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sabato 24 ottobre 2009

Nuovo incubo targato Coen

E’ un incubo travestito da commedia grottesca e surreale il nuovo lavoro dei fratelli Coen. Introdotto da un enigmatico prologo in yiddish, A Serious Man racconta la storia di Larry Gopnick professore ebreo di matematica nella Minneapolis degli anni '60, travolto suo malgrado da eventi e circostanze sempre più assurde. Non riuscendo a reagire e non trovando risposte ai propri tormenti esistenziali si rivolge all’ebraismo e chiede udienza ai rabbini per capire il significato nascosto degli eventi e la direzione da seguire.

Strutturato come una successione di aneddoti quotidiani apparentemente banali (alcuni molto divertenti) raccontati con gelido, straniante distacco ma al tempo stesso con tono e sguardo benevoli, il film ha una geometrica costruzione circolare che toglie il fiato. Il profilo narrativo è solo in apparenza basso o in sottotono rispetto al meccanismo ad orologeria di No Country For Old Men. I Coen proseguono infatti lo stesso discorso filosofico sul male e sul caos del film precedente scegliendo di raccontare una storia piccola, forse autobiografica, profondamente immersa nella cultura e nello spirito ebraico (qui descritti con humour ad un tempo dissacrante e nostalgico) e lo fanno sfoderando il loro consueto formalismo e la loro straordinaria potenza espressiva. In questo modo riescono ad essere ancora più sottili, insinuanti e devastanti nel loro pessimismo cosmico: l’accumulo di aneddoti sempre più insensati non lascia scampo a niente e nessuno.

I Coen si divertono così a spiazzare lo spettatore, facendolo viaggiare su atmosfere sospese e tempi dilatati improvvisamente rotti da bruschi interventi del “caso”, ed inseriscono apologhi geniali (come quello del dentista, raccontato dal secondo rabbino) che hanno l’effetto di produrre ulteriore frustrazione e domande irrisolte. E il finale è emblematico: è inutile cercare di capire il senso delle cose e delle persone, per quanto bizzarre e strampalate esse siano. Qualcosa di inaspettato (un incidente, una malattia, un tornado all’orizzonte) può sempre accadere, qualcosa di peggiore ed ancora più assurdo. Né la religione, con tutto il suo apparato rituale e la sua tradizione secolare può dirci più di quanto già non sappiamo.

Siamo nelle mani del caso e del relativismo, in balia dell’insanabile scontro tra razionalità e spiritualità, certezza della matematica da una parte e incertezza assoluta del destino dall’altra. Persino la fisica non dà più risposte certe, la prospettiva e il punto di vista da cui si guarda modifica la realtà stessa delle cose. In questo senso non sapremo mai se il vecchio del prologo è uno spirito oppure è un uomo in carne ed ossa. Lo vediamo uscire dalla porta e le probabilità che muoia dietro l’angolo o si allontani nella neve sono le stesse. Una cosa è certa: marito e moglie resteranno fermi nelle loro credenze. E quel tornado nero che si avvicina minaccioso all’orizzonte, potrebbe spazzare via la bandiera americana e travolgere tutti. O forse no.

Voto: 8

Meryl meets human beings




Red Carpet Meryl





venerdì 23 ottobre 2009

Le stelle di Roma

Con il Marc'Aurelio d'oro alla carriera a Meryl Streep cala il sipario sul Festival del Film di Roma. Miglior film Brotherhood dell'italo-danese Nicolo Donato. Premio del pubblico e Gran Premio della Giuria a L'uomo che verrà di Giorgio Diritti. Migliori attori Sergio Castellitto per Alza la Testa di Alessandro Angelini e la bravissima Helen Mirren di The Last Station, che inizia così la sua corsa verso l'Oscar. Up in the Air, tra i favoriti alla vigilia, è rimasto a bocca asciutta. Al prossimo anno!

giovedì 22 ottobre 2009

Meryl, il campo magnetico della perfezione


L'avevo promesso e alla fine l'ho fatto. Pur non avendo il biglietto per assistere all'incontro-intervista con Meryl Streep questa sera al Roma Film Fest, mi sono stoicamente presentato in biglietteria due ore prima dell'evento alla (disperata) ricerca di qualcuno che avesse un biglietto in più. Non è che nutrissi molte speranze, visto il recente latitare della dea bendata dalle mie parti. Ma dovevo tentare ed ho avuto ragione. Non solo ho trovato qualcuno che mi ha addirittura regalato il biglietto, ma tale siderale epifania si è verificata appena ho messo piede in biglietteria. C'è solo un termine per descrivere questo incredibile colpo di fortuna.

