domenica 21 marzo 2010

L'arrischiato e vacuo estetismo di "Io sono l'amore"


Ambiziosissimo ritratto di una famiglia dell'alta borghesia industriale milanese, Io sono l'amore è stupefacente dal punto di vista stilistico ma inconsistente nella scrittura dei caratteri e nello sviluppo narrativo. La disparità tra la vacuità del racconto e lo spessore della componente visiva è tanto stridente che lascia il dubbio di una scelta precisa, ma l'estrema ricercatezza stilistica non sorretta da un'adeguata struttura diegetica rischia lo sfoggio fine a se stesso.

L'approccio estetizzante di Luca Guadagnino, autore anche della sceneggiatura, parte sin dai titoli di testa che ricalcano il cinema degli anni '50 e '60 (alla Lontano dal paradiso, per intenderci), con le splendide immagini di una Milano innevata e sospesa e la colonna sonora operistica di John Adams. Subito dopo il regista inizia a muovere la macchina da presa con eleganza consumata e un'arrischiata varietà di soluzioni stilistiche (sinuosi carrelli, fuori fuoco, angolazioni dall'alto, dettagli, montaggio poetico) all'interno dell'immensa casa dei Recchi, riuniti intorno ad una gelida e lussuosa tavolata in occasione del compleanno del nonno-patriarca . Nel riprendere con estrema perizia l'andirivieni di domestici e portate e gli intrecci di sguardi fra gli astanti, Guadagnino cita Visconti (Gruppo di famiglia in un interno) e Scorsese (L'età dell'innocenza) e ci restituisce un microcosmo socio-familiare credibile ed inquietante.


A poco a poco però lo stile sfolgorante si rivela eccessivo rispetto al materiale narrativo e alle motivazioni psicologiche dei personaggi e il film mostra presto la corda di un gioco superficiale, decadente e affascinante, ma anche piuttosto irritante. Poco o niente ci è dato di sapere di questi personaggi, piatte ed ingessate figure su sfondi architettonici (gli esterni a Milano e Sanremo, inquadrati con un fin troppo esibito gusto artistico). Guadagnino punta altissimo, gira come se aspirasse all'opera lirica, al melodramma o al thriller dei sentimenti, e in alcune sequenze fa centro: nella bellissima scena d'amore tra Emma ed Antonio immersi nel paradisiaco rifugio montano lo spettatore si trova di fronte ad un film muto non-narrativo, quasi un'opera d'arte sperimentale. Viene il dubbio che senza dialoghi ed opportunamente accorciato Io sono l'amore potrebbe essere un capolavoro. Così, è invece il debordante ed ingenuo esercizio di un autore che sperimenta e mette in campo tutte le proprie carte con malcelata presunzione.


All'inizio apparentemente integrata nell'algido universo dei Recchi, Emma, moglie e madre perfetta ma dallo sguardo inquieto e dall'identità vaga, è risvegliata nei sensi dal fascino selvaggio del cuoco Antonio e ritrova se stessa e l'amore nella fuga dalla cattedrale di famiglia. L'assunto di fondo (la scoperta di sé nella natura e nella rinuncia alle sovrastrutture) fa molto vecchio cinema anni '70, ed anche il ricalco postmoderno di stilemi retro' risulta gratuito proprio perché non sostenuto da alcuna intenzione di parlarci della contemporaneità. Il risultato è un affresco impressionista bellissimo da vedere ma assolutamente privo di una qualsiasi urgenza.

Impegnata a recitare in italiano con accento russo e a dare spessore ad un ruolo che lo script liquida in poche righe, Tilda Swinton è al solito sublime: anche se usata soltanto a livello iconico, tra primi piani, pose e carrelli che le volteggiano intorno al limite del vampirismo e della pornografia, riesce a suggerire e a convogliare tutta una tavolozza di emozioni soltanto con lo sguardo.
voto: 5

Nessun commento:

Posta un commento