giovedì 15 ottobre 2009

Basta che funzioni


Sarà che nell’ultima settimana ho visto in successione il nuovo Ang Lee, La doppia ora e Tarantino in un’escalation di gradimento, ma il nuovo film di Woody Allen Basta che funzioni (Whatever works), non mi ha entusiasmato.
In realtà, per trovare un film di Woody Allen che mi abbia conquistato davvero, bisogna tornare al 2005, a quel Match Point che pure rappresentava un’anomalia (per genere e densità di scrittura) nella sua recente produzione. Detto questo, il Woody Allen che continuo a preferire è quello dell’inizio degli anni ’90, probabilmente più per motivi nostalgici e personali che artistici, il Woody di Crimini e misfatti (1989), Misterioso omicidio a Manhattan (1993) e Pallottole su Broadway (1994). Gli alleniani convinti potrebbero infuriarsi perché non sto citando, tra gli altri, capolavori come Io e Annie (1977), Manhattan (1978), Broadway Danny Rose (1984) o Hannah e le sue sorelle (1986). Ma, si sa, le ragioni del cuore sono spesso oscure e va detto che non ho mai visto un film di Woody Allen più di una volta, anche quando mi ha elettrizzato come Match Point, noir asciutto e rigoroso nel suo pessimistico e disperato discorso sul caso e sulla colpa. Con tutte le differenze del genere, trovare adesso quella densità di scrittura e soprattutto quella finezza di stile e quella ricercatezza che in Match Point han fatto gridare ad una rinascita di Woody Allen (e che erano presenti in tutta la sua produzione almeno fino a metà anni ’90), è impresa ardua. Già Scoop (2006) riaggiustava il tiro, riconsegnandoci un Woody Allen leggero quasi fino all’inconsistenza (pur con la consueta maestria nell’inanellare scoppiettanti battute a raffica) stringato, minimalista e stilisticamente, diciamolo, un po’ sciatto. Ma con Vicky Christina Barcelona (2008), vuoi per la riuscita ambientazione catalana, vuoi per l’affiatato quartetto di interpreti (Bardem, Cruz, Hall, Johansson) il regista newyorchese faceva centro ancora una volta e tornava al successo con una commedia solare, inventiva e sexy.
Basta che funzioni, con la sua lievità e la sua freschezza narrativa, sembra voler bissare il successo del film precedente e almeno in Italia, dati del box office alla mano, ci è riuscito. Nelle sale dal 18 settembre il film veleggia verso i 4 milioni di euro di incasso. Un risultato ragguardevolissimo, segno che questo Woody Allen svecchiato, ancora cinico e pessimista ma profondamente umano, capace di dare a settanta anni suonati una bella lezione sul senso della vita e la sua fugacità, piace moltissimo.
Boris Yelnikoff (Ed Begley Jr), ex fisico di mezza età reduce da un fallito tentato suicidio, è Woody Allen con tutto il suo amaro sarcasmo, la sua misantropia e la tragica consapevolezza della propria genialità (in un mondo di stupidi vermetti, bambini idioti, fondamentalisti cattolici, reginette di provincia subnormali). Una sera incontra Melody (Evan Rachel Wood, molto brava in un ruolo che ricorda la Mira Sorvino de La dea dell’amore, 1995), una ragazzina di provincia scappata di casa e, pur tra mille resistenze, accetta di ospitarla per qualche giorno. La convivenza si trasformerà in matrimonio fino a quando la madre di Melody, Marietta (una strepitosa Patricia Clarkson), rintraccia la figlia e si presenta a casa della coppia (il fato che bussa alla porta) portando scompiglio e nuovi divertenti, imprevedibili sviluppi.
La commedia scivola veloce, senza intoppi e senza fronzoli tra mille battute geniali, ritmo serrato, sapidi caratteri e quella tipica aria improvvisata da jam session di bravi attori che fa tanto Woody Allen. Se c’è qualcosa che Woody Allen non ha smarrito è sicuramente la sua eccellente capacità affabulatoria. Tuttavia, ciò che in Basta che funzioni disturba un po’ è la programmaticità della lezione finale (il senso della libertà individuale e la necessità di essere sinceri con sé stessi senza nuocere agli altri) e le modalità con cui tale lezione viene “impartita”. Fin dalla prima scena Boris è consapevole dello sguardo del pubblico in sala e parla direttamente agli spettatori. Il pubblico è quindi chiamato in causa ed interpellato direttamente come destinatario del discorso filmico, a sottolineare l’urgenza della lezione. La trovata è piacevole ma lo scioglimento narrativo (con tutti i personaggi profondamente cambiati dopo aver scoperto e accettato la parte più sincera di loro stessi) è schematico e semplicistico, funzionale alla morale della favola, questo sì, ma in modo troppo scoperto.
Infine, nonostante la bravura di Ed Begley jr, dispiace non vedere Woody Allen nel “suo” ruolo: solo con la sua mitica presenza avrebbe dato al film maggiore spessore. E poi, se possiamo avere Woody, perché accontentarci di un attore che dice le sue battute e, in fondo, lo imita?

Voto: 7 -

1 commento:

  1. La verità è che mi sono addormentata per buona parte del secondo tempo e, ahimé, non posso dare la colpa alla stanchezza: quando un film mi piace, mi invade una scarica di adrenalina che mi tiene sveglia ben oltre la fine del film anche all'ultimo spettacolo (non era questo il caso). Eppure conoscendomi (avevo voglia di leggerezza, intelligenza, acutezza) c'erano tutti i presupposti perché mi piacesse. Allora che cosa non ha funzionato? Forse ciò che mi è piaciuto meno è il cast, ma anche la fotografia e soprattutto l'incapacità della sceneggiatura di sorprendere veramente.

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