Alla fine Meryl è arrivata, ha sfilato sul red carpet sotto i flash di fotografi e fan, ha firmato autografi, si è lasciata felicemente travolgere dall'ovazione che ha accolto il suo ingresso nella Sala Sinopoli. Ave Meryl, la più grande attrice vivente, un monumento di storia del cinema.
Dal vivo è proprio come ti aspetteresti: brillante, disponibile, misurata, spiritosa, elegantissima. La maggior parte delle clip proiettate (a parte Il diavolo veste Prada, l'inevitabile Mamma Mia! e il meraviglioso I ponti di Madison County) riguardavano i primi anni della sua carriera: Il cacciatore, Manhattan, Kramer vs Kramer, La scelta di Sophie. In un'ora di intervista era praticamente impossibile passare in rassegna in modo esaustivo una carriera così duratura e straordinaria e fa sorridere che gli applausi più calorosi siano stati proprio per Mamma Mia! (il suo più grande trionfo commerciale, di certo non uno dei suoi film migliori). Personalmente mi sarebbe piaciuto ascoltare qualche domanda su The Hours, ma anche se fosse stata in programma, non c'era più tempo.

Ci si aspetta sempre da queste interviste che l'attore si metta a nudo e riveli i segreti della propria arte, ma così non è. Ripercorrendo i primi anni della sua carriera, un po' per modestia, un po' per sfatare il mito della perfezionista e della prima della classe, Meryl non ha accennato nemmeno una volta a quanto abbia studiato per interpretare un personaggio. E così Manhattan e Kramer vs Kramer furono girati quasi contemporaneamente e lei era tutt'altro che preparata (anche perchè contemporaneamente recitava Shakespeare a teatro ogni sera). Alla domanda sulla sua strabiliante abilità nell'imitare accenti e cadenze straniere, Meryl si lancia in una gag strepitosa: approfittando di una interferenza con il suo microfono, rivela di essere un campo magnetico che non solo manda in tilt i microfoni, ma attira a sé gli accenti, i tic, i gesti delle persone e li raccoglie. Più volte risponde con un laconico I don't know. E forse la risposta è proprio questa. Lei non lo sa. E' ovvio che un attore si prepari e studi, ma la preparazione non serve a niente se sulla scena, sul set, non si accende la scintilla, se non succede nulla. E quello che può succedere, non lo sa nemmeno l'attore. O almeno il grande attore. Ecco la lezione di Meryl Streep: gli attori hanno la possibilità di cogliere il senso profondo della vita. Non c'è nulla in realtà di cui possiamo essere certi. Non sappiamo in anticipo cosa accadrà, non possiamo mai sapere come andranno a finire le cose. Un attore deve riuscire a stupirsi ogni volta, deve lasciarsi cogliere di sorpresa al primo come al trentesimo ciak. Sì, ma come? La scintilla, il genio, un dono. Ave Meryl.

martedì 20 ottobre 2009

The Last Station


Da spettatore attento e smaliziato sono in genere incline a valutare con sufficienza o comunque con sospetto ogni volta che un film mi trova così emozionalmente scoperto e vulnerabile da cadere in tutte le sue trappole patetiche e sentimentali. Nondimeno, per quanto mi abbandoni o meno al flusso emotivo, ritengo che non solo ogni spettatore in sala veda sempre il proprio film, pur vedendo tutti lo stesso film, ma che ogni visione è un’esperienza unica e irripetibile, risultato dell’incontro tra un oggetto immutabile (il film) e un soggetto attivo (lo spettatore) che in base al proprio stato interiore recepisce il film, lo vive e di conseguenza lo trasforma ogni volta.
Detto questo, si vede che ieri sera fossi in un mood particolarmente tempestoso perché di fronte a The last station di Micheal Hoffman presentato al Roma Film Fest, ho pianto a dirotto come non mi capitava da tempo.

Tratto dal romanzo di Jay Parini, il film racconta gli ultimi anni della vita di Lev Tolstoj (Christopher Plummer) e la disputa che lo divise dalla moglie, la contessa Sophja (Helen Mirren), in merito al testamento e ai diritti sulle sue opere letterarie. Il grande scrittore russo aveva da anni abbracciato una nuova etica religiosa che poggiava sull’amore e sull’armonia universale, sul pacifismo e sul rifiuto della proprietà privata e dell’arte come commercio (il tolstoismo). Sostenuto da Vladimir Chertkov (Paul Giamatti) Tolstoj arrivò a rinunciare ai diritti d’autore sui propri lavori per cederli al popolo russo, decisione che causò feroci litigi con la moglie. Contraria alla conversione etica del marito un po’ per amore, un po’ per ragioni economiche (il timore che i consiglieri convincessero Tolstoj a liberarsi di ogni suo bene senza lasciare nulla in eredità alla famiglia), la contessa Sophja si vide tutt’ad un tratto messa da parte dalla nuova ideologia del marito fino ad essere allontanata dai suoi collaboratori.

