martedì 11 maggio 2010

Biopic Cate


Nella rubrica Modern Divas dedicata a Cate Blanchett da oggi online su Loudvision.it al link
http://www.loudvision.it/rubriche-modern-divas-cate-blanchett-l-arte-del-trasformismo--775.html abbozzo un'analisi dell'arte e del carisma dell'attrice australiana riprendendo argomenti e film già affrontati su queste pagine. La Blanchett è diva e grande attrice allo stesso tempo: "porta a nuovi traguardi il mistero della recitazione" affrontando (e vincendo) sempre nuove sfide, e "infonde nuova linfa al concetto di divismo", mantenendo una stimata riconoscibilità tra blockbuster commerciali e film d'autore indipendenti.

Come scrivo in Cate Blanchett, l'arte del trasformismo, "la sua arte non sta solo nel saper oscillare con astuzia tra l’immagine della star e quella della raffinata interprete capace di qualsiasi volo con estrema naturalezza. Il suo carisma ha a che fare soprattutto con la capacità di adattare immagine ed acting style alle esigenze di ogni film. Come accadeva alla Streep negli anni ‘80, lo spettacolo del cinema coincide con lo spettacolo dell’attrice che scompare nel personaggio, modificando aspetto, fisicità, accento, timbro vocale e persino ritmo interiore

Se il corpo/volto dell’attrice si offre come pagina bianca e materia informe pronta ad accogliere tutte le emozioni del mondo, il trasformismo della Blanchett è il terreno su cui si misura il grado di spettacolarità offerto dai suoi film. Il biopic diventa allora la scena primaria dove assistere alla magia di queste mimetizzazioni".

E quale magia più grande e traguardo più incredibile della sua interpretazione di Bob Dylan in Io non sono qui di Todd Haynes (vincitrice della Coppa Volpi a Venezia 2007)? L'Oscar come attrice non protagonista andò a Tilda Swinton per Micheal Clayton ma, signori, il valore di questa prova della Blanchett è insuperabile ed incalcolabile. Tra tutte le sue performance è quella che ammiro di più dal punto di vista tecnico mentre, sentimentalmente parlando, sono più legato (nell'ordine) a Diario di uno scandalo, Bandits, Heaven e The Gift. Io non sono qui è un puzzle suggestivo e cerebrale in cui Haynes decostruisce la figura poliedrica ed inavvicinabile di Bob Dylan attraverso le interpretazioni di sei attori: Heath Ledger, Christian Bale, Richard Gere, Ben Whishaw, Marcus Carl Franklin e Cate Blanchett. Fra tutte queste diverse incarnazioni il tocco di genio di Haynes sta nell'affidare quella più fedele e somigliante all'originale ad una donna, per l'appunto Cate Blanchett. L'effetto è vertiginoso, una performance elettrizzante in magico equilibrio tra impeccabile mimetismo e (affascinante, provocatoria) rilettura del personaggio in chiave trasgender. La donna/attrice Blanchett sparisce completamente in un altro corpo/volto, re-inventandosi uomo con una naturalezza che ha dell'inaudito ed evitando in qualsiasi momento il pericolo dell'imitazione. Soltanto nell'ultima inquadratura ritroviamo l'attrice che guarda in camera e sorride direttamente agli spettatori, consapevole di essersi prestata ad un sofisticato gioco intellettuale. Un gioco che mette in campo questioni profonde riguardanti il mestiere stesso dell'attore, oltre ad un sottile discorso sulle politiche sessuali.


Il fatto che non abbia vinto il suo secondo Oscar per Io non sono qui è un mistero insondabile, di dimensioni pari solo alla grandezza stessa della performance. Anche l'anno precedente avrebbe meritato l'Oscar per Diario di uno scandalo (vinse Jennifer Hudson per Dreamgirls), ma era praticamente impensabile premiare solo lei e non Judi Dench (che si scontrava con Meryl Prada Streep e Helen The Queen Mirren). Il primo Oscar avrebbe già dovuto arrivare agli inizi della carriera per la prima Elizabeth nel 1998, ma anche in quel caso l'Academy confermò la sua cecità ricoprendo di allori Gwyneth Paltrow per Shakespeare in Love.

Mancate le nominations per Bandits e Veronica Guerin, ruoli che ricevettero comunque candidature ai Golden Globes, l'Oscar arrivò nel 2004 per The Aviator di Martin Scorsese, una statuetta che può essere ugualmente considerata la prima vinta da Cate Blanchett o la quinta conquistata da Katharine Hepburn. Tanto eccellente è la resa mimetica della Blanchett che sembra davvero di rivedere sullo schermo l'altra grandissima Kate. Il biopic è tutto focalizzato sull'ascesa e declino di Howard Hughes (un incisivo DiCaprio), ma la Blanchett riesce come sempre a catalizzare l'interesse del pubblico e non è un caso che il film smarrisca parte della sua fiamma nel momento in cui l'attrice esce di scena a metà pellicola. A differenza della performance nel film di Haynes tuttavia, in The Aviator la Blanchett è sì splendida, ma è fin troppo perfetta nel ricalcare movenze, gesti e vezzi della Hepburn da sfiorare il tecnicismo e l'accademismo. Troppo brava, troppo controllata: il risultato è un ritratto bellissimo da vedere ed assolutamente (quasi) identico all'originale ma, proprio per questo, troppo vicino ad una fredda e calcolata imitazione. Il problema riguarda però anche la sceneggiatura ed il modo in cui il personaggio è articolato. Lo sguardo di Scorsese sul mondo del cinema classico e sulle sue star resta glamour e di facciata, interessato soprattutto allo sfavillio dei flash dei fotografi piuttosto che ad una profonda rilettura dei personaggi. Ed il discorso vale sopratutto per il carattere della Hepburn, che probabilmente avrebbe bisogno di un biopic tutto suo, se non di una miniserie.


Restando in tema di personaggi realmente esistiti, l'altra grande interpretazione della Blanchett è quella della combattiva giornalista irlandese Veronica Guerin uccisa nel 1996 per il suo impegno nella lotta al narcotraffico. Il film diretto da Joel Schumacher nel 2003 è un classico biopic di denuncia senza infamia e senza lode, ma la performance dell'attrice è appassionata ed impeccabile come sempre e, prima dei film di Scorsese e Haynes, rivela le stupefacenti doti trasformistiche dell'attrice. Oltre al suo coraggio nel cimentarsi in ruoli difficili e all'inesauribile fiamma del suo dono.

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