sabato 10 ottobre 2009

Motel Woodstock: il cinema umanista di Ang Lee

Sono un fan di Ang Lee almeno dai tempi dell’austeniano Ragione e sentimento (1995) e di quella gelida, malinconica ricognizione sulla famiglia americana che era Tempesta di ghiaccio (1997). L’interesse e la stima si sono poi trasformati in amore e devozione con Brokeback Mountain (2005, assieme a Mystic River di Clint Eastwood, forse l’unico vero classico recente del cinema americano) e con l’iper-lussuoso melo’ Lust, Caution (Lussuria, 2007). Non particolarmente innovativo dal punto di vista del linguaggio filmico ma non per questo meramente illustrativo o convenzionale, Ang Lee è un regista portavoce di un’idea di cinema classico che io sottoscrivo e apprezzo a spada tratta (ovviamente se sostenuta da una certa densità di scrittura e di riferimenti: per intenderci, anche Ron Howard è un cineasta classico, ma troppo vincolato ad un tipo di rappresentazione standardizzata e soggetta all’industria hollywoodiana).
Ang Lee ha dimostrato con gli anni non solo una notevole originalità tematica nel passare con grande versatilità da un genere all’altro ma anche e soprattutto una mano eccellente nella direzione degli attori. Rivedendo i suoi film, ciò che più colpisce e impressiona (a parte l’invidiabile carnet di premi raccolti in ogni dove) è il suo “umanesimo”, il suo stare attaccato ai corpi e ai volti dei personaggi, la sua aderenza alla materia narrativa, la sua straordinaria, questa sì, abilità nel descrivere, analizzare, raccontare i sentimenti e le emozioni umane. In questo mettere sé stesso in secondo piano rispetto al racconto e ai suoi personaggi, in questo dare risalto agli attori, Ang Lee si può definire un autore classico, un po’ come Clint Eastwood (con tutti i dovuti distinguo), ma senza il disperato pessimismo e la rigorosa asciuttezza di quest’ultimo. O, meglio, come Stephen Frears, eclettico quanto il regista taiwanese e anche lui autore di un tipo di cinema incentrato sugli attori e su un’idea di regia “invisibile” funzionale al racconto e quindi estremamente efficace, rigorosamente precisa tanto nella scansione narrativa quanto nella definizione dei piani.




Dopo le traversie della censura di Lust, Caution, con Motel Woodstock (Taking Woodstock), presentato all’ultimo Festival di Cannes, Ang Lee si prende una vacanza dai temi drammatici e ritorna alle atmosfere brillanti e leggere di uno dei suoi primi lavori, Il banchetto di nozze (1993). E di commedia si tratta: per risollevare le sorti del malandato motel di famiglia, il giovane Elliott (Demetri Martin) decide di affittarlo come base agli organizzatori di una manifestazione musicale (che si erano visti rifiutare l’autorizzazione in un paese vicino) e si trova così, per caso, a mettere in moto la macchina organizzativa di quello che sarà il più importante raduno rock della storia.
Attraverso la prospettiva privata ed esterna del protagonista, Ang Lee rievoca quindi il momento più rappresentativo degli anni della controcultura e della liberazione sessuale, la tre-giorni di Woodstock. E lo fa costruendo attorno allo sguardo timido e incerto del protagonista un affresco nostalgico e divertente dell’evento e dando vita a una galleria di personaggi buffi e strampalati, su tutti Sonia, la madre taccagna di Elliott benissimo interpretata da Imelda Staunton. Ciò che davvero interessa ad Ang Lee è catturare lo spirito autentico che si doveva respirare sulle colline di Woodstock, quel senso di libertà e di apertura al mondo e alla vita, di frenesia e di grande partecipazione collettiva. Per una volta, il racconto passa quindi in secondo piano rispetto alla Storia e alla sua ricostruzione d’epoca (peraltro perfetta fin nei minimi dettagli) e in questo Lee tradisce un po’ sé stesso e la propria peculiarità.
Tuttavia di grande effetto risulta il ricorso allo split-screen nelle immagini del corteo di hippies che si muove verso il raduno: la suddivisione dello schermo non solo rimanda ad una tecnica televisiva degli anni ’60, ma rende bene il caos, la frenesia e l’entusiasmo del concerto, come se Lee mostrando più inquadrature nello stesso momento volesse abbracciare tutto e tutti col suo sguardo da entomologo, in una moltiplicazione dei punti di vista che crea un effetto caleidoscopico di grande efficacia. Si noti che il palco non viene inquadrato nemmeno una volta, se non da lontano, attraverso lo sguardo allucinato e sognante di Elliott sotto acidi. Ed è significativo che Elliott non riesca fino alla fine a recarsi a vedere il concerto, a conferma del fatto che Lee vuole suggerire le emozioni e lo spirito che animarono l’evento, piuttosto che rappresentare l’evento stesso. Dove il film non convince e, dispiace dirlo, delude è nei riferimenti alla tematica omosessuale, tematica che peraltro Lee stesso con Brokeback Mountain ha contribuito a sdoganare nel circuito hollywoodiano mainstream. L’omosessualità del protagonista è troppo frettolosamente archiviata così come risulta soltanto abbozzata la figura peraltro interessante di Vilma, transgender ante-litteram (interpretata da un goffo e dolce Liev Schreiber).
Detto questo, il film è godibilissimo e molto spiritoso. Ma, vista la straordinaria filmografia del suo autore, un po’ al di sotto delle aspettative.


Voto: 7

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