Il materiale narrativo è quindi piuttosto interessante e succulento ma Micheal Hoffmann (che non è mai stato un grande regista) si limita ad illustrare la vicenda in modo convenzionale, cercando comunque di evitare il rischio di teatralità ed accademismo tanto comune alle confezioni d’epoca. L’afflato di fondo però è potente (belle le musiche di Sergei Yevtushenko), l’ispirazione sembra sincera (Hoffman è anche autore dello script) e il finale strappa (ben) più di una lacrima. Non si può negare che il conflitto tra amore e ideologia sia articolato in modo netto ed efficace, con la figura luciferina di Giamatti da una parte e l’impeto regale della Mirren dall’altra e le scene madri non si contano. La regia è corretta e lascia che il lavoro lo facciano gli attori, preoccupandosi semplicemente di non perdere nessun movimento degli occhi o delle labbra. E gli attori restano il principale motivo di attrazione del film: Plummer torreggia da gigante ed Helen Mirren divora la scena alternando con consumata maestria enfasi teatrale e regale dignità. Ma anche James McAvoy è notevole: poche cose sono così ardue da rendere come la purezza d’animo e la trasparenza, e nel ruolo di Valentin, il giovane segretario di Tolstoj, l’attore di Espiazione è commovente nella sua assoluta limpidezza. Tutti e tre dovrebbero essere in lizza per i prossimi Oscar.

Voto: 7

lunedì 19 ottobre 2009

Up in the air


Appena uscito dalla sala affollatissima e surriscaldata dove proiettavano Up in the air al Roma Film Fest, il primo fugace (e provinciale) commento è che gli americani le commedie le sanno fare e le fanno davvero bene. Up in the air è un prodotto mainstream (confezione lussuosa, grossi nomi in cartellone) che pur all’interno di una struttura classica riesce a veicolare contenuti poco rassicuranti e confortanti sulle relazioni, sull’amore e sulla vita in generale (oltre ad articolare in modo anche un po’ furbo e consolatorio un discorso molto attuale sulla crisi economica globale).

Ryan Bingham (George Clooney) è un uomo che ha fatto del lavoro la sua ragione e la sua filosofia di vita. E’ un tagliatore di teste, si occupa di comunicare a dipendenti di aziende sparse negli Stati Uniti che sono stati appena licenziati. E’ quindi distaccato, freddo, molto cinico, non si fa coinvolgere da niente e da nessuno, è praticamente una macchina da guerra. Viaggia per oltre 300 giorni all’anno da un capo all’altro dell’America e gli aeroporti sono diventati il suo habitat naturale. Non ha una famiglia a cui tornare né un legame affettivo stabile, la sua casa è un grigio, impersonale e vuoto monolocale. Tutto quello di cui ha bisogno sono il suo leggero e maneggevole trolley e il suo portafogli. Tutto ciò che desidera è continuare ancora a viaggiare per diventare la settima persona al mondo ad avere percorso il milione di miglia aeree. Le cose inizieranno a cambiare con l’entrata in scena di due personaggi femminili che travolgeranno ogni sua sicurezza: Nathalie (Anna Kendrick), giovane e rampante neocollega ideatrice di una nuova modalità di licenziamento via internet e Alex (Vera Farmiga), l'affasciante frequent flyer con cui Ryan intraprende una frequentazione inizialmente occasionale e via via sempre più intensa. Per ragioni diverse, sarà il rapporto con Nathalie (che Ryan è costretto suo malgrado ad accompagnare in una specie di apprendistato) e con Alex (che sembra essere il suo alter ego femminile) a provocare un graduale e profondo cambiamento in Ryan. Il finale è agrodolce e molto riuscito e peccato per la solita estenuante celebrazione del valore della famiglia americana attraverso cui superare crisi e momenti difficili. Per fortuna, caso insolito per una commedia hollywoodiana, sono il senso di sconfitta e pessimismo a prevalere sull’atmosfera generale.

Al terzo film dopo Thank you for smoking e Juno, Jason Reitman non è più una sorpresa ma una conferma. Up in the air è sicuramente il suo lavoro più maturo e complesso, una commedia che alterna sapientemente risate intelligenti e commozione non gratuita, diretta con gran classe, scritta benissimo ed interpretata da un cast in stato di grazia. George Clooney è sempre stato un bravo attore, oltre ad essere una star di prima grandezza dotata di innegabile fascino e di un'eccellente capacità comunicativa. Ma nel ruolo di Bingham supera sé stesso aggiungendo alla tavolozza dei suoi colori sorprendenti note di tristezza, sconforto e fragilità che finora non aveva mai toccato con tanta credibilità e sensibilità. Al personaggio di Nathalie è assegnata la funzione di comic relief e sono legati i momenti più divertenti del film, ma Anna Kendrick è talmente abile da tracciare un ritratto a tutto tondo molto efficace. Ma è Vera Farmiga, bellissima e sexy, a bucare lo schermo nel ruolo di Alex con una recitazione sottile e obliqua. E’ suo il colpo di scena più imprevisto del film: la sceneggiatura sembra per un attimo aver barato con lo spettatore ma in realtà articola il climax in modo perfettamente coerente al punto di vista assunto sin dall’inizio, quello del protagonista maschile.


