampa (non solo italiana: rottentomatoes registra solo un 67% di recensioni positive e classifica Shutter Island come uno Scorsese minore) mi ha lasciato perplesso e mi ha persino portato per un istante a dubitare del mio giudizio. Ma state certi che non accadrà mai più. Perché Shutter Island è il miglior Scorsese da Casino ad oggi: abbandonata la vacua grandeur hollywoodiana di The Aviator e Gangs of New York e messo il formalismo di The Departed al servizio di una storia (tratta dal romanzo di Dennis Lehane, autore di Mystic River) tipicamente scorsesiana (senso di colpa e cammino di redenzione: una via crucis privata che intreccia la tragedia del nazismo, quindi la Storia, ad una delle più incisive riflessioni sulle radici del male e sull'origine della violenza viste di recente), Shutter Island ci consegna uno Scorsese che torna a mostrare muscoli, cuore e cervello come solo lui sa fare.

Ieri sera, alla seconda visione del film, ho avuto il mio shining definitivo, la conferma del capolavoro ("cinefilia e visceralità" è il titolo della recensione su Loudvision): Shutter è un'opera magnifica, girata superbamente, scolpita con l'ineguagliabile gusto cinefilo di Scorsese e capace, attraverso un lavoro sopraffino sui meccanismi del thriller (abilmente mescolato al noir gotico e all'horror psicologico d'atmosfera) di restituire una visione della realtà ispessita, densa ed allucinata, che fa impallidire ed al tempo stesso illumina la realtà che ci circonda.

La stessa sensazione di una vita che pulsa dallo schermo più vera, più grande e più densa di quella reale che suscita la visione di Avatar. Ma se James Cameron guarda al futuro del cinema e si affida alle meraviglie della tecnologia per costruire il suo universo immaginifico, Scorsese guarda al passato e alla storia per dare corpo al suo incubo kafkiano e cita Hitchcock, Lang e i maestri del noir con una padronanza di stile che lascia ancora stupefatti (e che lo conferma il massimo regista vivente). Gli effetti speciali (che pure non mancano, nei flashback e nelle allucinazioni del protagonista) sono qui la conoscenza della storia e la capacità di usare tutte le carte che offre il cinema per centrare un bersaglio. Ed andare infallibilmente a segno.

Il risultato è altrettanto bigger than life di Avatar, pur senza 3D. Lo stesso fa Tarantino in Bastardi senza gloria: ma se la bravura di Quentin corre a volte il rischio del compiacimento e della presunzione (talmente esibiti e dichiarati da risultare comunque ironici) o del freddo gioco intellettuale, Martin è sempre fiammeggiante e melodrammatico, torrenziale e stratificato: fa infinito sfoggio di stile ed accumula una sequenza memorabile dopo l'altra, ma non dà mai la sensazione che tanto estetismo sia gratuito. Lo splendore della forma (la fotografia di Robert Richardson è arte pura per come alterna i toni lividi e grigi dell'isola a quelli accesi e pulp delle allucinazioni) non è mai avulso da una densità di contenuti che in Shutter Island tocca una gradazione altissima. E pur nella complessità degli strati narrativi e nel disperato, agghiacciante risvolto finale, Scorsese non perde mai di vista il cinema come forma di intrattenimento. Nel senso più nobile del termine. E in questa partita vertiginosa con le ansie e le aspettative del pubblico, riesce a condurre gli spettatori in un territorio sconvolgente nel quale addentrarsi fa male.


Ma Scorsese è anche sublime direttore d'attori, che siano presenti in ogni inquadratura o si giochino soltanto brevi apparizioni. Leonardo DiCaprio costruisce una performance indomita e senza paura che fa piazza pulita di tutto il suo lavoro precedente e lo conferma il miglior attore della sua generazione. Nel finale è talmente vulnerabile, fragile e disarmante che meriterebbe l'applauso ad ogni proiezione. Tutti gli altri lavorano su più livelli e non sono certo da meno: Mark Ruffalo è bonario ed accogliente (fin troppo, tanto da scivolare presto nell'ambiguità), Ben Kingsley è fintamente luciferino, Michelle Williams pare sanguini davvero in tutte le scene in cui appare (e, dovendo incarnare un sogno-allucinazione-fantasma, ha una delle parti più rischiose, toccanti e disperate), Emily Mortimer e Patricia Clarkson destabilizzano e graffiano, Max Von Sydow e Ted Levine gelano il sangue.


Tutta la sequenza iniziale dell'arrivo a Shutter Island è da manuale: l'apparizione del traghetto che emerge come una nave fantasma dalla nebbia (le nebbie della mente?), il volto dell'agente Teddy Daniels provato dal mal di mare ("Teddy, torna in te!" dice a se stesso guardandosi allo specchio), i primi, accecanti flashback della moglie morta tragicamente, la soggettiva allarmante dell'approdo e dell'ingresso nel manicomio criminale di Ashecliffe, i toni ipnotici ed ossessivi della colonna sonora. Un film assolutamente tempestoso e tentacolare. I momenti cult non si contano, ma almeno le sequenze oniriche e tutto il finale andrebbero studiati nelle università. Shutter Island meriterebbe almeno una seconda visione per poter cogliere al meglio la grandezza, la precisione, la perfezione dell'insieme. Alla prima visione lo scarto narrativo, il progressivo scivolamento dal livello della realtà a quello dell'allucinazione e la confusione dei piani sono così insinuanti e vertiginosi che lo spettatore rischia di perdersi e di non stare più al gioco per evitare di soffrire in termini di partecipazione emotiva. Ma ne vale la pena.


La scena del dialogo tra il protagonista e il direttore del manicomio (e fate attenzione: Ted Levine è il Buffalo Bill de Il Silenzio degli Inncennti) si colloca a metà pellicola e racchiude il nocciolo della questione: "Dio ama la violenza, - dice il direttore -Dio ci ha dato la violenza per osannarlo. E' dentro di noi, è quello che noi siamo. L'unica morale è: la mia violenza può sopraffare la tua?" Se la violenza è un dono di Dio e come tale è parte integrante della natura umana, quando questa violenza può rischiare di esplodere se non in presenza del dolore? "Le ferite creano mostri e lei è un uomo ferito" si sente dire l'agente Teddy Daniels.

Le immagini dei campi di sterminio nazista si fondono con quelle della paziente scomparsa, della moglie morta, di una bambina che chiede aiuto, dei corpi ammassati agli angoli dei lager, dei soldati tedeschi barbaramente giustiziati. La tragedia si compie in un giorno di sole nell'immobile, soffocante scenario di una casa sul lago. Come se tutto si fosse fermato in quel momento. Il dolore e la violenza subita si trasforma in violenza perpetrata. E la mente crea le proprie infinite, labirintiche strategie per andare avanti. Chapeau.

Voto: 10

Nessun commento:

Posta un commento