domenica 20 dicembre 2009

Dorian Gray e l'orrido riflesso del sé


Dopo una settimana di visioni pressocché sconfortanti, in cui fra Amelia e Arthur e la vendetta di Maltazard di Luc Besson (in uscita il 30 dicembre) persino l'ultimo Pieraccioni sembrava pregevole, mi sono concesso un tuffo nel cinema di genere ed ho recuperato un film uscito il mese scorso. Terzo adattamento di Oliver Parker da un lavoro di Oscar Wilde dopo le commedie L'importanza di chiamarsi Ernesto e Un marito ideale, Dorian Gray non delude le aspettative (probabilmente perché nel mio caso erano piuttosto basse) e regala due ore di goticissimo, efferato intrattenimento.

Nell'accostarsi ad uno dei capolavori della letteratura inglese, Parker compie da un punto di vista visivo e di editing un'operazione simile a quella dei fratelli Hughes per La vera storia di Jack lo Squartatore con Johnny Depp: affresca una Londra nebbiosa e degradata, spinge il pedale sulla violenza e sul lato orrorifico, accompagna il racconto con un tetrissimo commento musicale e sottopone il materiale narrativo ad una modernizzazione inevitabile, fatta di accelerazioni, frenetici tagli di montaggio e una costante ricerca di effetti sonori e visivi.


Tuttavia riesce a non snaturare lo spirito dell'opera, che rivive sullo schermo in tutta la sua forza simbolica ed immaginifica. Il risvolto demoniaco, la fascinazione omosessuale della figura di Dorian, la riflessione filosofica sulla bellezza, il decadimento fisico come metafora della malattia e della corruzione dell'anima, il perturbante motivo del doppio magistralmente simbolizzato dal ritratto: tutto torna e risuona con efficacia nell'adattamento di Parker.

Ma il film funziona soprattutto nel racconto della progressiva corruzione del giovane Dorian. Guidato da Henry Wotton (un sopraffino Colin Firth), mellifluo Virgilio che lo accompagna in un'autentica discesa agli inferi insegnandogli il piacere della dissolutezza, Dorian si concede con puro, totale abbandono ai vizi della carne e alle depravazioni più efferate. Parallelamente il suo ritratto inizia ad invecchiare e come uno specchio si macchia dei segni tangibili di tutto il male che Dorian commette. Ed intanto il giovane continua a mantenere un aspetto di intaccabile, sempiterna beltà.


Con grande intuito, Parker non mostra (almeno fino all'epilogo) i mutamenti del ritratto se non attraverso piccoli dettagli (i sussurri rantolanti, il fondo che goggiola materiale organico in putrefazione), e tanto più numerose sono le cattive azioni di Dorian tanto più immaginiamo che il suo ritratto diventi orrido e mostruoso. La scelta di non mostrare l'accumularsi dei segni del male sul ritratto è così efficace che crea un vuoto spaziale spaventoso che ogni spettatore colma con la propria immaginazione. Di conseguenza, il finale facilmente delude perché mostra in un delirio di effetti speciali quello che prima era giustamente inguardabile e, per sua natura, perturbante: la propria anima marcia e malata.

Se avesse avuto più coraggio, Parker non avrebbe mai dovuto mostrare il ritratto nemmeno nel finale, o perlomeno avrebbe dovuto andarci meno pesante con gli effetti visivi. Gratuite anche un paio di inquadrature "soggettive" dalla prospettiva del ritratto: che sia vivo è chiaro, ma che abbia una specie di videocamera nascosta con cui guarda i personaggi (è quello l'effetto!) sembra davvero una forzatura.

Grande Colin Firth, ma è Ben Barnes, già principe Caspian, a dominare lo schermo, bellissimo soggetto del proprio desiderio ed enigmatico oggetto sessuale per l'obiettivo desiderante della macchina da presa. Assolutamente perfetto quando si abbandona al male con innocenza e lascivia.

Voto: 7

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