Il film esce negli States il 4 dicembre e in Italia all’inizio del prossimo anno. George Clooney ha buone probabilità quest’anno non solo di essere nominato all’oscar, ma di portarsi a casa la statuetta come attore protagonista (dovrebbe essere un testa a testa tra lui e Colin Firth). Quanto alle due donne, meriterebbero entrambe di essere candidate come attrici non protagoniste, ma la concorrenza quest’anno è spietata (ci sono le attrici di Nine, Susan Sarandon per The lovely bones, Julianne Moore per A single man e quella che sembra già essere la vincitrice annunciata, Mo’nique per Precious) e pare che lo studio voglia promuovere e sostenere Vera Farmiga come protagonista. Candidatura assicurata anche per film, regia e script.

Voto: 8 -

Seconda visione del film in data 9 dicembre:
http://best-actress-confidential.blogspot.com/2009/12/re-viewing-tra-le-nuvole-up-in-air.html

Voto: 7-

venerdì 16 ottobre 2009

Che la Festa abbia inizio!

Si è aperta ieri con la proiezione di Triage di Danis Tanovic (con Colin Farrell, Paz Vega e e un acclamatissimo Christopher Lee) la quarta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma presieduta da Gian Luigi Rondi e diretta da Piera Detassis. Il cartellone è ricchissimo di eventi: oltre alle ghiotte retrospettive su Meryl Streep (Marc'Aurelio alla carriera e interprete di Julie & Julia) e Heath Ledger (tra le star di The Imaginarium of Doctor Parnassus di Gilliam, il suo ultimo film), i titoli più interessanti sembrano essere almeno sulla carta Hachiko: a dog's story di Lasse Hallstrom con Richard Gere (che incontrerà il pubblico sabato 17) e Joan Allen, The city of your final destination di James Ivory con Anthony Hopkins, Laura Linney e Charlotte Gainsbourg, Up in the air di Reitman, The last station di Hoffmann e A serious man dei Coen (di cui ho già parlato in un post precedente).
Tra gli italiani occhi puntati soprattutto sull'atteso Viola di mare di Donatella Maiorca con la coppia Valeria Solarino e Isabella Ragonese e L'uomo che verrà di Giorgio Diritti con Maya Sansa e Alba Rohrwacher. Per chi è su Roma un salto al Villaggio del Cinema è d'obbligo.
Quanto a me, in attesa di vedere i film di cui ho già acquistato il biglietto, stamattina mi sono prefisso un nuovo obiettivo: partecipare al prossimo Roma Film Fest e alla prossima Mostra del Cinema di Venezia come accreditato e non come spettatore pagante. Avendo studiato recitazione so benissimo quanto sia importante la definizione dell'obiettivo e del compito nella costruzione del personaggio. Nel corso della storia innumerevoli ostacoli potrebbero frapporsi al raggiungimento dell'obiettivo creando motivi di conflitto (esterno e/o interno), ma se l'obiettivo è saldo, come professano tutti i manuali di recitazione e di sceneggiatura, non c'è ostacolo o conflitto che tenga. E il lieto fine dovrà essere assicurato.

giovedì 1 ottobre 2009

Roma Film Fest: il giorno che mi persi Meryl Streep

Fulminati in poche ore i biglietti per l'incontro con Meryl Streep e l'anteprima del suo Julie&Julia al Festival internazionale del Film di Roma. A meno che non provi ad imbucarmi all'ultimo minuto, non riuscirò a vederla sul palco mentre viene insignita del Marc'Aurelio alla carriera. Tutto questo, per un movie-star obsessed come il sottoscritto, è davvero un duro colpo alla mia stabilità mentale. In compenso ho rimediato i biglietti per due anteprime niente male: Up in the air di Jason Reitman, con il terzetto Clooney, Kendrick, Farmiga in odor di nomination e A serious man, la nuova opera dei fratelli Coen. Altri titoli di richiamo del festival sono l'anteprima assoluta dell'ultimo film con Heath Ledger, The Imaginarium of Doctor Parnassus di Terry Gilliam, il nuovo Ivory e The last station, di Micheal Hoffman con Helen Mirren, Christopher Plummer e James McAvoy. E se, al limite fossi colto da una Streep-astinenza, potrò perlomeno consolarmi con una retrospettiva dei suoi film più famosi, rigorosamente proiettati in lingua originale. Melodrammatica consolazione.