giovedì 8 ottobre 2009

Back in time: Femmina folle e i colori sfrontati del melo'


Inauguro con questo post una rubrica con cui periodicamente intendo pescare a piene mani dal cinema classico e analizzare film a mio avviso di grande interesse non solo per il loro esito complessivo ma soprattutto per la presenza di una star femminile nel ruolo principale.
Femmina folle (Leave her to heaven) diretto da John M. Stahl nel 1945 e sceneggiato da Jo Swerling dal romanzo di Ben Ames Williams, è considerato giustamente un capolavoro del melo' e si avvale della presenza sfolgorante di Gene Tierney. Attrice spesso sottovalutata ma adorata da una vasta schiera di cinefili, la Tierney aveva già avuto modo di risplendere in film come I misteri di Shangai di Joseph von Stenberg, Il cielo può attendere di Lubitsch e in uno dei capisaldi del noir, Laura di Otto Preminger. Dotata di una bellezza assoluta, impenetrabile ed ambigua Gene Tierney in Femmina folle traccia efficacemente il ritratto di una donna gelosa e possessiva rivelando un ragguardevole talento drammatico. In un disperato bisogno di amore, Ellen arriva a soffocare la vita del marito Richard (Corner Wilde) in una spirale crescente di gelosia ed ossessione che travolgerà tutti senza scampo.

Introdotta dalla partitura orchestrale allarmante di Alfred Newman la storia è raccontata dall’avvocato del protagonista in un lungo flashback secondo una struttura tipica del film noir che nel rievocare il passato mette in atto un indagine sul personaggio femminile e una ricognizione senza speranza sul senso del destino. A differenza del film noir tuttavia, in cui l’universo è tipicamente maschile e la donna-sfinge, foriera di sventure inimmaginabili, è oggetto dello sguardo maschile ed è destinata ad una fine tragica per mano dell’uomo, il melo' mette in campo un universo femminile in cui è la protagonista a muovere la narrazione. E così avviene in Femmina folle, con l’eccezione che nel film di Stahl la protagonista è un’eroina fortemente negativa: è lo sguardo di Ellen ad attirare l’attenzione di Richard nella scena del primo incontro sul treno ed è lei a manovrare tutti i principali snodi drammaturgici in un crescendo di azioni agghiaccianti. La punizione finale della donna, come nel noir, è inappellabile, ma in Femmina folle avviene per mano della protagonista stessa, la cui ombra incomberà sulle vite degli altri personaggi ben oltre la propria soppressione all’interno del testo filmico.
In modo molto sottile ed efficace il film introduce sin dall’inizio segnali allarmanti, soprattutto nel rapporto ambiguo tra Ellen e la sua famiglia e nei dettagli psicologici (come l’amore morboso per il padre) che, rivelati gradualmente, vanno presto a formare un ritratto “mostruoso”. Ma è nel descrivere il nascere dell’interesse e dell’amore tra Richard e l’altro personaggio femminile, la sorella di Ellen (evidentemente il suo doppio-buono) soltanto con un gioco di sguardi che il film tocca vertici altissimi.


Quanto a Gene Tierney, star assoluta, suoi sono i momenti indimenticabili: quando disperde a cavallo le ceneri del padre; nell’agghiacciante scena sul lago quando matura lentamente l'idea di sbarazzarsi del giovane Danny, in un montaggio alternato tra il suo volto impassibile e l’inquadratura del ragazzo che si allena a nuotare per riacquistare l’uso delle gambe; infine, quando per poter finalmente restare da sola con l’uomo che ama alla follia decide di uccidere il figlio che porta in grembo gettandosi dalle scale. Con un materiale narrativo a tinte forti come questo l’interpretazione della Tierney avrebbe potuto essere istrionica, da grande mattatrice, alla Bette Davis per intenderci. Invece è sottile, con piccole mutazioni nel volto e nella voce ad evidenziare i cambi improvvisi. Cambi così sfumati da risultare perfettamente credibili e per questo ancora più sconvolgenti: non sembra davvero esserci premeditazione o calcolo nelle terribili azioni di questa donna, ma una problematica psicologica profonda, desiderio di esclusività e possesso, che la porta a perdere la lucidità e a non avere più il controllo di sé stessa. Come rivela alla fine nel dialogo con Richard, qualsiasi cosa lei abbia fatto, l’ha fatta per amore, un amore malato, morboso e totalizzante che non ammetteva estranei nel suo cammino. E in questa apertura così sincera e disarmante la Tierney rivela e partecipa pienamente della miseria del personaggio e della sua statura tragica.

Noir e melodramma si fondono con risultati altissimi anche grazie ad un lavoro sul colore incredibile (la fotografia di Leon Shamroy fu premiata con l’oscar), che ha eguali nel cinema dell’epoca solo in altri due film: Duello al sole (1946) di King Vidor e Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray, altri due capolavori che intrecciano melodramma, noir e western ed hanno al centro due figure femminili impressionanti interpretate da Jennifer Jones e Joan Crawford. Ed è ancora l’uso fiammeggiante e sfrontato del colore che contraddistingue ulteriormente il melo' dal noir. Se nel noir è il gioco delle luci e delle ombre a sottolineare metaforicamente il senso di pericolo e a creare la tipica atmosfera onirica, l’esplosione dei colori in Femmina folle crea un universo cinematografico stilizzato e barocco che evidenzia ancor meglio per contrato la forza esasperata delle passioni e il contenuto “nero”, disperato e tragico della rappresentazione filmica.

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